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1500 CHILOMETRI DI PIANURA

Polonia in solitaria

Varsavia - Danzica e la penisola di Hel - Toruń - Łódź - Cracovia - Immagini - Piccolo Me

La Polonia…
... neve, donne che si abbronzano e niente colonie. Prima, guerra; ora, case in costruzione e gente che insegna a leggere ad altra gente.
"Insomma, una vaga idea gliel'ho data" mi dissi per giustificarmi. "Per i particolari è troppo tardi. Ho sonno e domattina si riparte all'alba. Non posso mica fermarmi a fare una conferenza".
(Ryszard Kapuściński, "Giungla polacca")

Ero a Cracovia, seduta ad una macchina da cucire a mobiletto sulla terrazza del locale Singer. Alle 11 di sera, finalmente una lievissima brezza stava soffiando nel quartiere ebraico di Kazimierz. Avevo socializzato con alcuni turisti: svedesi, canadesi, olandesi, australiani. Il canadese viaggiava in Europa con un gruppo organizzato: in dieci giorni avrebbero visitato Budapest, Praga, Cracovia e chissà cos'altro; era la prima volta che veniva in Europa ed era veramente esaltato dall'abbondanza di testimonianze storiche. Quando se n'è andato, io e lo svedese ci siamo guardati perplessi. Per noi la Polonia era molto differente dalle nostre rispettive terre di provenienza e facevamo fatica solo a immaginare che cosa volesse dire "Europa", per il canadese (il quale, oltretutto, aveva confuso la Svezia con la Svizzera).

Ad esempio, la Polonia è un posto in cui è considerato sintomo di stupidità sorridere a uno sconosciuto. Non a caso, sull'aereo del ritorno la mia vicina di posto, Małgorzata, mi ha fatto una testa così con il suo amore per l'Italia, dove tutti ti sorridono e ti aiutano, e accoglieva con rassegnati cenni del capo i miei racconti relativi alle difficoltà di comunicazione incontrate nel suo Paese.
Le stazioni degli autobus polacche, in particolare, sono il tempio dell'asocialità reale. Alla biglietteria stanno sedute queste donne dalle pettinature gonfie e antiquate che non solo sono geneticamente incapaci di sorridere, non solo non spiccicano nemmeno una parola di inglese, ma non hanno nessuna intenzione di interpretare i gesti. È questo il motivo per cui ho viaggiato quasi sempre in treno, e quelle uniche due volte che ho preso l'autobus ciò è stato possibile soltanto grazie a due anime pie di giovanotti che hanno dovuto intercedere per me.
Voglio dire che questo è un vero peccato perché io amo viaggiare in autobus − e soprattutto adoro i conducenti degli autobus polacchi, con i loro baffoni alla Boniek, lo sguardo malandrino e le camicie anni Settanta, che mangiano zuppe bollenti alle stazioni di servizio.

QUESTO ALBERGO NON È UNA CASA

Prima di partire, avevo consultato i siti di hotel booking. In realtà, leggevo solo le recensioni negative, realizzando che c'è gente che non ha niente di meglio da fare che lamentarsi perché manca il bollitore del tè in un hotel di Varsavia risalente ai tempi di Krusciov, o che − dopo aver prenotato coscientemente una stanza con solo lavabo − si prende la briga di scrivere che il bagno era fuori dalla stanza.
Alla fine, ho prenotato quasi tutte le camere in hotel a più piani, con ascensori lentissimi, dove ancora si respira quel tanfo antico di sigaretta lasciato negli anfratti della moquette da torme di viaggiatori d'affari socialisti.
Ad esempio, a 400 metri dalla famosa via Nowy Świat, spicca una sgradevole sagoma nel panorama di Varsavia: un albergo a 3 stelle che offre confortevoli camere con TV satellitare. La mia stanza singola era in pratica un appartamento costituito da due ampi ambienti comunicanti e due bagni privati di cui uno con vasca e uno con doccia (pensavo che avessero sbagliato a darmi la chiave, ma quando l'ho fatto presente al receptionist, questi non ha fatto altro che fissarmi con sguardo impassibile).
Al ritorno nella capitale polacca invece ho preso possesso di una spaziosa e luminosa (fin troppo) camera in un hotel budget che un tempo forniva alloggio ai militari. Il personale della reception, a mia disposizione 24 ore su 24, non sembrava molto lieto di fornirmi informazioni turistiche o di offrirmi servizi di portineria, anzi aveva difficoltà nel formulare un sorriso e non era propriamente a suo agio con l'inglese. Nei dintorni dell'hotel ho trovato come promesso molti negozi e ristoranti, ma soprattutto discoteche e night club a cui la maggior parte delle recensioni negative allude (alcune con rancoroso livore).

