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Mal di mare 

È il 2 gennaio, i traghetti riprendono il loro quotidiano andirivieni dopo la pausa festiva e finalmente posso lasciare Siquijor, una piccola isola dell'arcipelago filippino. I tre quarti d'ora di viaggio fino a Dumaguete sono indimenticabili: il mare è in tempesta, siamo tutti stipati con la porta ermeticamente chiusa e sudiamo copiosamente perché manca l'aria condizionata. Mentre mastico con solerzia un travelgum, faccio a gara con un coreano a chi ha il fazzoletto più zuppo. La tragicità della situazione viene sottolineata dai numerosi rosari che compaiono nelle mani delle donne filippine, e raggiunge picchi di insostenibilità durante i frequenti conati di vomito nelle retrovie.
Scesa sulla terraferma e ancora incapace di mantenere una posizione stabile sulla banchina, dei toscani con cui avevo condiviso il viaggio mi propongono di seguirli a Moalboal (che si trova su un'altra isola, raggiungibile con un traghetto di soli 20 minuti) perché hanno saputo da fonte attendibile che da quelle parti c'è bel tempo. Nonostante il fatto che i toscani fossero boriosi e parlassero a voce troppo alta, ci faccio pure un pensierino, ma poi la compagnia decide di interrompere il servizio a causa del mare grosso. Il poliziotto a cui chiedo informazioni comunque prova inutilmente a tranquillizzarmi ripetendo ossessivamente con un sorriso stolido: "No taipun! No taipun!" (nelle Filippine non sanno pronunciare la F)

Qualche mese dopo mi trovo a Koh Tao, in Thailandia, durante la stagione dei monsoni. Quando decido di lasciare l'isola il mare non è propriamente quello che si dice una tavola, ma mi illudo che il traghetto superveloce non dia problemi. Non mi rendo conto del dramma che sto per rivivere nemmeno quando vedo i passeggeri appena sbarcati: bende sugli occhi, visi bianchi come stracci, donne sostenute a braccio dai compagni, omoni che si siedono a metà passerella sulle loro stesse valigie guardando nel vuoto. Persino la ragazza ceca che è in viaggio da 6 mesi (che ne deve avere di pelo sullo stomaco) è ridotta molto male.
La mia occasionale compagna, una ragazzona canadese dotata di quella inscalfibile serenità tipica di chi frequenta lunghi seminari di yoga in India, mi riferisce che in biglietteria le hanno detto che il tragitto è tranquillo. Ora, io non so che idea hanno i thailandesi della tranquillità, però due ore e mezza in un'imbarcazione che dà delle tuzzate contro le onde così forti che le griglie dell'aria condizionata si staccano dal soffitto (sfiorando la testa mia e di altri passeggeri), piena di gente che urla aggrappata alla poltrona davanti e vomita in continuazione, insomma a me non sembrano tanto tranquille. Per fortuna la canadese col suo sorriso ayurvedico tiene a lungo poggiata la mano sulla mia dicendo: «È tutto okay» (mentre io sono intimamente convinta di stare vivendo i miei ultimi minuti di vita, pensando «Che cazzo sono venuta a fare in Thailandia? Aveva ragione mia madre: non me ne potevo andare come tutti in campeggio nel Salento?»). Quando finalmente scendiamo, la canadese mi svela che, avendo vissuto dieci anni su una barca ormeggiata nei pressi di Vancouver, non era stata particolarmente turbata dall'esperienza.