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UN PASSATO CHE NON SAPEVO DI AVERE

Viaggio nell'Argentina del Nord

Il mio primo viaggio in Sudamerica, nell'agosto del 2006, ha avuto come meta l'Argentina, ma è stata soltanto una coincidenza di tipo amministrativo. L'Argentina è un Paese così grande che, girandolo in lungo e in largo, potete spaziare dal paesaggio tipico delle latitudini tropicali di bassa quota, caldo e umido, agli scenari maestosi e aridi della regione pre-andina, fino alle aree più temperate, abitate per la maggioranza da bianchi. Potete incontrare contadini quechua, indios guaranì, donne robuste di montagna che trasportano pesanti sacchi colorati, ballerine di tango bionde e flessibili, gelatai campani e imprenditori torinesi. Potete imbattervi in palazzi coloniali tinteggiati di fresco, cactus altissimi a forma di mano, altopiani nudi e desolati, canyon dai tanti colori, chiese cattoliche e misteriose statue precolombiane.
E mentre passerete dalle infradito al cappello di lana, se punterete idealmente un cannocchiale in direzione dell'Europa, la riconoscerete per quello che realmente è: un continente ridicolmente piccolo ma storicamente ingombrante.

BUENOS AIRES
Il passato del viaggiatore cambia a seconda dell'itinerario compiuto, non diciamo il passato prossimo cui ogni giorno che passa aggiunge un giorno, ma il passato più remoto. Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva di avere: l'estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t'aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.
(Italo Calvino, "Le città invisibili")

A Buenos Aires ci sistemiamo tra gli edifici art déco della centralissima Avenida de Mayo. La sera fa freddo, ma è logico: qui in agosto è inverno. A cena in un ristorante con parrilla (suprema griglia su cui campeggiano gigantesche bistecche e imponenti salsicce), ho il primo impatto con i camerieri argentini, che mi hanno conquistato con le loro facce da commedia all'italiana. Dopo cena nessuno vuole accompagnarmi in una milonga, ma mi consolano promettendomi che ci andremo a fine viaggio, quando torneremo nella capitale per un giorno ancora.

La mattina è libera prima del volo pomeridiano per Iguazù. Piove ed è grigio in Avenida de Mayo e infatti i cani previdentemente indossano caldi maglioncini. Scorgo la sede delle Madri di Plaza de Mayo, il cui simbolo è un fazzoletto legato sotto il mento; sono ormai decenni che esse si incontrano ogni giovedì pomeriggio nella piazza da cui prendono il nome, per rivendicare la scomparsa e ottenere la restituzione dei loro figli, arrestati, torturati e fatti sparire durante il periodo della dittatura militare. Siamo a un soffio dalla movimentata Avenida 9 de Julio, una via così larga che ci sono quattro semafori di seguito da attraversare a piedi: da queste parti Carlotto inizia il suo tour dell'orrore nei meandri della storia della "guerra sporca" e dei desaparecidos nel libro "Le irregolari".
Il nostro tour meteorologicamente mesto procede invece verso plaza de Mayo, dominata dalla Casa Rosada, il palazzo governativo da dove si sono affacciati, tra gli altri, Evita Peron e Maradona. Di fronte invece vi è il cabildo, l'unico edificio in stile coloniale della città, semplice e lineare con le sue forme arrotondate e la bianchezza abbacinante della calce. Proseguiamo la passeggiata per vie commerciali come calle Florida, poco battute in questa cupa mattinata, se non fosse per i venditori di pellame che a quanto pare sono ben informati in merito all'interesse maniacale che gli italiani riservano a borsette, cinture e giacconi. Superata plaza San Martín, dedicata all'onnipresente generale che guidò la lotta per l'indipendenza del Paese dalle potenze europee, giungiamo a costeggiare il Puerto Madero che schiera una lunga fila di magazzini in mattoni rossi, molti dei quali trasformati in ristoranti fighetti.

