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NON VOGLIO IMPARARE A BALLARE!

Cuba in lungo e in largo

Conoscevo Cuba attraverso le storie di Pedro Juan Gutierrez, il trasgressivo scrittore considerato il Bukowski del Caribe. Per questa ragione ero preparata alla sporcizia, alla trascuratezza, al sudore, alla carenza d'acqua, all'arrabattarsi, al rum economico e allo sfacelo. Però avevo in testa una valanga di altri ritagli che non sapevo bene in che parte del puzzle sistemare: cartoline delle spiagge di Varadero, soggiorni nella perla dell'arcipelago Cayo Largo, mojitos e havana club, aragoste e Cohiba, turisti protetti dalla polizia e fidanzatine di una settimana, rumba e son, Compay Segundo e Ibrahim Ferrer, congas, gardenias e carreteros, l'hombre sincero che coltiva la rosa bianca, guajira guantanamera, il Che morto con cento colpi in un giorno d'ottobre in terra boliviana, Venceremos adelante.
Lì, alla fine, ho trovato decine di altre Cuba e il puzzle, in un certo senso, ha cominciato a prendere forma. Ma diverse tessere ancora non sono riuscita a collocarle.

Il mio uomo all'Avana si chiama Manuel. Mi aiuta a rintracciarlo il cugino di Milvia, una meravigliosa donna cubana bianca dall'incantevole accento ispano-veneto, con la quale ho condiviso il sorvolo dell'Atlantico. La sua fortuna è stata andare a studiare nella Germania dell'Est prima della caduta del Muro di Berlino e lì conoscere quello che sarebbe divenuto suo marito (ricco costruttore, proprietario di villa con piscina e cani e bambini stupendi). È l'una di notte all'aeroporto "Josè Martì" della capitale cubana, ma nessuno pare farci caso. Tutti fumano e sorridono. Un chofer baffuto mi accompagna in hotel.
Avendo dormito ben otto ore in aereo, mi vedo costretta ad attendere l'alba al bar dell'albergo, sorseggiando le due birre preferite dai cubani cioè la Cristal e la Bucanero. Ne smezzo un paio con un giovane tecnico telefonico che l'indomani sarebbe partito per Las Tunas, per trascorrere le vacanze natalizie insieme alla sua famiglia. Per prima cosa mi monetizza il suo stipendio, argomento che tutti i cubani che ho incontrato hanno tirato fuori pochi istanti dopo le presentazioni. Nel suo caso sembrerebbe ammontare all'equivalente di 14 euro, cioè 17 pesos convertibili — i cosiddetti CUC, la moneta che dal 2004 ha sostituito il dollaro per tutti quei commerci legati all'economia non socialista. Una lattina di birra invece costa poco più di un euro. Stabilito chi offre le birre, può raccontarmi del suo percorso scolastico. In questo Paese è obbligatorio avere il diploma di scuola superiore per ottenere un lavoro e, poiché se non lavori potresti anche essere arrestato, va da sé che sono tutti come minimo diplomati. Per verificare che tutto ciò sia vero somministro al tecnico installatore qualche esercizio di analisi logica: sufficiente.
Nel frattempo ho appreso che le trasmissioni che possiamo aprovechar in quel momento sui due maxischermi, i cubani non le possono guardare a casa propria, perché la TV satellitare è vietata e se vengono scoperti sono costretti a pagare una multa molto salata. Deduco quindi che il mio amico non ami le telenovelas, le lezioni di ingegneria meccanica, le partite di baseball e l'altra consueta programmazione "rivoluzionaria" delle reti nazionali. D'altra parte vive con la vecchia nonna, perché come se non bastasse le case non si possono comprare né vendere. E non si possono nemmeno affittare, almeno ufficialmente. Lo scenario comincia a delinearsi.

Già dalla prima giornata all'Avana ho scoperto che qui è tutto truccato. I muri scoloriti mi avvisano che vinceranno patria o muerte, mi annunciano che il socialismo si difende unidos y combativos, mi comunicano trionfali che la revoluciòn è in ogni quartiere. La bandiera nazionale sventola con persistenza accanto agli eroi a cavallo e alla sfilza di lampioni liberty. Allungando lo sguardo, da una parte si intravedono i grattacieli, dall'altra, in lontananza, il Forte del Morro, che si trova all'altra estremità della baia dell'Avana. E dovunque la decadenza. I condomini hanno facciate da antologia, ma sono in rovina, gli intonaci sono scrostati, l'abbandono non potrebbe essere più evidente. In pratica, l'Avana cade a pezzi.
Mi trovo nel quartiere Vedado, il famoso Malecon è a pochi passi e il mare blu intenso non è agitato da ondate paurose come lo immaginavo, per cui si può tranquillamente pescare in piedi sull'argine o addirittura tuffarsi e arpionare le prede a mani nude. Lo sfondo è costituito da nuvole bianche molto fotogeniche e il mio sollievo è enorme considerati gli ultimi miei viaggi tropicali funestati da monsonici cieli grigi cancella-colori. Mentre pensavo che la temperatura fosse quella che ogni essere umano desidererebbe e che avrei camminato su questo lungomare per sempre, è arrivato Damiano, guidatore autorizzato di calesse. Questo ometto col cappello da baseball mi istiga a fare un giro della durata di un'ora cubana alla scoperta della consistenza habanera, in pratica mi porta dall'amico che spreme la canna da zucchero, ci aggiunge un dito di rum e fa pagare questo pregiatissimo cocktail 3 CUC; mi racconta che la mamma lavora alla fabbrica di sigari e che ha la possibilità di farmi lo sconto del 300%; mi fa entrare in un ristorante gelido e scarsamente illuminato, impietosendomi con la storia che gli regalano il dentifricio e la saponetta.