A Danzica ho dormito in una residenza per musicisti, a 400 metri dalla Città Vecchia. Le camere erano dotate di un bagno privato, di un frigorifero e della connessione Wi-Fi gratuita (che però prendeva solo al piano terra). La struttura disponeva di una reception aperta 7 giorni su 7, 24 ore su 24, nella quale solo una delle alacri impiegate era in grado di comunicare in inglese. Anche sulla pagina delle recensioni di questo hotel (come sulla pagina di tutti gli hotel polacchi) i clienti si accaniscono sul fatto che si sono svegliati all'alba a causa della penuria di tende.
Sia a Toruń sia a Łódź, per una ventina di euro ho potuto alloggiare in questi edifici di cemento identici a scuole medie italiche, arredati con tende scenografiche ma prive di utilità, moquette, vellutini e carte da parati di una eleganza anni Settanta. Anche qui numerosi indignati commenti prendono di mira la difficoltà che le bionde receptionist incontrano nel sorridere e nel parlare inglese.
E infine l'unico ostello, a Cracovia, dotato dei soliti arredi in legno leggerissimo, letti in abete con materassi sottilissimi, pavimenti che scricchiolano, computer al piano, living room, cessi privi di finestre e immangiabili formaggi e prosciutti nel frigo, a disposizione degli ospiti. Tutte queste caratteristiche, assolutamente tipiche degli ostelli in nord Europa, vengono aspramente criticate dai recensori dei siti di hotel booking.

I LIKE CHOPIN

Remember that piano / So delightful unusual / That classic sensation / Sentimental confusion.
(Gazebo, "I like Chopin")

«Zapraszamy!» Mi accoglie, appena scendo dal bus, il Palazzo della cultura di Varsavia tutto circondato da splendide nuvolette. «Zapraszamy!» Mi accoglie la zia del lago d'Orta che scende dal taxi pochi istanti dopo. Il Palazzo della cultura mi ricorda qualcosa, e infatti è identico a quell'edificio di Riga soprannominato "la torta di compleanno di Stalin", ma è molto più grande. La zia del lago d'Orta invece erano circa tre anni che non la vedevo ed è sempre la stessa, anche se in realtà mi dice «benvenuta» e non «zapraszamy» perché, effettivamente, lei è italiana.
La frizzante zietta vuole immediatamente farmi conoscere la città e dunque mi conduce al trentesimo piano del suddetto palazzo: per fortuna c'è un ascensore superveloce, perché io non ho ancora avuto il tempo di lasciare il bagaglio in hotel e non posso nemmeno trascinarlo sulle ruote perché così vuole il regolamento. Dall'alto posso farmi subito un'idea di questa capitale che è stata rasa al suolo dai nazisti ma non si direbbe: i grattacieli di vetro fanno a gara di altezza, la chiazza rossa corrisponde al centro storico dai tetti di tegole, quello dietro è il fiume Vistola, e poi, qua e là, grosse macchie verdi che corrispondono ai parchi e giardini che già avevo notato dall'aereo, in fase di atterraggio. In realtà, non proverete molta nostalgia per i bei tempi della ricostruzione, visto che un'ampia area non distante dalla stazione centrale è interamente sventrata per i lavori della metropolitana.