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LAS CATARATAS DEL IGUAZÚ

Il clima di Iguazú è molto diverso rispetto a quello della capitale: se lì era praticamente inverno, qui è caldo e umido e la vegetazione è davvero lussureggiante. Mi trovo nel cuore della cultura di lingua guaranì, regione di grandi produttori di yerba mate, da cui si ricava la bevanda energizzante e amarissima che gli argentini si portano dietro dovunque in grossi thermos. Qui si producono anche tè, legno e il prelibato palmito, che non è altro che l'interno del tronco della palma tenuto a macerare per cinque anni. Puerto Iguazú è infestata di negozi di souvenir, tra i quali devo segnalare la tazza per il mate a forma di zoccolo di mucca; inoltre al ristorante scopro che quella che loro chiamano mozzarella è in realtà galbanino ma, ciononostante, la pizza a la piedra è molto più buona di quella di alcune pizzerie romane. 

Sono qui per visitare le cascate più imponenti del Sudamerica, che nacquero quasi 200 mila anni fa dalla confluenza tra i fiumi Iguazú e Paraná, nel luogo ora conosciuto come "Unione Tre Frontiere" (Argentina, Brasile e Paraguay). Normalmente precipitano almeno cinquemila metri cubi d'acqua al secondo per oltre settanta metri d'altezza e due chilometri di larghezza, nello scenario indimenticabile della foresta subtropicale. Mi preparo con costume da bagno e buste di plastica ad essere travolta dall'acqua che bagna completamente i visitatori quando attraversano le passerelle, ad essere assordata dalla favolosa Garganta del diablo, ad essere praticamente sommersa durante la gita in barca. E invece non vengo sfiorata nemmeno da una goccia d'acqua perché non piove da tre mesi, e anche il giro in barca si riduce di un pezzo perché il fiume è di gran lunga sotto il livello solito e le grandi pietre levigate sono squallidamente nude sotto il sole. Era dal '78 che non capitava un evento del genere e io mi chiedo cosa avrebbe fatto Indiana Jones, ma anche i due innamorati protagonisti del film di Wong Kar-Way "Happy together", alle prese con la siccità alle cascate di Iguazú.

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La speranza di vedere qualche animale tropicale viene drammaticamente frustrata: nel giro in jeep scorgo soltanto una minuscola scimmia cappuccino, le farfalle sono belle sì ma non grandi quanto una mano come mi avevano detto, mi posso lasciare intenerire solo dal coati, che è una specie di procione simbolo stesso del Parco Naturale, e purtroppo non appare nemmeno il becco di un tucano.
Nonostante siano a secco, le cascate me le vado a guardare anche dal lato brasiliano: attraversiamo il confine di stato, ci puliamo i piedi su un tappetino disinfettante e le ruote del pulmino su un tappetone disinfettante. Prima di raggiungere il Parco visitiamo la gigantesca diga idroelettrica di Itaipu, la più grande del mondo, che fornisce un quarto dell'energia di tutto il Brasile e la quasi totalità di quella del Paraguay (il dépliant mi informa che con il ferro e l'acciaio usati nella centrale si sarebbero potute costruire 380 Tour Eiffel). Il Parque Nacional do Iguaçu del versante brasiliano è privato (e non pubblico come dal lato argentino) e dunque perfettamente organizzato con attività di arborismo, canoa, rafting, corde sospese e sorvoli in elicottero. 

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MISIONES

Nella provincia di Misiones vi è la Miniera Wanda, dove si estraggono topazi, ametiste, cristalli di rocca, acquamarine e quarzi. I minatori spaccano la roccia alla ricerca di pietre preziose che vengono poi trasformate in gioielli ma anche, per esempio, in orrendi soprammobili.
Nei paraggi si possono visitare le rovine delle missioni di San Ignacio Miní, di Loreto e di santa Ana, alcune delle comunità di indios convertiti gestite dai gesuiti, create nel XVII secolo negli attuali territori dell'Argentina, del Paraguay e del Brasile per evangelizzare la popolazione locale. All’interno di queste reducciones gli indios abitavano in case tutte uguali, dividevano equamente le risorse della terra ed erano accomunati dai riti cattolici (cristianamente imposti con la forza). I gesuiti erano una potenza molto influente e le reducciones godettero di autonomia politica e amministrativa, grazie alla libertà che gli veniva garantita. Grazie all'istituzione di questi villaggi gli indios guaranì non solo furono risparmiati dalla voracità degli schiavisti portoghesi e spagnoli, ma soprattutto ebbero modo di raggiungere un certo livello di sviluppo e di istruzione, anche se ciò avveniva a patto di venir privati della libertà individuale e di essere sottoposti a un controllo piuttosto rigido. Nella seconda metà del Settecento, i gesuiti vennero espulsi da tutta l’America spagnola e tutte le missioni vennero distrutte.