Percorrendo a passi lenti il classico itinerario turistico dell'Avana vecchia, mi imbatto in una serie di personaggi che in qualche modo cercano di sbarcare il lunario: donne mascherate da antiche habaneras che fumano sigari giganteschi, un vecchio con i capelli bianchi che imita Che Guevara, un tizio che anni fa fu fotografato da quelli della Lonely Planet e continua a vestirsi esattamente come è vestito nella copertina della guida, un terzetto in bicicletta composto da un uomo e due bassotti tutti con lo stesso cappellino, decine di sosia dei Buena Vista Social Club che suonano nei bar, un giovane studente di medicina che chiacchierando con quella cantilena ipnotizzante che hanno loro mi scrocca un mojito.
Quando ne ho abbastanza del patrimonio storico ridipinto con i colori originali grazie ai soldi dell’Unesco, abbandono definitivamente il set dell'Habana Vieja ed entro in Centro Habana. In questo bar in calle San Rafael ordino un soft drink, che bevo al tavolino sui centrini di pizzo, tra puzza di fritto e musica non cubana. Mentre sollevo gli occhi per osservare una vecchia malridotta che si aggira furtivamente cercando di vendere un pacchetto di chewingum, mi sento osservata. «De donde eres?» mi chiede sorridendo una dignitosa signora seduta al tavolo accanto, in compagnia del figlio e della nuora. «Beata te che puoi viaggiare!» dice lui con lo sguardo lontano «Noi non siamo liberi». «Questa cena non la possiamo pagare con i nostri stipendi» aggiunge la giovane moglie. Intanto arrivano le loro enormi pizze e mi invitano a mangiare con loro.
Ma io devo andare alla Casa de la musica nella calle Galiano. Antonio, un cameriere uguale a Banderas giovane che stava sulla porta a fumare, mi indica la strada. Sul palco suona dal vivo un nutrito gruppo di tamarri, e anche in pista le magliette più di moda sono elasticizzate, stampate nei colori moda oro e argento e chi se lo può permettere sfoggia scritte Armani e Dolce & Gabbana in ogni dove, catenoni d'oro e occhiali giganteschi. Questa ragazza apparentemente minorenne, priva di mutande e in pratica priva anche di gonna, si dimena indefessamente davanti a Lorenzo. Lorenzo, però, non è intenzionato ad imparare a ballare.

UN HOMBRE SINCERO

Manuel doveva palesarsi a las nueve de la mañana in hotel dunque, intuito rapidamente l'andazzo generale, posso stare tranquilla che come minimo fino a mezzogiorno la mia querida presencia non sarà richiesta. Posso dunque raggiungere plaza de la Revolución, una delle piazze più grandi del mondo. Più di un milione di cubani si sono radunati qui durante importanti celebrazioni politiche, ma anche per ascoltare Jovanotti che canta "Penso positivo".
Su un lato della piazza svetta il Monumento a Josè Martì, eroe, patriota, rivoluzionario, intellettuale, storico, sociologo, poeta, martire e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di una torre alta più di cento metri accompagnata da un'enorme statua bianca dell'ometto, accigliato e compreso nel suo ruolo come si conviene. Con l'ascensore si può arrivare al punto panoramico più alto dell'Avana e ammirarla in tutto il suo splendore di grattacieli e giardini e quadras e mare bluissimo in fondo, mentre gli enormi avvoltoi che svolazzano si ritagliano uno spazio in quasi ogni foto. Se vuoi portare con te la macchina fotografica il prezzo del biglietto (mezzo stipendio medio di un cubano) raddoppia e già lì ti girano un po' le palle. Quando arrivi su e ti accorgi che tutti gli affacci sono protetti da vetri di una sporcizia incommensurabile, ti senti definitivamente preso per il culo.

Al bar dell'hotel cerco di raccogliere informazioni sulla Playa del Este, ma gli interpellati sono troppo impegnati ad appendere enormi angeli dorati a mo' di decorazioni per la festa in programma la sera e poi il volume dei video dei Van Van è troppo alto per riuscire a capirci qualcosa. Nell'indecisione ordino una Cristal. In quel mentre sopraggiunge al bancone Lazaro, il quale per prima cosa dice che conosce un po' di italiano perché sua sorella vive a Milano. Ripensandoci, la consequenzialità logica tra le due affermazioni non è così evidente come mi era sembrato in quel momento.
Questo medico specializzando in neurochirurgia sta in paranoia per due motivi: 1) gli hanno rubato il cellulare; 2) vuole diventare il più grande chirurgo di tutti i tempi. Nel frattempo studia su dei libroni di antiquariato pieni di polvere e come tutti i cubani un po' svegli si arrangia come può. Infatti mi conduce al paladar "La Tasquita", un ristorante autorizzato dallo Stato, di norma situato praticamente dentro una normale casa. Il cibo è, come promesso, una exquisita comida criolla. Lazaro cita il fatto di cronaca italiano del momento: Berlusconi colpito al volto da un souvenir a forma di Duomo di Milano. «Se, mentre parla Fidel,» fa lui «un uomo non dico lancia un Capitolio in miniatura, ma soltanto fa il gesto di lanciarlo, in tre secondi è circondato da un plotone armato». Il futuro neurochirurgo mi spiega inoltre che la sanità a Cuba è totalmente gratuita e molto qualificata, e infatti la diffusione dell'Aids è molto limitata, la speranza di vita è quasi a livelli europei e anche la mortalità infantile ha un'incidenza molto bassa.
Lazaro fa dei turni molto particolari in ospedale, tipo che lavora 24 ore filate e poi per due o tre giorni sta a casa. Siccome oggi sta a casa, terminato il pranzo mi conduce in un condominio affollato come un alveare, dove posso acquistare dei sigari di qualità a prezzo scontato, offerta riservata agli universitari ma di cui posso approfittare anche io. Siamo vicini alla celebre gelateria Coppelia, nota per i tempi di attesa così lunghi che innumerevoli coppie si sono conosciute e fidanzate mentre erano in fila; non per niente nel film "Fragola e cioccolato" fa da scenario all'incontro tra lo scrittore omosessuale critico del regime e il bravo giovane studente rivoluzionario.
La sera in hotel c'è la grande festa della vigilia di Natale e l'eleganza regna sovrana. La regola naturalmente è che più oro hai addosso meglio è, ma io, visto che non sono interessata a ballare, me ne vado a dormire.