Dopo averci girato intorno a lungo, oltrepasso le antiche mura con il Barbakan ed entro nel delizioso centro storico accuratamente ricostruito grazie ai dipinti di Canaletto, con la doverosa piazza quadrata (tre quinte costituite di deliziose facciate affiancate, ognuna di un colore diverso) e alcune stradine deliziosissime occupate da ristorantini con la terrazza piena di deliziosi vasi di fiori. Piazze e vie straboccano di tutti i turisti che non avevo visto fino a quel momento, finché arrivo alla Piazza del castello (una roba fiabesca di colore rosso-arancio) al centro della quale si eleva la Colonna di Sigismondo.
Alle 8 la temperatura è precipitata, folate di vento gelido mi schiaffeggiano mentre intraprendo la passeggiata reale, così mi rifugio in un bar. Il giovane cameriere, dotato di quel fatalismo tipico dei camerieri polacchi che lavorano nei pub irlandesi, mi informa che è così in Polonia: un'estate si crepa di caldo l'altra di freddo. Non lo sfiorava il pensiero che dopo meno di dieci giorni alle 8 di sera, nella stessa Varsavia e nella stessa estate, avrei trovato circa 25 gradi in più, con la popolazione rintanata nei pochi locali dotati di aria condizionata. In quell'occasione mi sarei rinfrancata nel “Sol y sombra”, locale specializzato in tapas spagnole. Qui avrei trovato un tavolo di uomini d'affari che approfittava dell'aria condizionata per fare fuori alcune bottiglie di vodka a stomaco vuoto, mentre al bancone avrei socializzato con uno spagnolo che lavora a Varsavia, il quale in poco tempo mi avrebbe aggiornata su tutti gli incidenti stradali che quel giorno avevano funestato la nostra bella Europa: uno in Italia (bus precipitato nella scarpata, 38 morti), uno in Spagna (treno deragliato, 79 morti), uno in Polonia (frontale tra due auto, numero di morti non pervenuto).

La sera del mio arrivo invece, la movida nella famosa via Nowy Świat cerca rifugio all'interno dei locali per i motivi opposti e il clima è perfetto per un buon gulasz o un corposo flaki (trippa al sugo), cibi grassi e saporiti della tradizione polacca, ideali per assimilare quantità ingenti di vodka. I giovani che affollano le vie del quartiere ci danno dentro con l'alcol; il Palazzo della cultura a quest'ora è viola e giallo.
Al mattino il sole riscalda i grandi viali, i caffè pronti per il brunch domenicale, le numerose aree verdi e tutte le persone che passeggiano beatamente (rischiando − le meno accorte − di farsi investire sulle strisce pedonali). Mi immetto nella “via reale” dal punto in cui l'avevo lasciata, all'incrocio con Aleje Jerozolimskie, seguendo lo stesso itinerario che il re affrontava per spostarsi dal castello alla residenza estiva, situata nel Parco Łazienkowski, il più grande di Varsavia (quasi del tutto risparmiato dalla furia distruttiva nazista).
Dopo aver visitato il festoso giardino botanico, entro nel parco vero e proprio lasciandomi condurre dalla musica di un piano, che aumenta gradualmente di volume finché non appare davanti ai miei occhi la seguente scena: uno specchio d'acqua circondato da un prato assiepato di centinaia di persone sedute in silenzio, tra i fiori; accanto al laghetto una enorme statua di Fryderyk Chopin romanticamente seduto sotto un salice piangente, con la testa girata verso sinistra, che sembra guardare la pianista che in quel momento sta suonando. Sembra che tutti trattengano il respiro.

HEL IS OTHER PEOPLE

Eccomi di nuovo a Danzica, tre anni dopo. Ecco la Via Lunga, con tutte le facciate dipinte allineate come soldatini impettiti, sormontate da frontoni anseatici uno diverso dall'altro. Ecco il Lungo Mercato e la fontana Nettuno, ecco la chiesa più grande di tutta la Polonia. Ecco i venditori di gioielli di ambra e quelli di girasoli, frutti di bosco e cetrioli in salamoia. E poi le tante porte di ingresso al centro storico e il solito stupore nel pensare che quasi tutta la città è stata distrutta dai tedeschi e ricostruita dai comunisti.
Di nuovo passeggio sul lungofiume affollato di turisti, salutando la nera gru di Danzica che, fatto un passo avanti nella fila degli edifici colorati, si sporge come allora su quel ramo del delta della Vistola. Ed eccolo qui uno dei velieri su cui quell'altra estate mi imbarcai per raggiungere i cantieri navali e la penisola di Westerplatte, il luogo dove iniziò la seconda guerra mondiale.

