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Il Paradiso non è un posto dove andare

Il mio arrivo a Bangkok è praticamente identico all'arrivo di Leonardo DiCaprio nel film “The Beach”, con la differenza che nessuno mi offre sangue di serpente da bere e che nella camera accanto alla mia non c'è nessuno che fa sesso. Anche perché al quinto piano di questa guest house, che è la fotocopia di quella del film, ci sono soltanto camere singole ed è espressamente vietato l'ingresso ad estranei (in particolare ‒ si precisa ‒ alle prostitute). Mi sono stabilita anch'io in Khao San Road, il ghetto dei backpackers mondiali di passaggio a Bangkok: per le esigenze dei viaggiatori stanchi e straniti o dei nuovi arrivati come me è un posto più addomesticato rispetto al resto della città, ossia è uguale a tutte le località per turisti del mondo.
Poco tempo dopo anch'io, proprio come DiCaprio, programmo di fuggire dall'invivibile capitale alla volta delle isole del Golfo del Siam ‒ benché nessun tossicomane pazzo mi avesse lasciato attaccata alla porta una mappa per raggiungerle, ricamandoci sopra tutta una storia leggendaria che non sta in piedi, come succede nel film. Leo decide di andarci prendendo un treno notturno diretto a Surat Thani e portandosi appresso una coppia di francesi ‒ cosa inconcepibile nella realtà, ovviamente a meno che non sei un bonazzo biondo con cui la flessuosa e sensuale fidanzatina francese vuole andare a letto. Io invece opto per una soluzione di viaggio ancora più facile e a buon mercato, che vendono in qualunque agenzia squinternata e si chiama “joint ticket” (biglietto combinato bus e traghetto). Questa usanza tipica della Thailandia consiste nel raggruppare un plotone di giovani occidentali con zaino sulle spalle, appiccicare ad ognuno un adesivo sul petto che dirà all'universo mondo dove sta andando e comandarli con dei modi piuttosto sbrigativi, come se fossero bambini in colonia.
Sono a Ko Samui da due giorni e la proprietaria dell'agenzia si reca personalmente da me di buon'ora per accertarsi che mi prelevino per l'escursione prenotata. È una trentenne chiacchierona e allegra, ma con sbalzi d'umore terrificanti; il suo problema è che vuole un bambino, ma purtroppo è single e dunque cerca alacremente un boyfriend (le andrebbe bene anche un fidanzato straniero e infatti nel passato ha già avuto una relazione con un italiano, con il quale ha visitato Napoli e Parigi, ma poi si sono lasciati.) Il pick-up che viene a prendermi è già occupato da quattro italiani che parlano incessantemente dei ristoranti dove hanno mangiato sorprendenti quantità di pesce spendendo solo venti euro (io finora per mangiare ho speso al massimo due euro). Il nostro piccolo gruppo è capitanato da Enzo, un italiano residente a Ko Samui da più di quindici anni, che lavora con un'agenzia viaggi, collabora con la trasmissione di Licia Colò e a tempo perso fa l'ammaestratore di cobra. Ci fermiamo per uno snorkeling sulla “migliore barriera corallina della zona” con pesciolini “numerosissimi e non timidi”, come spiega il dépliant, che praticamente bussano alla maschera. E io non posso non chiedermi, se questa è la migliore, come devono essere le peggiori. L'isola di fronte, Ko Tan, è invece legata ad una curiosa storia di cani morti a causa degli ultrasuoni emessi dai pipistrelli. Attracchiamo quindi sull'isola di Ko Mudsum, su una spiaggia che in effetti avrebbe tutte le caratteristiche della famosa “spiaggia”, la quale però, tecnicamente, secondo l'autore del libro dovrebbe essere ubicata dentro al Parco Nazionale Marino di Ang Thong (che è una gita che non ho fatto perché ci volevano un casino di ore di barca). Invece il film lo hanno girato a Maya Bay, sull'isola di Phi Phi Leh, parco nazionale situato nel Mare delle Andamane, che oltre alla