LA CARRETERA CENTRAL

¡Buendia compañeros! La Carretera central mi attende e con lei tutti i cubani possibili che stazionano sul bordo della strada sventolando le banconote nella speranza di essere caricati su. Quando avevo visto queste situazioni nei film di Tabío avevo pensato che fossero state ingigantite per far ridere, invece sono tutte vere.
La prima tappa è Punta Perdiz dove c'è un mare da sogno e nessuno che ne approfitta, così posso godermi un bagno favoloso e poi mangiare la grigliata di pesce al tavolino. Sono nella famosa Baia dei Porci, dove nel 1961 avvenne lo sbarco dei mercenari al soldo degli americani con l’intento clamorosamente fallito di rovesciare il governo Castro. Questo episodio è molto famoso perché da lì derivò una crisi internazionale durante la quale il mondo temette seriamente un'esplosione nucleare e poi si posero le basi per l'embargo da parte degli USA o, come dicono qui, il bloqueo, che d'altra parte dura tuttora e continua a rappresentare un credibile paravento a cui ascrivere tutte le disfunzioni dell'isola.

A breve distanza sorge il Museo di Playa Giròn, dove ai visitatori per prima cosa viene propinato un documentario con filmati originali dell'epoca. L'esposizione permanente invece comprende le divise dei barbuti, le lanterne, le fotografie, molti documenti e vari altri oggetti, corredati da pannelli che spiegano ad esempio che prima del "trionfo del socialismo" i bambini e gli adulti morivano per la carenza di strutture mediche, il tasso di analfabetismo era altissimo, i mezzi di comunicazione erano inesistenti e l'economia sottosviluppata. Invece oggi a Cuba la sanità e l'istruzione sono completamente gratuite; in merito all'economia e alle comunicazioni invece ci sarebbe qualcosa da ridire. La propaganda, comunque, si taglia con il coltello.

LA CASA DE LA MUSICA

La vita è una rumba, Boy, una guaracha. Bisogna prenderla come viene, senza aspettarsi troppo. È meglio ballare, bere e divertirsi. Impara da me.
(Pedro Juan Gutierrez, "Il nostro GG all'Avana")

Arrivo a Trinidad sull'onda di un toccante tramonto che indora la sierra in lontananza, accompagnato dai video di musica salsa che impazzano al televisore dell'autobus. È ormai buio mentre prendo posto nella casa particular. La padrona di casa, una psichiatra dal sorriso più dolce del mondo, mi accompagna sul selciato sconnesso fino alla sua abitazione, ingabbiata da grate di ferro bianche. Mi spiega che per poter affittare parte della propria abitazione è necessaria un'autorizzazione statale e viene richiesto il rispetto di ben precise regole ed il pagamento di corpose tasse.
A cena sul terrazzo si susseguono i soliti, numerosi mojito, che agli italiani non piacciono un granché perché l'erba non è pestata, il ghiaccio è inesistente e lo zucchero di canna non è granuloso. Per loro fortuna qui c'è un altro cocktail tipico, chiamato "canchanchara", preparato con il liquore di miele. Trascorro il resto della serata alla Casa de la musica, un locale all'aperto vicino alla cattedrale dove fior di musicisti suonano dal vivo, diverse coppie ballano e tutti gli altri stanno seduti su un'enorme scalinata simile a quella di Piazza di Spagna. In realtà gli unici cubani che ballano sono maschi e quelli che ballano con le turiste sventolano gran mazzi di banconote. Io invece resto sulla scalinata perché, come si è capito, non ho nessunissima voglia di imparare a ballare.
Sulla via del ritorno mi rendo conto che le case colorate con le inferriate sono tutte uguali e quindi soltanto dopo un lungo peregrinare in questa infinita scacchiera riesco a raggiungere la mia.

Alla luce del sole risplende la bellezza soporifera di questa cittadina, con le facciate delle case turchesi e gialle e verdi e rosa intonacate grazie ai soldi dell'Unesco, con le vie attraversate da carretti a cavallo, con i ritagli di luce e ombra stampati sulla strada, con le balaustrate e i cortiletti fioriti, e con una quantità di bambini sorridenti in bicicletta, e vecchi stupendi che si muovono ad una lentezza strabiliante, certamente chiedendosi che diavolo vogliono da loro tutti questi stranieri.
Trascorsa qualche ora lieta alla spiaggia Ancón, nel pomeriggio sono di nuovo in giro ad osservare le case di legno, le ampie verande con le panche e le sedie a dondolo, la cattedrale e i diversi locali dove c'è sempre qualche bravo musicista all'opera, anche se il tutto sembra fatto apposta per i turisti, persino tenere le porte delle case aperte, da dove puoi spiare Tom e Jerry alla televisione e le foto dei bambini nudi e gli animali di peluche. Per cena nel terrazzino pieno di fiori della casa particular ci sono i camarones e la yucca affogati nell'aglio, gli immancabili tostones, cioè il platano fritto a rondelle, e infine la macedonia, rovinata da quell'orrendo frutto rosa fucsia con i semini che si chiama guayaba. «Mi amor, mi amor!» cinguetta la psichiatra tra i suoi libri vecchi e i suoi orrendi cani di ceramica.