Mi ricordo molto bene la stazione centrale, rossa di mattoncini e appoggiata alla torre dell'orologio, dove è sempre vivo il contrasto stridente tra la bellezza architettonica della struttura e l'odiosità del personale che ci lavora. E soprattutto mi ricordo il museo di Solidarnosc, dove la Polonia comunista e il movimento di Lech Wałęsa vengono rappresentati per mezzo di allestimenti di grande impatto multimedial-emotivo (con la stessa filosofia sono stati realizzati il Museo dell'insurrezione di Varsavia e quello dell'occupazione nazista di Cracovia).
Dopo mezz'ora di mio personalissimo déjà vu, le zie sono pronte per andare a cena e festeggiare l'incontro in un romantico ristorante sul lungofiume, con le lucine e i fiorellini. Il servizio è di una lentezza tipicamente nord-polacca, per cui abbiamo tutto il tempo di ubriacarci con la birra scura nell'attesa del pesce del Baltico impanato e dell'anatra con salsa di ribes.

La nostra meta per l'indomani è la Penisola di Hel, che chiude il pezzo occidentale del golfo di Danzica. Avevo grandi aspettative su questa località, che mi immaginavo simile alla penisola di Neringa, in Lituania (enormi dune spazzate dal vento, odorosi pini marittimi e casette restaurate di tutti i colori). Le zie avevano già organizzato l'itinerario per raggiungerla: avremmo preso prima un treno per Sopot e poi da lì il traghetto per Hel; giunte a destinazione, avevamo intenzione di affittare le biciclette e raggiungere il punto più stretto della penisola, dove è possibile vedere il mare da entrambe le direzioni.
A Sopot è ancora molto presto sia per lo struscio sia per la vita di spiaggia. La luce è nitidissima e l'atmosfera baltica elegante di grand hotel e casino, moli e gabbiani. La casa storta, che è la prima cosa che appare su Google immagini se digiti Sopot, in realtà è un caffè e inizialmente stentiamo a riconoscerla, perché sul marciapiede sono piazzati gli ombrelloni del bar e un albero molto rigoglioso ne copre una grossa parte (invece le foto su Google immagini sono tutte state scattate in inverno, quando l'albero è spoglio e gli ombrelloni non ci stanno). La traversata in traghetto è lunga ma piacevole; la giornata è bella e soleggiata.

Hel si rivela subito molto gelosa del suo ufficio del turismo, per cui non riusciamo in nessun modo ad ottenere una mappa della penisola. Le strade sono già iperaffollate e la spiaggia è un carnaio. Per puro caso incontriamo un tizio in canottiera che ci affitta le bici, ma non parla inglese (contrattiamo a gesti). In ogni caso, partiamo. Solo per trovare la pista ciclabile, dobbiamo fermare tre o quattro persone diverse. La pista inizialmente sembra semplice, piana e asfaltata, ma poi diventa un alternarsi affaticante di salite e discese nella pineta, con la complicazione della sabbia (tanto più che ci hanno rifilato delle vere chiaviche di biciclette). Nessun cartello ci informa di dove siamo e quanto cavolo ci vuole ad arrivare da qualunque parte. Gli interpellati scuotono le mani come se la nostra richiesta di informazioni gli rubasse un pezzo di anima. Dopo diversi vaffanculo postumi, torniamo indietro deluse, rivolgendo anche un pensiero poco amichevole all'impiegata dell'ufficio del turismo che aveva sconsigliato di affittare un'auto a causa delle strade strette e trafficate. Come se non bastasse, il traghetto di ritorno è già pieno, così siamo costrette a un lunghissimo viaggio in treno (che almeno ci consente di guardare − seppur di sfuggita − tutto quel pezzo di penisola dove non siamo mai riuscite ad arrivare in bicicletta).
D'altra parte, come mi ribadirà il giorno dopo il ragazzo che affitta le bici a Toruń, manca solo una semplice elle per trasformare Hel in un inferno. «Ci avevi fatto caso?» Mi chiede. «Tak (sì)».