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A San Ignacio Miní si possono visitare i resti delle abitazioni, della chiesa (di cui sono rimaste ampie porzioni ricoperte di bassorilievi), del collegio, del cimitero; qui nel periodo di apogeo vivevano più di tremila abitanti. Gli edifici erano tutti realizzati in roccia arenaria, il cui colore rosso crea un bellissimo contrasto con il verde dell'erba della Plaza de armas in questo pomeriggio di luce perfetta. L'uomo che ci fa da guida fa l'insegnante e ha metà viso devastata da un'ustione; parlando come una macchinetta, mi riferisce che guadagna circa 250 dollari al mese, troppo pochi per vivere dignitosamente, e dunque è costretto ad arrotondare con quest'altro lavoro.
Da Posadas, capoluogo della provincia, attraversando immense pianure brulle su strade sterrate battute da sporadici gauchos, si può raggiungere un posto davvero speciale: la Reserva Natural del Iberà. Il giro in barca di due ore ci porta dentro la laguna a stretto contatto con numerosissimi caimani mangiatori di piranha, capibara (giganteschi roditori nuotatori che vivono su queste isole flottanti), cicogne, cormorani, cervi delle lagune e numerosi altri uccelli. Dopo il pranzo possiamo scegliere tra un giro a cavallo e una passeggiata nell'umida foresta delle scimmie urlatrici, infestata da zanzare voraci e formiche enormi, arbusti strangolatori e alberi pelosi.

L'ultima tappa orientale nella cosiddetta Mesopotamia Argentina è Corrientes, dove campeggia un enorme murales realizzato dagli italiani per celebrare la grandezza argentina. Gli italiani che lottarono insieme agli argentini nell'eroica battaglia del 25 maggio 1865 sono ricordati anche nell'adiacente busto di Dante Alighieri.
È trascorsa una settimana dal nostro arrivo in questo emisfero e abbiamo trovato un clima davvero piacevole, alcuni paradisiaci paesaggi e diversi luoghi di interesse storico-culturale. Le restanti due settimane ci vedranno scorrazzare in climi e ambienti totalmente diversi, quelli del nord ovest andino, dove potremo finalmente tirare fuori pile, sciarpe e cappelli finora relegati negli anfratti più nascosti dello zaino.

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LA QUEBRADA DI HUMAHUACA

Il trasferimento nel nord ovest avviene con un bus notturno semi-cama (ossia quasi-letto, ossia molto comodo), con sandwich, merendina, "Superman" e "Titanic" inclusi nel prezzo, che parte a Resistencia e arriva a Güemes alle 5 di mattina. Da qui un altro bus ci conduce a San Salvador de Jujuy, capoluogo della provincia omonima, dove fa un freddo cane, le donne vendono tè bollente e mi si rompono i sandali.
Visitiamo la piazza principale, di forma quadrata, e la cattedrale, dotata di un fantastico pulpito in legno. Dopo la notte disagiata in bus ci ristoriamo alle Termas de Reyes, dove colgo l'occasione per rilassarmi con un massaggio "Armonia e raggi di sole". Chiacchierando nell'atrio, una coppia di Buenos Aires mi svela che tutti gli argentini di pelle bianca sono o italiani o spagnoli.