TODO SANTA CLARA SE DESPIERTA PARA VERTE

Il valente chofer di bus, Pedro, dentone baffuto con al seguito una bambolina muta dalle acconciature antiquate (sua figlia Wendy), ci conduce nella Valle de los Ingenios, che sarebbero i mulini della canna da zucchero. Come d'abitudine turistica si sosta in un bar panoramico (il Mirador de la Loma del Puerto) da cui si gode un ampio belvedere del paesaggio. Qui si può assaggiare il guarapo, ossia il succo della canna da zucchero, che viene spremuta da questo marchingegno fino a secernere una grande quantità di liquido, molto meno dolce di quanto si potrebbe immaginare. La tappa successiva è la Torre Iznaga, che serviva per tenere sotto controllo gli schiavi al lavoro nei campi. L'antica hacienda accanto è stata trasformata in un ristorante e volendo si può fare un giro su questa locomotiva d'epoca.

A Sancti Spíritus, il capoluogo di provincia, è una domenica pomeriggio di ristoranti chiusi, cani malati e afa immobile. Digiuni raggiungiamo Santa Clara, dove ebbe luogo la battaglia decisiva della rivoluzione cubana, quella che trasformò in mito il comandante Ernesto "Che" Guevara. Per questo motivo hanno costruito qui il suo monumento, sotto il quale sorge il memorial che contiene le sue spoglie mortali e la fiamma perenne, accesa da Fidel dopo il ritrovamento delle presunte ossa in Bolivia nel 1997. Accanto un piccolo museo racconta l'avventurosa vita del Che con oggetti personali, come ad esempio il giubbotto che indossava quando Alberto Korda gli scattò la foto più famosa del mondo intero. Nei pressi c'è anche il Monumento al Treno Blindato, che ricorda una delle imprese più eroiche dell'Argentino, quando nel 1958 si impossessò di un treno carico di armi e munizioni, inviato da Batista a rinforzo dell'esercito regolare.

NO QUIERO APRENDER A BAILAR

Qua sono tutti ingegneri dottori professori fisici nucleari, anche quelli che affittano la propria casa ai turisti e cucinano e puliscono e fanno conversazione sfoggiando il loro miglior sorriso. A Remedios ad esempio alloggio nella casa di Josè, professore universitario di economia. Suo figlio, che mi viene presentato subito insieme alla fidanzata, invece insegna educazione fisica e scacchi.
Josè è un incrollabile ottimista. Mi racconta con entusiasmo che viaggia per lavoro, per esempio è stato ospitato in alcuni Paesi del Sudamerica, e non ritiene un problema il fatto che per recarsi in qualunque altra nazione del mondo per tutti loro sia necessaria una scoraggiante trafila burocratica. Cuba infatti ha stretto accordi con il Cile, con il Brasile e soprattutto con il Venezuela di Chavez, ricco di petrolio, in cambio del quale gli vengono spediti migliaia di medici; però lasciare il Paese non rientra ancora tra i diritti fondamentali di un cubano. Così come mancano all'appello altri fondamentali diritti, come quello alla libertà di informazione. Questo professore usa internet ma glissa sulla censura, non gli risulta che le mail vengono controllate, non sembra preoccuparlo che i cellulari, introdotti nel Paese da pochi mesi, abbiano costi proibitivi.
Si scopre che, per soli due giorni di ritardo, mi sono persa l'appuntamento mondano dell'anno, la Parranda, una sorta di Carnevale che ha luogo la sera della vigilia di Natale, durante il quale i due quartieri della cittadina si sfidano in una gara di carri, impalcature, maschere e fuochi d'artificio che richiedono una lunga preparazione segretissima. Al termine della gara in realtà il vincitore praticamente nessuno si ricorda chi era, questo per dire il livello alcolico che si può raggiungere. I carri abbandonati occupano ancora gran parte della piazza della Cattedrale e, se proprio uno vuole approfondire l'argomento, può recarsi al museo delle Parrandas. Per fortuna io non ne ho bisogno, in quanto una cover della festa si svolgerà proprio stasera nel vicino comune di Caibarién. Bancarelle, panini giallo fosforescente, maialini arrosto, giostre, salsa moderna e reggaetón rendono l'esperienza allegra e spensierata, ma io già non ero interessata a imparare a ballare la salsa, figuriamoci il reggaetón.

I cayos sono degli isolotti corallini quasi sempre sinonimo di turismo molto poco fai da te. Cayo Coco è collegato alla terraferma da una lunga strada, costruita recentemente scatenando le ire degli ambientalisti perché lì vicino nidificano i fenicotteri. Prima di imboccarla c'è un posto di blocco per il controllo passaporti, infatti l'accesso è vietato ai cubani i quali potrebbero approfittare della vicinanza con la Florida per prendere il largo e abbandonare il Paese per sempre, cosa che molti disperati hanno fatto, soprattutto nel período especial, quegli anni successivi al crollo dell'Unione Sovietica in cui la situazione era drammatica. In spiaggia apprendo dal titolare del baretto che ormai lo Stato chiude un occhio se un cubano coi soldi viene qui previa prenotazione di un ristorante oppure pagando direttamente l'ingresso, l'importante è che se ne vada entro "las cinco de la tarde".
Questa spiaggia è davvero "un eden di sabbia chiara bagnato da acque cristalline", come potrebbe definirla un catalogo in agenzia viaggi, ma per il resto meno male che sono rimasta un giorno solo. Intorno ci sono solo hotel a svariate stelle, grandi e costose strutture alberghiere spuntate negli ultimi anni e villaggi all inclusive con discoteche gelide, prezzi da paura e turisti tristi: se non me ne può fregare di meno del ballo, non ci penso proprio ad imparare in una discoteca ad aria condizionata situata in un villaggio all inclusive.