LA CULLA DI COPERNICO

È il 24 luglio. Alle 7 di sera il sole sta calando ma è ancora forte, tanto da asciugarmi con rapidità i capelli appena lavati. Sono a Toruń, sulla riva della Vistola, al tavolo di uno dei chioschi con ombrelloni marchiati Lech o Tyskie, le birre più diffuse. Mi godo la tranquillità di questo lungofiume dove nessuno urla. Ai tavoli accanto a me, altri avventori (soprattutto di sesso femminile) bevono la birra mischiata con lo sciroppo di lampone. Alcune la sorbiscono con la cannuccia. Poco più avanti c'è un van di hippie che arrostiscono le salsicce e vendono bevande.
Sono arrivata qui ieri pomeriggio, direttamente da Danzica (purtroppo la prevista visita al castello di Malbork era andata a farsi benedire a causa dell'inettitudine delle solite cassiere che non sapevano darmi nessun tipo di informazione sui trasporti). Una studentessa conosciuta sull'autobus mi ha guidato fin sulla soglia del centro storico: il cielo era di un blu intenso, e faceva da contrasto al rosso dei mattoni con cui sono realizzati gli antichi palazzi medievali. «Tutto è rimasto intatto perché la città piaceva ai tedeschi», mi ha detto la gentile studentessa universitaria, prima di salutarmi.

La prima cosa che ho notato è che, come tutte le città che hanno dato i natali a illustri personaggi, anche a Toruń si sprecano i luoghi di Niccolò Copernico: oltre alla casa dove nacque, c'è il museo a lui dedicato, il planetario, la sua statua nella piazza della città vecchia, la cattedrale dove fu battezzato; a lui sono intitolati negozi, bar, ristoranti, supermercati, centri commerciali, l'università, una delle vie principali del centro e addirittura due hotel: uno all'inglese (Copernicus) e uno alla polacca (Kopernik). Va anche detto che Copernico ebbe una vita abbastanza lunga perché a quell'epoca altri colleghi che affermavano le stesse idee sue bruciarono sul rogo, mentre lui si spense di morte naturale.
Dalla torre del palazzo municipale, alta 41 metri, si godeva una superba vista: tanti tetti aguzzi, strade lastricate, segnavento e frontoni; mura, bastioni e porte fortificate; una torre pendente come a Pisa; le rovine del castello dei cavalieri teutonici e poi il lungofiume (la solita Vistola).
Apparentemente, si respirava tutta un'altra aria: molti turisti affollavano le vie, le persone sembravano più gentili e disponibili e i servizi per gli stranieri maggiormente presenti. Sicuramente le cassiere delle stazioni del bus − mi sono detta − saranno socievoli e gli impiegati sorridenti. L'incontro con Katarzyna, cameriera italofona, mi ha ben predisposto mentre divoravo un impegnativo pancake di patate ripieno di goulash.

La giornata odierna è stata inaugurata da un cielo pieno di nuvole grigie. Alle 10 meno un quarto era impossibile avere un caffè − se non ovviamente in una quelle catene internazionali dove un cappuccino costa quanto un intero piatto di pierogi. «Normalmente nessuno fa colazione al bar», mi ha poi detto il ragazzo che affitta le bici, prima di illustrarmi alcuni itinerari ciclistici con l'aiuto di una mappa. «Prima attraversa il ponte e vai in direzione della stazione; sulla sinistra troverai una strada che ti porta al belvedere: di là potrai ammirare tutta la città al di là del fiume». «Poi prendi via Mickiewicza (non scordarti di ammirare i bei palazzi in stile liberty), alla fine gira verso destra e prosegui fino alla fortezza» (non mi aveva detto che avrei ammirato numerosi palazzoni di cemento dai colori accesi). «Da lì imbocca via Barbarka che, attraverso la foresta, ti condurrà fino al lago. Lì potrai riposare, bere e mangiare». «Al ritorno, invece di ripercorrere la stessa via Mickiewicza di prima, puoi optare per un sentiero nel bosco, che costeggia i laghetti», dove i pescatori pescano e le anatre flottano felici. «Infine puoi percorrere tutto Bulwar Filadelfijski, ossia il lungofiume, fino ad arrivare al forte II».
Dopo aver seguito ligiamente quasi tutti i consigli del ragazzo che affitta le bici, ora che il sole sta calando, qui sulla riva della Vistola, traccio una specie di bilancio. Ormai conosco a menadito tutti gli anfratti della via Szeroka (Via Ampia), che congiunge la piazza della città nuova con la piazza della città vecchia. Ho assaggiato quasi tutte le marche di birra e diverse specialità culinarie. Ho le gambe a pezzi, non ho visitato manco un museo, né sono riuscita ad ottenere un barlume di informazione in merito agli autobus per andarmene da qui.