Da oggi abbiamo un pulmino giallo che ci accompagnerà per diversi giorni su e giù tra valli e altipiani, guidato dal godereccio René affiancato dal suo fido servitore muto. Siamo nella provincia di Jujuy, la più nord-orientale di tutta l'Argentina, situata ai confini con la Bolivia a nord e con il Cile a Ovest. Ci inoltriamo subito nella Quebrada di Humahuaca, un canyon lungo più di 150 km scavato dal Rio Grande, storico asse di collegamento tra le pianure meridionali e le Ande.
La prima sosta avviene a Tumbaya, dove c'è una delle tante deliziose cappelle risalenti al Seicento (in questo caso dipinta di giallo intenso e dalle forme semplici e arrotondate), che contiene un Cristo crocifisso che indossa una gonna di pizzo. Un passante in bicicletta mi racconta che il giorno della Domenica delle Palme il paese, che normalmente conta 600 anime, si affolla fino a raggiungere circa trentamila presenze. La fede cattolica è molto sentita e c'è un nutrito calendario di festività religiose, che in questa provincia convivono naturalmente con le antiche tradizioni dei popoli andini. A Maimara veniamo accolti da donne che ci lasciano i loro indirizzi per spedirgli cartoline e vestiti, sulla strada da cui si ammira la "tavolozza del pittore", una curiosa conformazione di rocce con colori che vanno dal rosso scuro al giallo. Facciamo un'escursione fino al cimitero, abbarbicato sul fianco della montagna, con le tipiche corone di coloratissimi fiori finti appese alle croci bianche sparse disordinatamente. A Tilcara c'è il pucarà, il villaggio fortificato abitato già nel periodo pre-incaico e poi fino alla definitiva occupazione spagnola. Questi popoli coltivavano mais e patate e allevavano lama, vigogne e alpaca. Bevo una gustosa birra blanca e acquisto cappello e sciarpa di lana per affrontare i rigori del clima andino.

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Infine, arrivati a Humahuaca, ci aspetta un hotel senza riscaldamento, dotato di un lugubre corridoio che potrebbe benissimo condurre alla cella della morte. Di fronte c'è una scuola elementare dove i bimbi entrano alle 8, cantano e recitano poesie per mezz'ora, ed escono alle 18, dopo aver cantato e recitato poesie per un'altra mezz'ora. Il paese è pieno di turisti fricchettoni e infestato da bambini che, con la scusa che oggi è il Dìa del niño, ci sciorinano poesiole in cambio di propina. L'arrivo in quota miete le prime vittime di mal di testa fulminante, da cui per il momento sono indenne: mi posso liberamente ingozzare di picante de mondongo (trippa), locro (una zuppa di mais, cipolle, carne e legumi), carne di lama e capretto.

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Il pulmino ci attende per condurci in Bolivia, attraverso rossi scenari montagnosi. Effettuata una sosta ad Abra Pampa per il pranzo (polvere e desolazione), giungiamo a La Quiaca, distante 5121 km da Ushuaia, estremo sud dello stesso Paese infinitamente largo (cioè lungo) ed estremo sud di tutte le terre emerse del mondo. Qui c'è la frontiera con la Bolivia per giungere a Villazon, dove ci incamminiamo insieme a decine di persone cariche di sacchi di merce, proteggendoci dal vento, dalla polvere e dal fumo di copertoni bruciati da alcuni manifestanti. La confusione e i colori di questa cittadina boliviana sono abbaglianti e lo shopping ci risucchia, come doveva essere.
Tornati in Argentina, per la cena e la notte raggiungiamo Yavi, sede dell'unico marchesato della provincia, ricordato con un museo che visitiamo insieme alla iglesia. Nell'hostal beviamo vino tinto davanti al camino. L'altitudine procura mal di testa e difficoltà respiratorie e agogno il livello del mare. Dopo cena chiacchieriamo con degli italiani che sono in viaggio con le loro enormi jeep superaccessoriate imbarcate dall'Italia.