¡AL COMBATE, CORRED, BAYAMESES!

Attraverso enormi campi di canna da zucchero, ci dirigiamo verso la provincia di Granma, che prende il nome dall'imbarcazione con cui i rivoluzionari cubani — tra cui Fidel Castro, Che Guevara e il partigiano italiano Gino Donè Paro — partiti dal Messico giunsero sull'isola nel 1956, con lo scopo di abbattere il regime di Batista. Man mano che ci avviciniamo a Camaguey, possiamo ammirare le campagne con i bufali, gli scintillanti torrenti e le maestose ceibe. Ci fermiamo per una sosta in quella che è la terza città dell'isola, nota per le sue vie perpendicolari tra le quali è facile perdersi. Per questo motivo una volta cambiati i soldi alla Cadeca, conosciuto l'ennesimo ballerino di salsa con sorella in Italia e visitato il mercato alimentare, è già tempo di correre al bus, parcheggiato nei pressi della stazione dei treni, schivando le migliaia di biciclette.

A Bayamo alloggio in un hotel appena fuori dal centro che appartiene alla Islazul, una delle cinque catene alberghiere dell'isola, tutte rigorosamente di proprietà statale. La Islazul è la più economica ed è aperta anche ai cubani, che infatti qui sono stravaccati nei pressi della piscina e pasteggiano ad Havana Club, ridendo sguaiatamente. Questa città fiera e bellicosa fu dopo Baracoa la seconda città di Cuba ad essere fondata da Diego Velasquez. Qui inoltre è nato l’inno nazionale di Cuba, "La Bayamesa".
Alla Casa de la trova dopo uno sbrigativo concerto dei soliti meravigliosi vegliardi conosco un cubano molto sovrappeso che ha una macchina fotografica impegnativa e sfoggia mazzette di banconote. È accompagnato dalla sorella povera e dal cognato e mi offre un drink. Il mistero è presto svelato: qualche anno addietro ha vinto la Lotería del visa e ora vive a Miami. Questo programma speciale di migrazione, conosciuto anche come "bombo", fu creato nel 1994 e ha permesso ad un certo numero di fortunati diplomati, con esperienza di lavoro e parenti negli USA, di emigrare negli Stati Uniti. Inutile stupirsi che il governo cubano lo avalli, considerando quanto le rimesse dall'estero contribuiscano a non far crollare definitivamente l'economia. Il cubano emigrato in Florida mi è molto simpatico perché, avendo capito al volo il mio totale disinteresse per la bachata, non ci pensa proprio a invitarmi a ballare.

Al Parco della Sierra Maestra i turisti vanno a fare il trekking nelle stesse selvagge location in cui, alla fine degli anni Cinquanta, si rifugiarono i rivoluzionari di Fidel durante la lotta armata contro il regime di Batista. Dal Parque Nacional Turquino (che prende il nome dal monte più alto dell'isola), si può infatti raggiungere la Comandancia de la Plata, il quartier generale dell’esercito Rebelde a partire dal 1957. Prima di tutto bisogna raggiungere Villa Santo Domingo, da dove partono le costosissime escursioni guidate (circa trenta euro, quattro in più se vuoi portarti la fotocamera, com'è consuetudine a Cuba). Alex, la guida, mi fa presente che allo Stato non gliene importa nulla di abbassare i prezzi, tanto c'è il monopolio, e che a loro invece li pagano una miseria, quindi se non fosse per la nostra mancia lui col cavolo che continuerebbe a fare questo lavoro.
Dall'Alto del Naranjo, situato a quasi 1000 metri, la vista è spettacolare, fa freschetto e si possono raccogliere i mandarini direttamente dagli alberi. Poi si parte per un trekking di circa tre chilometri, ammirando orchidee, piante di caffè e insomma le tipiche specie delle foreste tropicali. Infine, giunti nel quartier generale dei rivoluzionari, si possono visitare la capanna che veniva usata come ospedale, l'ufficio della stampa, il museo con la macchina da scrivere, le armi e gli altri oggetti appartenuti ai guerriglieri e infine la casa di Fidel; la struttura in legno è stata ricostruita, ma al suo interno ci sono ancora gli arredi originali come il letto, la scrivania, il tavolo e persino il frigorifero.

SANTIAGO: REBELDE AYER, HOSPITALARIA HOY, HEROICA SIEMPRE

Brezza e alcol nelle ruote. / Andrò a Santiago. / Corallo nella tenebra. / Andrò a Santiago. / Il mare affogato nell’arena. / Andrò a Santiago. / Caldo bianco, frutta morta. / Andrò a Santiago. / O bovina freschezza delle piantagioni di canne! / Andrò a Santiago.
(Federico García Lorca, "Son negros en Cuba")

La conoscenza di Santiago de Cuba inizia dal Castello del Morro, una bellissima fortezza spagnola del 1600 posta a difesa della sua bahia. La posizione fa sì che si possa godere di una stupenda vista sul mare e sul Cayo Granma che sta di fronte, attraverso i ritagli delle finestre e delle feritoie. Il museo sulla pirateria ci illustra la differenza tra pirati, filibustieri, corsari e bucanieri, tutti personaggi con cui questa città ha avuto a che fare per lungo tempo.