DALLA CITTÀ DI ŁÓDŹ

Tutto questo può rendere l'idea di quante persone nella città di Łódź fossero mutilate, alcune anche in maniera terribile. Questo era il risultato dell'antica industria tessile di Łódź, che era estremamente arretrata e pericolosa con tanti incidenti che mutilavano gli arti degli operai. Era anche il risultato delle strade molto strette dove i tram passavano dritti rasentando gli edifici. Bastava mettere male un piede per ritrovarsi sotto un tram. Era una città di questo tipo, faceva inorridire ma al tempo stesso affascinava proprio per queste sue caratteristiche.
(Krzysztof Kieślowski)

Łódź, la seconda città più grande della Polonia, non è propriamente presa d'assalto dai turisti. Il mio travel book nemmeno la inserisce tra le destinazioni esistenti, e anche i polacchi a cui avevo accennato la mia intenzione mi guardavano con perplessità. Io comunque non escludo la possibilità che uno dei motivi per cui i turisti stranieri la trascurano è perché non ne sanno pronunciare il nome (si dice "'wuʨ").
Ora, non è che le mie scelte siano sempre frutto di studi metodici e approfonditi: in questo caso per esempio ho deciso di visitare Łódź solo perché si trova a metà strada tra Toruń e Cracovia. Poi nell'ordine ho scoperto che è sede dell'industria cinematografica polacca, centro d'arte e capitale nazionale della musica elettronica, e la meta ha acquisito una certa attrattiva. Infine, a Łódź ci sono il cimitero ebraico più grande d'Europa e il primo ghetto ebraico della Polonia, il ghetto di Litzmannstadt. Dei 230 mila ebrei che ci vivevano al momento dell'occupazione nazista, quasi due terzi andarono a finire ad Auschwitz partendo dalla stazione di Radegast. Oggi questo sito è stato trasformato in un monumento in memoria della distruzione del Ghetto.

Intanto, memore delle difficoltà incontrate a Danzica e alla stazione di Toruń (dove nessuno dei passeggeri interpellati ha avuto il coraggio di confermarmi che quello fosse il binario giusto per il mio treno), mi stavo già facendo il segno della croce in vista del mio arrivo in questa città di cui non avevo nemmeno uno straccio di cartina, quando ho visto un miraggio: l'ufficio informazioni turistiche nella stazione dei treni. Quale la mia sorpresa nel trovare ciò che ho cercato invano a Danzica e trascorrere una mezz'oretta a ridere e scherzare in anglo-portoghese con un simpatico impiegato che aveva vissuto in Brasile.
Purtroppo la cartina che mi ha dato era in una scala assurda, quindi posti che mi sembravano vicinissimi non lo erano per niente e ho camminato un casino.
Alla scuola di cinema di Łódź hanno studiato registi del calibro di Krzysztof Kieślowski e Roman Polański. Kieślowski, in particolare, per il diploma realizzò questo documentario (che si può vedere su Youtube), in cui descrive la città attraverso le fabbriche e i palazzi fatiscenti, i bambini che giocano, gli uomini alla finestra, le orchestre pop e gli stonati partecipanti ad un concorso musicale. Oggi molti di questi elementi fanno ancora parte dell'atmosfera cittadina, per quel poco che ho potuto vedere (tranne i mutilati e le orchestre pop, che non ho incontrato).

Łódź, sin dall'Ottocento, era infatti una città industriale specializzata nel settore tessile. Le grandi strutture in mattoncini rossi e i sontuosi palazzi oggi sono in decadenza, oppure sono stati trasformati in complessi commerciali o musei. Il museo del cinema, ad esempio, è ospitato nel palazzo del re del cotone Karol Scheibler: l'esposizione permanente e quelle temporanee comprendono locandine, strumenti cinematografici antidiluviani, un panopticon con le immagini dell'Andalusia, una interessante sezione dedicata al cinema d'animazione, ma anche gli interni e gli arredi sontuosi rappresentano un'attrazione per il visitatore.
Un altro complesso industriale è stato trasformato nel centro commerciale e per il tempo libero Manufaktura, che ospita ristoranti di tutto il mondo (tranne che polacchi), musei, negozi e spazi per varie attività ricreative. L'arteria principale della città si chiama ulica Piotrkowska e misura 3,6 km, metà dei quali restaurati con begli edifici Art nouveau, metà sventrati dai lavori in corso: di notte, senza illuminazione, sembra un teatro di guerra.