Al mattino il freddo è intenso, René impreca contro il hijo de pute dell'albergo dove ha dormito come un surgelato. Lo convinciamo a portarci nei pressi di una duna sul cui fianco ci danno per iscritto il "Bienvenidos al Huancar" e l'escursione è deliziosa: lama al pascolo, piccola laguna luccicante e sabbia chiara tutta da scalare.
Rientrati nella ormai nota Quebrada di Humahuaca, facciamo sosta a Uquia (dove sorge la chiesetta di San Francesco), attraversiamo il Tropico del Capricorno a Huacalera (segnalato da cippo e vela di pietra) e arriviamo a Purmamarca, dove si affaccia la montagna dai sette colori. Tutto ci ricorda che la Quebrada è inserita da poco nel Patrimonio dell'umanità: bustine di zucchero, di shampoo, di cuffie da bagno. Questo riconoscimento ha apportato denari utili a risollevare il paese dove infatti si costruiscono case a più non posso, con i tetti in canne di bambù raccolte dalla strada adiacente e legate una per una con filo di ferro (tutto a norma). L'hotel tutto rosa è molto confortevole e il freddo intenso.
Apprendo che il cerro de los sietes colores, davanti al quale siamo alloggiati, ha acquisito queste splendide sfumature poiché le montagne contengono notevoli quantità di ferro, zolfo, rame e altri minerali; ma invece di andarlo a toccare compiendo la "passeggiata dei colori" preferisco andare ad acquistare tappeti colorati nelle botteghe artigianali.

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SALTA LA LINDA

Abbandoniamo per sempre la Quebrada e procediamo attraverso la puna andina verso le Salinas Grandes, abbaglianti come un campo da sci. Il ristorante tutto di sale (tavoli, sedie, pareti) è chiuso perché, secondo l'autista, «quelli non hanno gana de trabajar». Gli scultori di statue di sale fanno una pausa per partecipare a una mitica partita di pallone Italia-Argentina a quasi 4000 metri di altura, che vede la vittoria degli indigeni sicuramente perché gli italiani non sono avvezzi a questa altitudine.
Offriamo torta alla nutella e vino ad altri turisti e lavoratori della zona e ci rimettiamo sulla strada: tre ore di sterrato polveroso per giungere a San Antonio de los Cobres (che sarebbe il rame). Il paese è desolato e polveroso, i pochi abitanti quechua sembra che non se la passino tanto bene, l'unico riferimento politico alla distantissima capitale te lo ricordano i graffiti elettorali sui muri. L'hotel è veramente un'isola di tepore e bellezza: riscaldato dal camino, arredato con gran gusto e dotato di uno chef simpatico e creativo. Il mal d'altura continua nonostante l'infuso di foglie di coca.

Per raggiungere Salta, compiamo a ritroso l'itinerario del treno delle nubi, che — quando funziona — collega Salta a San Antonio attraverso la Quebrada del Toro. Il paesaggio comincia a mutare radicalmente: verde, mucche al pascolo, grandi fattorie. Ed ecco la grande città, dove la sera fino a tardi c'è gente, negozi aperti, bancarelle, locali, pop corn, noccioline, cd taroccati, zucchero filato.
A Salta sono presenti numerose testimonianze storiche risalenti all'epoca coloniale. Nella piazza principale si erge la cattedrale dove, al termine della messa, ha luogo una cerimonia in onore della vergine di Urkupiña, la Madonna dell'Assunzione nella cultura boliviana. La chiesa di San Francisco invece — realizzata da un architetto italiano praticamente ubriaco — è rossa e dorata. Il cabildo è un edificio che risale al periodo coloniale ma fu restaurato a fine '800 per combattere l'eccessiva europeizzazione architettonica della città; oggi ospita il museo storico, dedicato alla storia della regione e di Salta stessa, caratterizzata da splendidi portoni, balconi, case antiche.

Al mercato artigianale troviamo la solita paccottiglia di presepi, scialli, terrecotte, bamboline; ne approfittiamo allora per pranzare al sole con humitas e tamales, pacchettini avvolti in foglie di granturco e ripieni di composti a base di farina di granturco (choclo), formaggio, prosciutto, carne (insieme alle empanadas sono il nostro pranzo più comune). Nel primo pomeriggio imitiamo le abitudini locali andando a fare la siesta: la città è calda e deserta. Usciamo giusto in tempo per raggiungere la teleferica che porta sul cerro San Bernardo e trovarla bloccata, con i poveri sfortunati che penzolano rinchiusi in quelle gabbiette sospese. Panorama strepitoso su tutta la città che da lassù sembra la Springfield dei Simpson.
Il mercato coperto alle nove di sera è tutto un casino di ragazzi che mangiano la pizza, casalinghe che comprano salsicce, uomini soli che guardano la partita in una delle decine di tv sintonizzate sul campionato di calcio. Buster Keaton ci serve picante de mondongo, pollo e pizza seduti ai tavolini nel cuore del reparto macelleria: maiali interi appesi ai ganci incombono su di noi.