Mentre passeggio nel centro di Santiago vengo allegramente invitata a bere una birretta in questo grazioso terrazzino affacciato sul mare. Il padrone di casa ci tiene a raccontarmi come funziona il mercato nero: a causa dei prezzi alti il pesce e il manzo, monopolio dello Stato, praticamente sono inavvicinabili, mentre del pollo e del maiale, più economici, ne hanno le tasche piene. E anche in merito al fabbisogno nazionale non si scherza, visto che sono costretti ad importare anche cibi di base come il riso.
Mi spingo attraverso il quartiere francese fino alle zone più popolari. In occasione della vigilia di Capodanno gli abitanti lavano le auto (chi le ha), ballano per strada, arrostiscono maialini da latte in ogni dove e fanno la fila per comprare birra alla spina. I cubani in realtà sono spesso in coda perché lì hanno la libreta, che sarebbe la tessera con la quale lo stato, a prezzi molto bassi, gli vende alcuni prodotti. Le quantità e la scelta di tali beni di prima necessità lasciano molto a desiderare, e a quanto pare anche i tempi di consegna.
Mentre me ne sto tornando in albergo, vengo inavvertitamente accalappiata dal giovane guardiano dello zoo più triste della terra. Lui e il suo collega mi mostrano questi poveri animali ingabbiati, che pare che non se la passino benissimo, soprattutto i leoni, che hanno la fossa vicina alla mia stanza e lanciano delle urla da film dell'orrore che già la notte precedente mi avevano fatto venire brividi su tutto il corpo. Il guardiano mi spiega che fanno così perché sentono l'odore dei maialini arrostiti e gli viene l'acquolina in bocca. Questo ragazzone ha poco meno della mia età e ha già un figlio ventenne. Loro fanno tutto in fretta e furia, afferma.

Giunta in hotel, ordino un refresco al tavolino vicino alla piscina. L'attempato bagnino si avvicina con cortesia e come ormai è abitudine dopo soli cinque minuti è innamorato perso. Mi spiega che la sua sofferenza è di non potermi invitare a cena, perché non potrebbe permettersi di pagare il conto. Tutti in questo Paese preferiscono lavorare a contatto con i turisti perché le mance, anche le più irrisorie, per loro sono superiori alla paga di una giornata di lavoro, in pratica un insegnante guadagna molto di più se fa il lavapiatti.
Per l'ultimo dell'anno nella Piazza centrale è allestito un sontuoso concerto, mentre sulla terrazza dell'Hotel Casagranda (dove alloggiava Graham Greene mentre scriveva "Il nostro agente all'Avana"), oltre agli avanzi del cenone, è spiaggiato un triste repertorio di facce sfatte di turisti anglosassoni che indossano ridicoli cappellini, trombette e altri gadget; poiché non sono cubana, anche io posso andare a bermi un paio di piña colada al bancone in tutta tranquillità. A mezzanotte esplodono i fuochi d'artificio.
Alla Casa de la musica il gruppo non è malvagio, ma l'ambiente è buio e freddo. Mentre sono fuori in strada a fumare, attacca bottone questo ragazzo che mi mette in guardia da quei personaggi che mi si avvicinano perché vogliono ottenere qualcosa da me. Anche lui — mi racconta — un tempo era così, ma adesso che ha fatto fortuna mi può addirittura offrire una birra. Brindiamo alla sua conversione, e soprattutto alle sue amiche che gli mandano i soldi dall'Europa.

E infine, alla Casa de la trova chiacchiero con il sedicente nipote di Ibrahim Ferrer (il cantante dei Buena Vista Social Club dagli occhietti vispi) e poi vengo abbordata da questo mulatto di nome Angelo, ma soprannominato Leonardo poiché, oltre ad essere un pittore, è anche un inventore come Leonardo da Vinci. «I negri sono eccessivi in tutto», si lamenta «non sono raffinati». Angelo se ne vuole andare da Cuba e anche lui naturalmente dopo manco cinque minuti è folle d'amore, nonostante io gli avessi detto sin dall'inizio che non volevo imparare a ballare; e dunque "te quiero, te deseo" e in poche parole sono già pronte le bomboniere.
Non si sa come, ma riesco a raggiungere la habitacion con un taxi abusivo, che poi è il solito "carro" rosso degli anni Cinquanta, che da fuori è stato riverniciato tante di quelle volte che è sicuramente diventato più voluminoso di quello che era, ma dentro è un ammasso di ruggine e pezzi ricavati da chissà quali altri mezzi meccanici che per la grazia di dio si tengono ancora assieme.

CIEN AÑOS DE SOLEDAD

Dice essere quell'isola la più bella che occhi umani mai abbian visto.
(Cristoforo Colombo, "Diario del primo viaggio" - 28 ottobre 1492)