spiaggiosità e al mare turchese-verde, ha tutta una serie di faraglioni di fronte che lo rendono un po' più intimo e morboso, in linea con le situazioni tipo “Isola dei famosi” ma più estreme che si svolgono nel film. A differenza del film, qui a Ko Mudsum nessuno di noi manifesta l'intenzione di allungare a dismisura la permanenza − forse perché non abbiamo scoperto maestose piantagioni di marijuana all'interno dell'isola. Anzi, i connazionali a mollo nell'acqua bollente non riescono a capacitarsi del fatto che un italiano di Riva del Garda viva in Thailandia da quindici anni e abbia del tutto rinunciato allo sci.
Dopo i frequenti acquazzoni di Ko Tao e la traversata da incubo fino a Chumpon, abbandono definitivamente l'idea di recarmi all'arcipelago di Tarutao e invece viro verso il Parco Nazionale di Khao Sok, raggiungibile senza dover prendere traghetti. Il resort che mi aveva consigliato quella ragazza della guest house è molto accogliente e anche la famiglia che lo gestisce è davvero squisita, ma è veramente isolato nella giungla e dopo le 7 e mezza siamo circondati da una compatta oscurità punteggiata di lucciole e rane gracidanti. Gli unici altri clienti del resort sono tutti olandesi: i due membri della giovane coppia sono fortemente sovrappeso, quelli della famigliola magri e biondissimi. Dopo mangiato non c'è altro da fare se non chiudersi nella palafitta ascoltando i terrificanti rumori della foresta, tra i quali riconosco un essere che, inequivocabilmente, si lava i denti per ore e un altro che russa come una locomotiva.
Finalmente sorge il sole e qualche ora dopo sono in partenza per una promettente gita con tutti questi olandesi, in un lago grande quasi duecento chilometri quadrati, con dentro centinaia di isolotti, baie e grotte lavorate dalla pioggia. Ora, qui, anche se siamo dentro a un lago, il paesaggio è identico a quello dove hanno girato il film “The beach” (faraglioni e tutto) e dunque il cerchio sembrerebbe chiudersi. In realtà è identico tranne un particolare: manca la spiaggia bianca con le palme, visto che appunto siamo in un lago. Anche se, a dirla tutta, pure sulla spiaggia di Phi Phi Leh (dove hanno girato il film) hanno piantato cento palme da cocco perché non corrispondeva ancora esattamente agli standard hollywoodiani di come sarebbe dovuta essere una tipica spiaggia thailandese. Bisogna inoltre aggiungere che, a differenza della gita con gli italiani, durante la quale sembravamo tutti amici per la pelle, questi stitici olandesi hanno continuato per tutta la gita a trattarsi con freddezza e a scambiarsi frasi di circostanza.
La sera mi trasferisco in un resort meno isolato, dove trascorro una serata memorabile all'interno di una piccola comunità di viaggiatori: tre cileni (tra cui Jaime Antonio, di origine australiana), una sudafricana bellissima con i capelli corti e un americano che insegna inglese a Barcellona. Anche se ciascuno proviene da un angolo di mondo diverso e distante, le nostre visioni coincidono mentre siamo seduti ad un tavolo pieno di bottiglie vuote di birra a discutere di educazione e di ignoranza, di amore e di potere, di religione e di libertà di opinione. Lo spirito del tempo si manifesta qui, in questa casetta di legno sommersa nella giungla al centro della Thailandia, e insomma ero io che stavo sbagliando fino a quel momento rincorrendo un posto con la sabbia, le palme e le onde. "Quanto a me, credo ancora nel Paradiso, - dice Richard nel film "The Beach" - ma ho capito che non è un posto dove andare: lo senti dentro, quando per la prima volta senti di far parte di qualcosa di unico... e quando lo trovi, quel momento... dura per sempre."

Racconto di viaggio "LA 'SPIAGGIA' NON ESISTE. La calda estate della Thailandia centrale" 

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