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Coloro che in Togo sanno costruire

Nella lista del patrimonio dell'umanità stilata dall'UNESCO la regione di Koutammakou viene definita “the Land of the Batammariba”, popolazione nota anche come Tammari o Tamberma il cui nome significa "coloro che sanno costruire". Non a caso ad attirare l'interesse dei turisti, in questa arida savana collinosa, sono le loro caratteristiche abitazioni fortificate che spuntano sotto enormi baobab dai rami contorti (in questa stagione carichi di frutti pendenti). Appaiono come dei castelli di sabbia dall'aspetto molto armonioso e sono dotati di torri ─ protette da tettoie mobili di paglia ─ che fungono da granai, divise in diversi scomparti nei quali si conservano miglio, sorgo, fonio, arachidi, legumi. Non hanno finestre e l’unica porta di accesso alla casa si trova nella facciata principale. Solitamente il capofamiglia dorme nel locale buio al piano terra insieme agli animali; passando per la primitiva cucina si arriva ad una scaletta a forma di fionda di legno scanalata che conduce al primo piano: su questa terrazza protetta da parapetti non solo si mettono a seccare le granaglie, ma ci sono le “camere” da letto (torrette formato mignon dotate di ingressi così minuscoli che bisogna entrarci di schiena), dove dormono le donne e i bambini.
Fino a poche decine di anni fa, questa gente andava ancora in giro praticamente nuda: gli uomini con l’astuccio penico, le donne con un gonnellino di foglie. Poi i pudichi missionari cristiani, e in seguito il governo, gli hanno imposto di vestirsi e oggi indossano un accrocchio di stracci locali e abiti occidentali lasciati come consolatoria elemosina dai visitatori stranieri. Ciononostante, mantengono ancora uno stile di vita molto simile a quello del passato, dimostrando di aver subito poco l'influenza della cultura dei colonizzatori (non a caso molti di loro si erano rifugiati in questi villaggi fortificati all'arrivo dei tedeschi ai tempi del Togoland). Per questo solitamente creano grande entusiasmo tra i turisti occidentali, i quali notoriamente adorano questo tipo di presunta autenticità.
La popolazione a dire il vero non si mostra molto ospitale con noi, ma nemmeno io sarei molto affabile se una dozzina di persone venisse a casa mia e, prima ancora di sorridermi o dirmi buongiorno, mi puntasse un obiettivo di mezzo metro in faccia. Va detto che ormai è ovvio in ogni dove che i turisti fanno foto; e anzi in un sacco di Paesi del mondo TUTTI fanno foto continuamente. Ora, il motivo per cui i Tammari ancora non le fanno è solo che non hanno ancora lo smartphone, altrimenti anche loro (come ad esempio gli indiani e gli indonesiani) avrebbero fotografato noi e saremmo stati tutti felici e contenti. Qua invece tutto il clan si tiene a debita distanza, inveendo di fronte agli obiettivi, oppure facendo il gesto universalmente usato per dire “soldi”. Io ad esempio fotograferei volentieri l'unica donna che vedo con il gioiello labiale, ossia quella pietra di silicio che si usava ─ per motivi “estetici” ─ infilare nel mento; il soggetto però si nasconde la faccia con le mani e non me la sento di infierire.

Racconto di viaggio "PICCOLI ANTROPOLOGI CRESCONO. Viaggio on the road in Togo e Benin" 

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