Baracoa, la capitale del cacao, occupa la punta più orientale dell'isola. È faticoso spingersi fin qui ma il paesaggio è sicuramente il paesaggio tropicale più ameno che io abbia mai visto. Superata Guantanamo, fuori dal finestrino cominciano a scorrere i cactus, i palmeti e le pareti scoscese della costa Imías, finché si è costretti a tagliare nell'interno percorrendo la serpeggiante Strada la Farola. Man mano che ci si avvicina, la vegetazione diventa sempre più verde brillante di palme da cocco, banani, mango, guayaba, caffè e cacao. Baracoa fu la prima capitale cubana quando Diego Velazquez arrivò dalla Spagna nel 1511 ed è rimasta isolata dal resto dell'isola per circa 450 anni. Poiché sorge su un promontorio, infatti, fino agli anni ’60 era raggiungibile solo via mare ed è tuttora circondata da una giungla rigogliosa.
Al centro di questa cittadina tranquilla e affascinante c'è la Catedral de Nuestra Señora de la Asunción, che custodisce la croce che probabilmente Cristoforo Colombo piantò sulla spiaggia di Baracoa nel suo primo viaggio, oppure più verosimilmente che qualche altro spagnolo dell'epoca portò dall'Europa. Di fronte alla chiesa c'è il busto del capo indio Hatuey, il primo guerrigliero cubano, che all'inizio del 1500, dopo mesi di strenuo combattimento in difesa del suo popolo, fu torturato e ucciso sul rogo dagli spagnoli. Passeggiando senza meta si incontrano gallerie d'arte e centri culturali, murales e fiancate di legno dipinto, locali e bancarelle, corsi di salsa con ballerini boni e turisti europei rapiti dall'atmosfera. Procedendo lungo la strada panoramica si può ammirare tutta la baia arrossata dall'atardecer, con quel trapezio dello Yunque a fare da guardia, fino a raggiungere il Malecon, guarnito da orrendi palazzoni, alcuni dei quali sventrati dal tremendo uragano del 2008.

Mi sistemo presso la casa particular di Rafael e Yasmine. A lui in paese lo chiamano El Gordo a causa della sua enorme stazza, e quando lo dicono allargano un po' i gomiti. Lei si chiama Yasmin perché negli anni '70 andavano di moda i nomi di donna che iniziano con la Y. Entrambi al momento hanno lasciato i loro precedenti lavori e si occupano solo della casa, per cui si sono specializzati nella cucina e nella preparazione di cocktail: el Gordo — si autopubblicizza — prepara il miglior mojito che io abbia mai assaggiato in vita mia. Per cena invece mi servono un'ottima zuppa di fagioli, filetto de “peccao”, insalata di pomodori, lattuga e cavolo, banane fritte e postre. E comunque si mangia benissimo in tutte queste case particolari cubane.
Il dopocena comincia alla Casa de la trova, piccola ma molto accogliente e movimentata, dove si alternano concerti dal vivo sin dal pomeriggio. Poi seguo questo amico dell'autista col cappellino a visiera e la collana invadente, che già al mattino era salito sull'autobus a fare il di più. A dirla tutta non mi sta tanto simpatico, forse perché è intelligente e si approfitta dei turisti ingenui. Fatto sta che andiamo alla Terrazza, che è un altro locale poco distante, dove acquista una bottiglia di ron blanco per 5 cuc, che prodigalmente mi offre. In realtà il tipo non è affatto un rompicoglioni come gli altri, ma purtroppo è accompagnato da un insopportabile amico ciccione interamente vestito di bianco, così sono costretta ad abbandonarli al loro destino e a seguire lo spettacolo in solitudine. Lo show è condotto da un presentatore pomposo e propone una quantità di balletti supercoreografici caratterizzati da molti culi e tette in movimento.

Lo Yunque è una montagna con la sommità piatta, già citata da Colombo nel diario del suo primo viaggio. Volendo se ne può raggiungere la cima, tanto è alta meno di 600 metri, ma io mi accontento di un'escursione nei suoi dintorni di foresta vergine, piante rare e piscina naturale. Durante la piacevole passeggiata la guida, un negro aitante che negli anni '80 insieme a tanti altri sfortunati fu spedito da Fidel a combattere in Angola, mi mostra le piante tipiche come la papaya e l'ananas, i fiori come la mariposa (simbolo di Cuba) e vari uccelli tra cui il colibrì. La montagna a forma di incudine si intravede ogni tanto tra le palme, finché non arriviamo al fiume. Qui bisogna prima togliersi tutti i vestiti, poi guadare stando attenti a non bagnare la borsa e soprattutto a non farsi spazzare via dalla corrente. Potrebbe infatti capitare di poggiare male il piede sui ciottoli arrotondati e scivolare perdendo una o più ciabatte. 
La Playa Maguana è apparentemente molto invitante grazie alla sabbia bianca, alle palme d'ordinanza, al mare color paradiso e al fatto che non c'è nessuna struttura di cemento in vista. Peccato però i tedeschi alcolizzati e sbruffoni che frequentano il bar, le scrofe che ficcano il muso negli zaini rubando pacchi di cracker interi e pisciano sugli asciugamani, i cani randagi e i venditori di noci di cocco, oggetti in legno, cacao, pesce che non ti lasciano un minuto in santa pace. 

Alla Casa de la trova già suonano, così mi fermo con i capelli ancora bagnati. Un gruppo di ragazzi del posto vuole insegnarmi a suonare il guiro, anche perché hanno capito che di ballare proprio non ne voglio sapere. In realtà non riescono a capacitarsi di questo mio disinteresse. Uno di loro, che mi accompagna a fare due passi, mi confessa che, anche nei suoi momenti più tristi, la musica lo rende felice e gli fa scordare tutti i guai. Non riesce a star fermo, ce l'ha nel sangre! Non capisce come è possibile che io non lo senta allo stesso modo. Naturalmente è disperato perché l'indomani partirò e tutte le volte è così e come sono sfortunato e insomma il melodramma incombe. Ma se ci stiamo parlando soltanto da due minuti!
Stasera si cena fuori, al Colonial, con la solita monotona scelta tra “peccao”, “langota”, “poio” e “serdo”, l'insalata mista di verdura cruda (lattuga pomodori cetrioli cavolo) e il riso con fagioli neri piccoli, chiamato Moros y Cristianos. Di nuovo alla Casa de la trova e di nuovo alla Terrazza, ma stasera pioviggina e io mi sono rotta degli occhi da pesce lesso, di quelli che vogliono insegnarmi a ballare, di tutta questa gente che dice sempre le stesse cose e del presentatore pomposo e del tizio col cappellino e del suo amico vestito di bianco e del rum e dei culi a mongolfiera dentro ai pantaloncini corti e insomma me ne vado a dormire.