PIFFERO, PIETÀ!

Le ultime tappe prima di tornare al capolinea sono frenetiche. Prima di tutto lasciamo con rammarico questa città davvero linda e attraversiamo il Parco Los Cardones, pieno di questi giganteschi cactus a forma di enormi mani col dito medio puntato verso la volta celeste.
Percorrendo il rettilineo di origine incaica denominato ruta Tin Tin e poi vari sterrati, giungiamo in questo piccolo centro affollato di turisti: Cachi. Una visita della chiesa ci permette di ammirare suppellettili, cornici, confessionali, tutti realizzati in legno di cactus. Quindi seguiamo un cane nero che ci conduce di sua iniziativa al cimitero: le croci, i fiori e i cuori sono accampati in cima a una collinetta, circondati da magnifiche montagne in quel momento dorate dal tramonto. In ostello si rompe la caldaia e fa un freddo cane. Concludiamo la serata con caffè corretti in un bar affollato di turisti americani e italiani (anche perché è l'unico bar).

Per arrivare a Cafayate, città di vino e cantine, bisogna percorrere molte strade dissestate attraverso le valli Calciques, abitate all'epoca da fieri oppositori degli spagnoli conquistatori. Poi è d'obbligo la sosta in una bodega a degustare vino, e irrinunciabile la visita alla meravigliosa quebrada di Cafayate tra favolose montagne rosse di arenaria tutte da scalare, rocce a forma di castelli, frati, rospi, gole del diavolo e anfiteatri.
A cena piano-bar con applauso a ogni gruppo di commensali provenienti da Rosario, Buenos Aires, Cordoba, ITALIA (campioni del mondo). Però oggi, dopo diversi giorni di cd in bus, chiediamo con vigore: Piffero, pietà!
Il "Gelato Miranda" è citato da tutte le guide del mondo per il suo gelato al vino e infatti ne approfitta per venderlo a prezzi europei; in gelateria incappiamo in un ennesimo gruppo di oriundi italiani che per fortuna hanno attività ben avviate e ci riferiscono dei loro parenti di Milano, Firenze, Calabria.

Ad Amaicha del Valle ci sono le ruinas di Quilmes, un insediamento precedente all'arrivo degli Incas, di cui rimangono mortai, muri perimetrali, punti di osservazione panoramici da cui guardare i cactus a perdita d'occhio. E inoltre è presente il museo della Madre Terra (Pachamama), un altro culto tipico della cultura andina, a cui sono dedicate feste e cerimonie di offerta. Qui osserviamo le ricostruzioni di come si viveva anticamente nelle quebradas e passeggiamo tra enormi statue che fanno rivivere le icone di antiche culture indigene.
Dopo un pranzo con tempi d'attesa biblici, per ricevere poi le solite empanadas e milanesas di pollo, sosta nella località denominata El Infiernillo a 3000 metri di altitudine, con lama paciosi messi lì dalla proloco per farceli fotografare. Passeremo la notte a Tafi del Valle, la località di villeggiatura dei cittadini di San Miguel de Tucumán, che così sfuggono al caldo estivo. Ora però è inverno e non c'è nessuno e la piscina è vuota. Fuori stagione anche i ristoranti, di solito così affollati che sottolineano a grandi lettere stampate quanto sia importante la pazienza quando aspetti da mangiare, sono semivuoti; e meno male che c'è il mago Harry che ci intrattiene con qualche gioco di prestigio.

