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La coda della Turchia

Per andare ad Antakya, la capitale amministrativa dell'Hatay, dobbiamo fare il giro largo, costeggiando il confine siriano in parte segnato dal fiume Karasu Cayi. La provincia dell'Hatay è una specie di coda che fuoriesce in direzione sud al centro del rettangolo turco; a ovest si affaccia sul Mediterraneo, mentre il versante sud orientale confina con la Siria, di cui ha sempre fatto parte − geograficamente e storicamente − fino al 1939. Quell'anno, dopo essere stata inclusa nel mandato che la Francia aveva ottenuto su Siria e Libano al termine della prima guerra mondiale, grazie ad un referendum popolare passò alla Turchia, ma la Siria continua a rivendicarne la sovranità.
L'Hatay è sempre stato specializzato nell'accoglienza: se oggi vi trovano rifugio i siriani in fuga dalla guerra, nel primo secolo ospitava le prime comunità di cristiani, perseguitati dopo la condanna a morte di Gesù. E infatti alla periferia di Antakya, ricavata in una grotta naturale sulla montagna della Croce, si trova la chiesa più antica del mondo, fondata niente di meno che da San Pietro. Qui in pratica, ai tempi in cui Antiochia era la capitale della provincia romana della Siria, Paolo di Tarso e l'apostolo Pietro celebravano le più antiche eucaristie del mondo e predicavano di fronte ai primi cristiani, magari seduti sullo stesso trono di pietra che possiamo toccare oggi.
Antiochia era una delle città più grandi e importanti del mondo sin dall'antichità (se non ho capito male fu un generale di Alessandro Magno a darle il nome in onore di suo padre Antioco), ma purtroppo a causa di numerosi terremoti e incendi non sono rimaste molte tracce dei monumenti e dei templi con cui fu abbellita nel suo periodo d'oro. Ha però un museo archeologico fondato durante il mandato francese e famoso per la vasta raccolta di mosaici di epoca romana e bizantina e per l'enorme quantità di reperti (alcuni risalenti al paleolitico), che provengono ─ oltre che da Antiochia ─ dalle antiche città di Daphne, Tarso e Seleucia Pieria.
Oggi ad Antakya, oltre alle numerose moschee, ci sono una chiesa ortodossa, una chiesa cattolica, una sinagoga e una chiesa protestante: ci vivono infatti persone appartenenti a diverse fedi religiose (sunniti, aleviti, cristiani ortodossi) e non è un caso se i suoi abitanti la chiamano "città della pace". Dopo un rapido giro del centro storico, siamo saliti al primo piano di una pasticceria per assaporare il tanto decantato künefe, un dolce a base di formaggio di capra racchiuso tra due strati di pasta Kataifi impregnata di burro, il tutto ricoperto da uno sciroppo di acqua e zucchero e da pistacchi triturati. Mentre cedevo il mio immangiabile manicaretto ad un altro commensale, dalla finestra ho inaspettatamente ritrovato una mia vecchia conoscenza: il fiume Oronte, circondato da imponenti montagne. In realtà qui lo chiamano Asi Nehri, ma non è altro che quel fiume che faceva girare le norie di Hama, in Siria, situata circa 200 km più a sud. Il suo nome vuol dire “fiume ribelle” perché nella sua marcia dal Libano procede sempre verso nord, ma, arrivato ad Antiochia, fa un'inversione a U e ridiscende verso sud per poi buttarsi nel mar Mediterraneo in territorio turco. Mi fa una certa impressione trovarmi nella stessa regione che visitai pochi anni fa, la regione degli stiliti e dei resti archeologici romani, di Apamea e di Latakia, e pensare che oggi sono zone irraggiungibili.
Da Antiochia ci siamo spostati verso Hidirbey, dove troneggia un acero di circa 1500 anni con una circonferenza di 20 metri, chiamato l'albero di Mosè perché − secondo la leggenda − venne fuori da un bastone puntato per terra da Mosè in persona: dentro al suo tronco c'è una cavità così grande che può ospitare anche cinque esseri umani adulti. La tappa successiva sarebbe Vakıflı Köyü, l'unico villaggio armeno in Turchia, situato sul pendio del Monte di Mosè. I 130 abitanti, ci hanno detto, discendono da quegli armeni che resistettero alle deportazioni e ai massacri del 1915. Qua però abbiamo dovuto constatare che il guardiano della chiesa ci ha fatto il bidone e dunque ci hanno fatto ripiegare su Harbiye, senza visitare né Seleucia di Pieria né il tunnel di Tito, né la spiaggia di Samandağ né il Tempio di Giove presso Kapısuyu.
E infine eccoci ad Harbiye, la vecchia Daphne, dove secondo la mitologia Apollo aveva cercato di sedurre quella ninfa che preferì trasformarsi in alloro piuttosto che cedere alle sue voglie. Sin dall'antichità la città era un sobborgo di campagna dove si andava a cercare pace e frescura; oggi ci sono ben poche vestigia dell'epoca, ma restano piacevoli foreste di lauri e bucoliche cascatelle. Qui abbiamo trascorso la maggior parte del tempo a farci derubare in un negozio di tessuti e di saponi all'alloro (ben diversi da quelli famosi di Aleppo) e a cercare di dire no all'ultimo kebab.

Racconto di viaggio "KEBAB A COLAZIONE. Da Istanbul al Sud-Est della Turchia" 

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