TRISTE SOLITARIO Y FINAL

A colazione, mentre bevo un delizioso frullato di fruta bomba (come chiamano la papaya, a Cuba), Rafael, guardando il mio passaporto, mi comunica che siamo nati lo stesso giorno. Ci tiene che io sappia che il 10 ottobre è una data simbolica molto importante a Cuba, perché in quel giorno, nel 1868, il dueño Carlos Manuel de Céspedes liberò tutti i suoi schiavi al suono della campana dell'ingenio e da lì ebbe inizio la lotta contro la dominazione spagnola. Sul lungomare nuvoloso, prima di partire, un nodo in gola mi prende mentre dal bar sparano a tutto volume un pezzo di Ramazzotti che canta in spagnolo. Osservo gli abitanti di Baracoa pazientemente in fila per le galletas, e la tenerezza mi invade guardando Pedro che, accanto al bus Viazul, sorride nonostante la stanchezza, mentre si abbottona la camicia azzurra da autista, che ha appena indossato sopra la canottiera verdone.
La strada è la stessa dell'andata, con i cactus, la costa scoscesa, le fitte palme e la sosta nell'anonima periferia di Guantanamo per mangiare le indigeste pizzette al formaggio. Nel bus intanto si accumulano banane e mandarini per la famiglia di Pedro. Sulla strada è un continuo di manifesti di propaganda governativa, che per esempio vorrebbero far venire voglia di lavorare grazie a queste simpatiche formicone che recitano: "¿Nos trabajamos y tu?
Mi sveglio a Santiago, in plaza de la Revolución, davanti al monumento equestre ad Antonio Maceo, una statua circondata da venticinque lame di machete. Dopo estenuanti attese all'aeroporto, arrivo congelata all'hotel dell'Avana poiché ci sono circa 20 gradi di differenza tra il profondo oriente meridionale di Santiago e la capitale, che sta esattamente sopra al Tropico del Cancro.

L'ultimo giorno di vacanza un taxi collettivo mi porta al centro dell'Avana. Lazaro mi aveva dato appuntamento alle 3 ma arriva circa due ore e mezza dopo, nonostante possieda un orologio digitale parecchio ingombrante. Il problema è che casa sua si è allagata, infatti in questo paese pieno di cervelloni l'acqua è razionata e arriva se va bene due volte al giorno e gestire queste cisterne casalinghe a volte è un problema. Seduta accanto a lui sulla scalinata dell'Università dell'Avana, con in mano un libro di Graham Greene tradotto in spagnolo, mi chiedo come si fa a vivere senza acqua ma con l'armadio pieno di scarpe All Star. Come si fa a guadagnare 10 euro al mese e spenderne 150 per comprare un cellulare. Come si fa a diventare il più grande neurochirurgo di tutti i tempi e studiare su libri così vecchi. Come si fa a vivere in un mondo che ci mette in testa dei desideri così poco naturali, e poi non ci permette nemmeno di esaudirli. E mentre guardo i muri scrostati, i ragazzi che giocano a pallone, il cielo nuvoloso che incombe, mi domando in cosa consisterebbe secondo loro questa justicia tanto sbandierata e fino a quale victoria, precisamente, dovrebbero combattere, quando invece tutti sappiamo come andrà a finire e andrà a finire nel solito modo e in quello sì, che stiamo diventando tutti uguali, come qualcuno sognava.
Alle sette NON arriva il bus prenotato per l'aeroporto, per cui mi imbosco in un altro guagua che stava caricando della gente. Il viaggio di ritorno non me lo ricordo bene, mi sa che ho dormito quasi sempre. E poi ho pensato al puzzle da finire. Al fatto che il cuba libre non si fa con la Coca Cola ma con la Tu Kola, ad esempio; o che a scuola gli insegnano gli scacchi, forse perché piacevano al Che. Al motivo per cui usano barricarsi in casa con tutte quelle grate così elaborate e poi alla passione per il baseball. Mi sono domandata se è meglio avere i muri tappezzati con le frasi poetiche del Che oppure le città piene di manifesti di femmine provocanti in biancheria intima e faccioni rivoltanti di politici. E poi prima di chiudere gli occhi, mi sono venute in mente quasi tutte le facce di quelli a cui ho detto che non volevo imparare a ballare.

(dic. 2009 - gen. 2010)

POST SCRIPTUM: LOS CINCO VOLVIERON

Dal 14 gennaio del 2013 i cubani possono uscire liberamente da Cuba con il solo passaporto e senza formalità particolari.

Tra il 2011 e il 2014, i cinque cubani prigionieri negli Stati Uniti, anche conosciuti come i «Miami Five», accusati di spionaggio, cospirazione e altre attività illegali, sono stati liberati.

Dal dicembre 2014, l'embargo tra Stati Uniti e Cuba ha cominciato ad ammorbidirsi.

Il 30 giugno 2015 Cuba e gli Stati Uniti hanno raggiunto un accordo per la riapertura delle ambasciate nelle rispettive capitali, avvenuta il 20 luglio 2015.

Il 25 novembre 2016 è morto Fidel Castro.

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