San Miguel de Tucumán è l'ultima tappa prima del rientro a Buenos Aires. Prima di arrivarci ci fermiamo in punti panoramici con l'intento di contemplare due statue gigantesche, El Indio e il Cristo gigante, ma essi risultano invisibili a causa della nebbia. Tucumán è una grande città, di pomeriggio affollata di studentesse in divisa scolastica che prevede sempre una minigonna, anche per le ciccione. Presso la Casa dell'Indipendenza ci viene illustrato il cammino storico che ha portato alla nascita dello Stato argentino: dalla conquista spagnola del 1536 al vicereame del Rio de la Plata (creato nel 1776 dalla Spagna e che comprendeva anche Paraguay, Uruguay e Bolivia), alle prime aspirazioni all'indipendenza che maturarono in età napoleonica. L'indipendenza fu proclamata ufficialmente in questo edificio in occasione del Congresso di Tucumán, il 9 luglio 1816.
Nel resto del pomeriggio la sottoscritta decide di varcare la soglia di una peluqueria dopo ben 17 anni, sfoggiando al termine dell'operazione un taglio sbarazzino.

QUANTO MAR PER L'ARGENTINA
E abbiamo piste infinite / negli aeroporti d'Argentina / lasciami la mano che si va. / Ahi, quanto mar quanto mar per l'Argentina. / La distanza è atlantica / la memoria cattiva e vicina / e nessun tango mai più / ci piacerà.
(Ivano Fossati, "Italiani d'Argentina")

A Buenos Aires mi prende un'urgenza visiva incontenibile: «Taxi, alla Boca!» Il sole sta ormai calando e fra poco non potremo più fotografare le case in legno e ferro ondulato, tinteggiate dagli immigrati di inizio secolo con le stesse vernici a colori vivaci usate per dipingere le imbarcazioni. Siamo in un quartiere portuale; le vie più vicine al fiume sono quelle più turistiche e anche fotogeniche, ma allo stesso tempo davvero sorprendenti, piene di ballerini e cantanti di tango, disegni e dipinti del quartiere esposti uno dopo l'altro, bar e ristoranti caratteristici. Ballerine nerovestite prendono i nostri uomini e li baciano sulla bocca lasciando sulle labbra tracce rosso fuoco. Al ristorante, tra una empanada e l'altra, il gestore, anche lui oriundo italiano, mi racconta delle comunità di molfettesi che risiedono in questo quartiere popolare. A pochi isolati c'è la Bombonera, lo stadio del Boca Juniors, la squadra diventata famosa grazie a Maradona.

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Dopo un rapido passaggio a San Telmo, all'ora di punta ci facciamo portare ai campionati mondiali di tango, dove riusciamo a vedere gli ultimi concorrenti in gara. A cena non posso dire di no all'ultimo bife de chorizo, una gigantesca e succulenta bistecca; musicista di tango e attore borgesiano ci allietano una decina di minuti. Infine mi portano all'anelata serata di tango, che non è altro che un triste stanzone simile al salotto di mia nonna ma più capiente, dove gente eterogenea e orribilmente vestita balla un tango dopo l'altro, ogni tanto intervallato da un merengue o un rock'n'roll.
All'aeroporto, al momento del controllo dei bagagli a mano, ci fanno buttare tutti i liquidi: acqua, vino, soluzione per lenti a contatto, shampoo eccetera. Chi si rifiuta di mollare la sua preziosa bottiglia di vino acquistata apposta nella bodega di Cafayate, deve berlo in presenza degli incaricati. Giunta in Italia scopro che è stato sventato un attentato aereo in Gran Bretagna, nel quale gli esplosivi erano contenuti in bottiglie di liquidi e che questa era l'incredibile misura di sicurezza presa a livello internazionale.

Il viaggio di 13 ore è interminabile come all'andata, grazie anche all'equipaggio della Aerolineas Argentinas che è composto nella quasi totalità da gente che ha sbagliato lavoro. La maggior parte di loro, anche sforzandosi, non riusciva a comporre un sorriso, e chi ci riusciva sembrava che la faccia gli si stesse sfasciando dalla fatica. Avere un bicchiere d'acqua era un'utopia, per cui dovevi approfittare dell'unico pranzo servito per accaparrarti qualche lattina. I film erano gli stessi all'andata e al ritorno, scelti probabilmente da un'apposita commissione che pensava di dover organizzare il cineforum di una scuola media. Ma d'altra parte, si sa, dall'Argentina la distanza è atlantica e la memoria cattiva e vicina.

(agosto 2006)

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