home10.jpg

Gli altipiani malgasci

Nella patria della biodiversità bisogna obbligatoriamente visitare riserve e parchi naturali per poter ammirare quel che di protetto resta in un Paese dove il disboscamento è la pratica comune, dove cioè è abitudine consolidata bruciare foreste per ricavare nuovi terreni da coltivare o su cui far pascolare le bestie (così tutto scorre, la terra verso i laghi, che sono rossi come ciotole di sugo, e verso i fiumi, simili a colate laviche annacquate). A questo fine procediamo da Tanà a Tuleàr percorrendo la Route Nationale n° 7, una delle tre strade asfaltate di tutta l'isola. E non ci si immagini un'autostrada, poiché non è altro che una doppia corsia in alcuni tratti talmente stretta che due grossi camion quasi si sfiorano, anche se tutto questo gran traffico a dire il vero non ci sta, poiché la benzina costa un euro al litro e lo stipendio medio mensile di un malgascio non supera i 25 euro.
Lasciata la capitale, la strada si snoda tra mattoni d'argilla impilati a seccare e vestiti stesi sull'erba ad asciugare dopo essere stati strofinati vigorosamente in canali e pozze d'acqua. Nel mese di luglio, finita la raccolta del riso, ci si può imbattere in una delle cerimonie più rivoltanti delle popolazioni che abitano qui sugli altipiani centrali: la riesumazione dei cadaveri, o Famadihana. Più del matrimonio, più del funerale, è questa la festa più importante per un'etnia che considera i morti entità da ingraziarsi in quanto tramite tra i viventi e Dio. Così un certo tempo dopo la morte riaprono il sudario, scarnificano e puliscono eventualmente le ossa, le coccolano e ci parlano come se fossero ancora attaccate a un corpo vivo, spesso gli fanno fare un giretto per informarli sulle novità, e poi le mettono in un lamba nuovo e le seppelliscono di nuovo. Intanto festeggiano anche per una settimana — avendoci i soldi, visto che è consuetudine offrire carne a volontà e rum, ballare e divertirsi. Ed è ciò che stanno facendo questi uomini, donne e soprattutto bambini e ragazzini nello spiazzo davanti a questa casa al lato della strada, dove ci invitano a ballare e ci mostrano la stanza al piano terra (che è piena di nauseabondi pezzi di carne pronti per essere cucinati), felici perché domani andranno a vedere come stanno messe le ossa dei loro cari.
La strada si snoda poi tra risaie terrazzate in cui si specchiano le nuvole bianche e gonfie che sembra di stare in Indonesia, e passa per Ambositra, dove c'è il mercato. I malgasci e le malgasce ci vanno a piedi e, in base a dove abitano, si fanno anche 15 o 20 chilometri con in testa sacchi di riso, ceste, secchi, borse colorate pesanti di pomodori, insalata, verdura, frutta, legna, stoppie o involti misteriosi in buste di plastica sovrapposti, com'è loro costume. Anche qui sfilate di risciò colorati sui quali gli sfaccendati conducenti schiacciano un pisolino riparati dal sole sotto enormi poinsezie, che poi non sono altro che le stelle di Natale, ma di dimensioni paurose.
Luca, dodicenne che ha imparato l'italiano nella vicina missione, accompagna i turisti alla scoperta di questa città specializzata nell'artigianato del legno. Ci mostra dove fanno il rodeo degli zebù e il resto e poi vuole che gli compriamo il pallone e vorrebbe anche le scarpe per quando tornerà a scuola a settembre, che ha solo questo paio di infradito rovinate (e comunque è già fortunato perché la maggior parte della gente qua le scarpe non le tiene proprio). A dire il vero Luca è solo il nom de plume del giovanotto, che in realtà risponde al nome di Andriamampiomina Ando Nirina Louis, anzi non so se fa in tempo a rispondere o se nel frattempo è già scappato via, e non so nemmeno se esistono cartoline abbastanza grandi affinché qualcuno possa scrivergli davvero, come lui pretenderebbe. Ci sono anche due cinema, in uno danno "Terminator" con Arnold Schwarze, come è scritto sulla lavagna col gesso bianco, e poi c'è un film di karate. Che poi non è che sono cinema, sono baracche di legno e da fuori si sente l'audio dei film e tutti si accalcano sulla porta dietro la tendina.
Fabio è un italiano che gestisce un atelier di tessuti specializzato nella lavorazione di una raffinata seta selvatica ottenuta dai bachi della tapìa, un albero con il tronco spesso e robusto simile a quello dell'ulivo. Poiché questo legno non prende fuoco facilmente, quella di tapìa è una delle pochissime foreste originarie ancora esistenti in questo paese con la fissa degli incendi. Fabio organizza eventi e festival musicali e insomma si dà da fare per portare un po' di sviluppo: «Sai, nelle zone più povere degli altipiani esiste ancora il fenomeno del brigantaggio, anche perché rubare gli zebù è molto cool, fai il tuo bel figurone con le donne.»

Racconto di viaggio "MADAGASCAR. Un'omelette nell'oceano Indiano" 

Tagged under: Africa australe,