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Triste solitario y final

A Baracoa mi sono sistemata presso la casa particular di Rafael e Yasmine. A lui in paese lo chiamano El Gordo a causa della sua enorme stazza, e quando lo dicono allargano un po' i gomiti. Lei si chiama Yasmin perché negli anni '70 andavano di moda i nomi di donna che iniziano con la Y. Entrambi al momento hanno lasciato i loro precedenti lavori e si occupano solo della casa, per cui si sono specializzati nella cucina e nella preparazione di cocktail: el Gordo — si autopubblicizza — prepara il miglior mojito che io abbia mai assaggiato in vita mia.
A colazione, mentre bevo un delizioso frullato di fruta bomba (come chiamano la papaya, a Cuba), Rafael, guardando il mio passaporto, mi comunica che siamo nati lo stesso giorno. Ci tiene che io sappia che il 10 ottobre è una data simbolica molto importante a Cuba, perché in quel giorno, nel 1868, il dueño Carlos Manuel de Céspedes liberò tutti i suoi schiavi al suono della campana dell'ingenio e da lì ebbe inizio la lotta contro la dominazione spagnola.
Sul lungomare nuvoloso, prima di partire, un nodo in gola mi prende mentre dal bar sparano a tutto volume un pezzo di Ramazzotti che canta in spagnolo. Osservo gli abitanti di Baracoa pazientemente in fila per le galletas, e la tenerezza mi invade guardando Pedro che, accanto al bus Viazul, sorride nonostante la stanchezza, mentre si abbottona la camicia azzurra da autista, che ha appena indossato sopra la canottiera verdone.
La strada è la stessa dell'andata, con i cactus, la costa scoscesa, le fitte palme e la sosta nell'anonima periferia di Guantanamo per mangiare le indigeste pizzette al formaggio. Nel bus intanto si accumulano banane e mandarini per la famiglia di Pedro. Sulla strada è un continuo di manifesti di propaganda governativa, che per esempio vorrebbero far venire voglia di lavorare grazie a queste simpatiche formicone che recitano: "¿Nos trabajamos y tu?"
Mi sveglio a Santiago, in plaza de la Revolución, davanti al monumento equestre ad Antonio Maceo, una statua circondata da venticinque lame di machete. Dopo un'estenuante attesa all'aeroporto, arrivo congelata all'hotel dell'Avana poiché ci sono circa 20 gradi di differenza tra il profondo oriente meridionale di Santiago e la capitale, che sta esattamente sopra al Tropico del Cancro.
L'ultimo giorno di vacanza un taxi collettivo mi porta al centro dell'Avana. Lazaro mi aveva dato appuntamento alle 3 ma arriva circa due ore e mezza dopo, nonostante possieda un orologio digitale parecchio ingombrante. Il problema è che casa sua si è allagata, infatti in questo paese pieno di cervelloni l'acqua è razionata e arriva se va bene due volte al giorno e gestire queste cisterne casalinghe a volte è un problema. Seduta accanto a lui sulla scalinata dell'Università dell'Avana, con in mano un libro di Graham Greene tradotto in spagnolo, mi chiedo come si fa a vivere senza acqua ma con l'armadio pieno di scarpe All Star. Come si fa a guadagnare 10 euro al mese e spenderne 150 per comprare un cellulare. Come si fa a diventare il più grande neurochirurgo di tutti i tempi e studiare su libri così vecchi. Come si fa a vivere in un mondo che ci mette in testa dei desideri così poco naturali, e poi non ci permette nemmeno di esaudirli. E mentre guardo i muri scrostati, i ragazzi che giocano a pallone, il cielo nuvoloso che incombe, mi domando in cosa consisterebbe secondo loro questa justicia tanto sbandierata e fino a quale victoria, precisamente, dovrebbero combattere, quando invece tutti sappiamo come andrà a finire e andrà a finire nel solito modo e in quello sì, che stiamo diventando tutti uguali, come qualcuno sognava.

Racconto di viaggio "NON VOGLIO IMPARARE A BALLARE! Cuba in lungo e in largo"