BENVENUTI ALL'INFERNO

La meta principale di questo viaggio, inizialmente, era Cracovia, capitale reale per cinque secoli, gioiello architettonico rimasto miracolosamente illeso dagli scempi della guerra, base ideale per raggiungere i due siti UNESCO di Auschwitz-Birkenau e delle miniere di sale di Wieliczka.
Poi una serie di circostanze che non starò qui ad elencare mi ha fatto deviare verso Danzica − cioè nella direzione esattamente opposta −, da cui poi ho intrapreso la discesa verso Cracovia, compiendo un assurdo itinerario ad ellisse schiacciatissima di circa 1500 chilometri.
Cracovia, sin dal mio arrivo, sembra che voglia riparare a tutte le difficoltà di comunicazione riscontrate altrove: numerosi cartelli in inglese mi indicano il centro, la stazione dei treni, i monumenti... e ci sono persino i ragazzi con il gilet arancione con la I di informazioni che aiutano a trovare il treno o l'autobus di cui uno necessita. Tanti parlano inglese, perfino nelle farmacie, e soprattutto nella temibile biglietteria della stazione degli autobus, che in questo caso è dotata di un tabellone luminoso con tutte le prossime partenze, cosa inconcepibile nel resto della Polonia.
Attraverso graziose e garbate viuzze raggiungo la piazza quadrata più grande della Polonia o addirittura dell'Europa intera e vengo accolta da musica jazz, festose carrozze trainate da cavalli infiocchettati, fiori colorati. La luce del tramonto indora i campanili asimmetrici della chiesa di Santa Maria, la cupola verde della piccola chiesa di Sant'Adalberto, il mercato dei tessuti intorno a cui si dispiegano le facciate pastello della piazza del Mercato. E anche il quartiere Kazimierz, con gli ebrei ultra-ortodossi, i murales e le coppie di sposi in posa, mi appare frizzante e movimentato: lo storico ghetto ebraico oggi è infatti diventato il centro della movida notturna.

Al mio risveglio Cracovia è una fornace, tuttavia ancora niente lasciava presagire la catastrofe, anzi, addirittura sono arrivata in tempo per occupare l'ultimo sedile libero sull'autobus diretto ad Oswiecim. Che fortuna! Mi sono detta guardando altri passeggeri saliti dopo di me, che si sono dovuti sciroppare quasi due ore di lento tragitto in piedi. Sui sedili di lana si sudava, ma ero ancora ottimista, seduta sull'ultimo sedile libero, al centro della fila in fondo.
Quando sono scesa nel piazzale antistante al museo di Auschwitz, l'inferno ha lanciato le sue prime avvisaglie: non solo c'erano migliaia di persone e decine di autobus, non solo era pieno di negozietti di bevande e souvenir, ma il mio corpo si era rapidamente ricoperto di bolle. Ho diligentemente fatto un'abbondante mezz'oretta di fila, poi sono stata dotata di cuffie e inserita in uno dei gruppi che partivano in quel momento, costituito da non meno di 50 persone, con guida in carne e ossa dotata a sua volta di microfono.

La visita guidata prevedeva un ordinato serpentone di gente che entrava e usciva a velocità supersonica dai vari edifici allestiti a museo. La guida raccontava per la millesima volta l'orrore con una freddezza frutto dell'abitudine. I turisti che la seguivano guardavano e fotografavano le montagne di valigie, i cumuli di capelli da donna, le migliaia di scarpe, pennelli da barba, spazzole, occhiali rotti, protesi, cessi, prigioni e pagliericci. Alcuni visitatori erano visibilmente commossi ma non potevano fermarsi perché sospinti dagli altri gruppi che seguivano disciplinatamente l'itinerario previsto. Col passare dei minuti e l'aumento della temperatura, le mie bolle hanno cominciato ad ingrandirsi e prudere sempre di più.
«Non andare ad Auschwitz domani», avevo sentito dire la sera prima al bar Singer, «ci saranno 39 gradi e a Birkenau non c'è nemmeno un po' di ombra». Ho consultato l'orario della corriera per rientrare a Cracovia (orario che insieme ad alcuni giapponesi avevo fotografato alla fermata) e sono scappata per prenderla in tempo.

