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Eritrei bella gente

Il Medebar Market di Asmara è un ex caravanserraglio dove viene riciclato di tutto: pneumatici, lamiera, lattine, pezzi di ferro, frigoriferi, assi di legno, parti di container. Il recupero e il riuso sono essenziali in questo Paese così isolato ed è per questo che qui, nei laboratori o all'aperto sotto il sole, gli uomini per tutto il giorno martellano, tagliano, dipingono, assemblano, utilizzando utensili e accessori a dir poco artigianali. Tuttavia, nonostante il caldo e le difficili condizioni di lavoro, sono tutti allegri. "Italiani?" mi dice un falegname con un sorriso sornione "Dopo tanto tempo, siete di nuovo qua?"
Effettivamente siamo di nuovo qua proprio per vedere con i nostri occhi cosa è rimasto della vecchia "colonia primogenita", acquisita dal governo italiano – e battezzata con il nome che ha ancora adesso – nel 1890. Il colonialismo è una macchia nella coscienza dell'Europa e i libri di Del Boca ci hanno insegnato che anche gli italiani non sono stati sempre "brava gente". Furono i nostri antenati a creare, molto prima del Fascismo, uno dei primi esperimenti di apartheid della storia, quando trasformarono la parte centrale di Asmara in un campo recintato riservato soltanto agli italiani: i "sudditi coloniali" furono spinti fuori e vi potevano accedere solo se in possesso di un lasciapassare. La segregazione vigeva anche negli spazi urbani, nei bar e ristoranti, negli autobus e perfino a scuola, dove l’amministrazione italiana cercò di limitare l’accesso all’istruzione degli eritrei alla quarta elementare. "L'unico posto dove non c'era questo era il mercato, dove si incontravano tutti: italiani, greci, eritrei eccetera" mi ha detto Phil, un antropologo che ho conosciuto al Museo nazionale. Inoltre i coloni italiani sono ricordati per altri comportamenti eccepibili: nazionalizzarono le terre portate via ai contadini, mandarono un cospicuo numero di eritrei a combattere e morire sotto il tricolore e infine, considerando che i nomi di alcune particolari torture sono ancora oggi in italiano, si può facilmente immaginare cosa avveniva nelle carceri. Esposti nel Museo nazionale ci sono degli enormi scarponi di ferro, pesantissimi, utilizzati in epoca coloniale nel famigerato campo di concentramento di Nocra, un'isola del mar Rosso: con queste scarpe addosso, impossibili da togliere, se i prigionieri avessero provato a scappare sarebbero affogati.
Nonostante tutto ciò, a giudicare dal caloroso benvenuto che abbiamo ricevuto ovunque, il mito degli "italiani brava gente" sembrerebbe fare ancora una certa presa sul cuore eritreo. "L'Italia è nostra madre" mi ha detto, addirittura, un quarantacinquenne che lavora nell'azienda tessile Dolce Vita Eritrea, filiale del bergamasco Gruppo Zambaiti. "Gli italiani hanno fatto palazzi, strade, ferrovie... e anche i cervelli! Abbiamo la stessa voglia di fare festa, lo stesso amore per la famiglia..." Concetti simili hanno espresso molti degli eritrei che ho incontrato, alcuni dei quali ci tenevano a parlare male degli inglesi, i quali dopo aver sconfitto l'Italia hanno smantellato il sistema industriale e, come bottino di guerra, hanno rubato o distrutto ciò che era rimasto della vecchia colonia. 

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