Tornata in città e assunta una pasticca di antistaminico, ho attraversato il quartiere Kazimierz, ho percorso il ponte sulla Vistola e ho raggiunto l'ex fabbrica di Schindler, che dal 2010 ospita il museo dell'occupazione nazista di Cracovia. Sono poi passata dalla piazza Bohateròw Getta dove c'è la famosa installazione con le sedie sparse che commemora l'evacuazione del ghetto. Quando mi sono seduta in uno dei ristoranti del quartiere ebraico, allietato dall'orchestrina klezmer, non credo di aver fatto un'ottima impressione al personale, che in ogni caso mi ha dato lo stesso da mangiare (non ricordo nemmeno cosa, sentivo solo odore di Autan e crema antistaminica).
La Cracovia del giorno dopo non è più la stessa. I turisti di tutto il mondo sudano copiosamente. I cavalli infiocchettati hanno sete. Le statue viventi si tolgono la maschera e bevono incredibili quantità di acqua sedute sul marciapiede. Gli sposi non osano farsi fotografare fuori dall'ombra dei portici del Mercato dei tessuti. Solo il bronzeo poeta Mickiewicz e un buffo cane di pietra che suona il flauto restano impassibili al centro della piazza.

Visto che le bolle si stanno rapidamente infettando, non solo è una tortura visitare sotto il sole cocente il quartiere di Kazimierz sulle tracce di "Schindler's List", ma devo abbandonare precocemente anche il walking tour nella città vecchia, dopo aver visitato solo il Teatro Słowacki e la Porta Floriańska (niente castello di Wawel, né luoghi di Giovanni Paolo II). Ciò significa che non riesco ad entrare nella Cattedrale, dove Karol Wojtyla ha celebrato la sua prima messa come arcivescovo di Cracovia, né nel Museo Arcidiocesano, dove si trova la stanza in cui abitava il papa prima ancora di diventare vescovo. Mentre mangio uno zapiekanki, il più tipico degli street food (una gigantesca mezza baguette farcita), penso che ho del tutto ignorato la chiesa di San Floriano, la chiesa di San Stanislao Kostka e un'altra dozzina di chiese, né ho potuto vedere il capolavoro di fama mondiale La dama con l'ermellino di Leonardo da Vinci.
Inutile dire che non sono andata a Lagiewniki, per seguire l'affascinante storia di suor Faustina, né a Wadowice, la città natale di Papa Giovanni Paolo II, né a Czestochowa, per vedere il famoso quadro della Madonna Nera, né tanto meno alla miniera di sale di Wieliczka.

Invece mi sono fatta una doccia gelata e ho atteso pazientemente che il sole tramontasse, stesa sul mio letto di legno di abete con il materasso sottilissimo.
Sentendo gli arcinoti scricchiolii del pavimento, ho pensato ai combo tour "Miniera di sale di Wieliczka, Zakopane e Auschwitz-Birkenau" e alle decine di autobus turistici nel piazzale del più famoso lager nazista, alle carrozze trainate dai cavalli e ai concerti di jazz klezmer. Poi mi sono venuti in mente tutti i monumenti in memoria e i cimiteri ebraici, le piste ciclabili e le birrerie lungo la Vistola, i tetti rossi visti dall'alto, i musei multimediali e i sottopassaggi visti durante il viaggio. A seguire, sono sfilati nella memoria Copernico, Chopin e Mickiewicz (e le loro relative statue), la birra con lo sciroppo di lampone, i girasoli e i pierogi, i lavori in corso, i centri storici ricostruiti dai comunisti e gli sgraziati hotel a più piani.
E per finire, mandando un saluto ai conducenti con i baffi alla Boniek e perfino alle cassiere delle stazioni degli autobus, ho ripercorso virtualmente i millecinquecento chilometri di pianura che mi sono passati davanti agli occhi, mentre per dieci giorni viaggiavo nei treni (e nei pochi autobus) della Polonia, in Europa, nell'estate del 2013.

(luglio 2013)

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