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JALAN-JALAN PER LE STRADE DELL'INDONESIA

Giacarta, Sulawesi e Bali in solitaria

Giacarta - Sulawesi - Bali - Immagini - Piccolo Me

Due o tre anni fa sono andata in l'India con un'amica. Era la prima volta che viaggiavamo insieme e ben presto mi resi conto che avevamo uno stile diverso: lei aveva programmato un lungo elenco di attrazioni turistiche “da non perdere” e per ottimizzare i tempi (ma anche per pigrizia) preferiva raggiungere le varie mete con i mezzi piuttosto che a piedi. Una delle prime sere le imposi di non prendere il tuk-tuk per andare al ristorante dove avevamo deciso di cenare. Durante la passeggiata mi confessò che non le era mai capitato di essere invitata a cena da sconosciuti come era successo a me varie volte, ma le sarebbe piaciuto molto, e io le promisi che se lo avesse desiderato davvero sarebbe capitato con grande facilità. Il primo invito non si fece attendere: dopo soli cinque minuti di cammino attraverso viuzze sconnesse e scarsamente illuminate, due uomini nei pressi di un tempietto addobbato ci offrirono un piatto di riso, sorridendo. Declinammo la proposta perché ambivamo a qualcosa di meglio, ma eravamo sulla buona strada. Giunte al nostro indirizzo, ci fermammo a chiedere indicazioni in merito al fantomatico ristorante. In quel mentre notammo, sull'altro lato del viale, un enorme tendone bianco illuminato da plafoniere da stadio. Ci precipitammo a vedere di cosa si trattasse e in men che non si dica fummo invitate ad una festa di matrimonio. Ci trattarono come ospiti d'onore, assaggiammo delle pietanze deliziose, conoscemmo molti eleganti parenti. Insomma, fu una serata indimenticabile.
Noi turisti a volte tendiamo a considerare un viaggio come una raccolta di figurine, il cui obiettivo è completare la pagina, mettere una ics su ogni attrazione, mentre alcuni dei miei migliori ricordi sono incollati a luoghi incontrati per caso e non segnalati su una guida come “da non perdere” (tra l'altro, come si fa a perdere qualcosa se prima non l'hai trovato?). Il vero viaggio è quello che si fa tra un luogo imperdibile e l’altro ed è per questo che ho imparato a muovermi quanto più possibile a piedi o, come dicono in Indonesia, "jalan-jalan".

GIACARTA

Una birretta al buffet ed eccomi comunque a passeggio per le strade. Che bello le città sconosciute! È il momento e il posto in cui puoi supporre che le persone che incontri sono tutte gentili.
(Ferdinand Céline, “Viaggio al termine della notte”)

Quando sono atterrata a Giacarta, il titolare dell'ostello è venuto a prendermi in aeroporto con circa un'ora di ritardo. Nell'attesa ho conosciuto quasi tutti i tassisti che stazionavano lì fuori; alcuni di loro mi hanno dato una mano disinteressata su alcune faccende pratiche: uno mi ha cambiato i soldi (visto che il mio bancomat non funzionava), un altro mi ha prestato il suo telefono. Poi è arrivato il mio uomo: pelato, lineamenti cinesi, gilet milletasche.
Impieghiamo circa trenta minuti per raggiungere il quartiere di Glodok con il suo SUV, chiacchierando del più e del meno. Mi sistemo dunque nel piccolo terrazzino in attesa del sonno, che poi non è praticamente mai arrivato, se non all'alba. Le viaggiatrici europee che si susseguono sulle panchette di legno di questo piccolo giardino d'inverno sono tutte donne; con alcune neoarrivate ci confrontiamo sugli itinerari che abbiamo in programma e quando arriva il mio turno comunico senza tentennamenti che sarei andata in Sulawesi. Julie invece è una giornalista francese che alloggia qui da diversi giorni: poiché si sta occupando della questione dei transessuali indonesiani, durante la giornata è andata ad intervistare dei preti cattolici che lavorano per tutelare i loro diritti. Per fortuna al Packer Lodge ce l'hanno la birra ghiacciata, visto che le nuove leggi dello Stato hanno vietato la vendita di alcolici quasi ovunque.
La prima meta in programma è il Taman Mini 'Indonesia Indah', il parco tematico della “Bellissima Indonesia” in miniatura, partorito dalla mente della ex first lady Tien Suharto, che così sperava di rafforzare l'orgoglio nazionale del suo popolo così variegato. Visto che sono uscita tardi dall'ostello e che ho perso circa mezz'ora al 7-Eleven per comprare una scheda telefonica, sono arrivata a destinazione che era l'una passata: i 30 chilometri circa li ho percorsi in taxi, nel traffico della metropoli, tra grattacieli e assurde statue.

Superato a piedi il monumento con la fiamma del Pancasila, all'ingresso un distinto signore brizzolato in camiciola batik mi propone di farmi visitare il parco in scooter: i padiglioni oggi chiudono molto presto per il Ramadan e a piedi non avrei avuto il tempo di vedere granché, considerati i 100 ettari di estensione. Il mio cicerone, Dian, è molto gentile ma ha la fissazione di volermi fotografare davanti a tutti i luoghi di interesse. Alla fine ho trovato sulla fotocamera decine di immagini di me, ad esempio nel padiglione di Sumatra vicino ai baldacchini per i matrimoni, circondata da un'intera classe di studentesse col velo color pistacchio, nella casa tradizionale del Kalimantan insieme al custode, nel padiglione del Sulawesi mentre suono lo xilofono, accanto ai tipici portali in pietra color salmone balinesi e davanti alle case a forma di barca dei Toraja. C'è da dire però che è molto preparato e in particolare la sua specialità sono i riti funebri. Scopro ad esempio che, quando muore qualcuno, i Toraja tengono il cadavere in casa e lo seppelliscono soltanto quando hanno abbastanza soldi per sacrificare non so quante decine di bufali (assisterò sicuramente ad una loro cerimonia funebre quando andrò al Sud del Sulawesi). Invece a Bali sono induisti e dunque i cadaveri li cremano, però anche lì le celebrazioni avvengono quando la famiglia ha messo da parte il gruzzolo necessario; nel frattempo i cadaveri vengono condotti vicino al baniano, un albero sacro che neutralizza l’odore della morte.

Dopo avermi mostrato il Monumento dell'amicizia dei paesi non allineati (a forma di Terra arrugginita ornata da orrendi piccioni), Dian mi conduce al Padiglione cino-indonesiano, costruito nel 2000 quando la cultura cinese ha ottenuto finalmente un riconoscimento ufficiale dopo decenni di discriminazioni. «Devi sapere», mi fa «che tra il 1965 e il 1966, nel periodo di repressione che seguì al tentato colpo di stato, tantissimi cinesi e indonesiani di origine cinese, accusati di essere comunisti, furono uccisi, le loro case furono espropriate o saccheggiate e le loro libertà negate. Se volevano restare in Indonesia erano obbligati a cambiare nome. Anche durante la sommossa popolare che infiammò Giacarta alla fine degli anni Novanta morirono circa duemila cinesi. Senza contare gli atti di vandalismo, le violenze sessuali e le fughe all'estero; a causa dei pregiudizi razziali, a loro venne data la colpa della crisi economica e della disoccupazione dilagante». D'altra parte l'Indonesia non è l'unico Paese del sud-est asiatico in cui i cinesi, tradizionalmente molto intraprendenti negli affari e di solito più agiati, non riscuotono grandissima simpatia.
La mia guida ha sentito la mia straordinaria energia ed apertura mentale («You have an aura», ha sillabato guardandomi intensamente negli occhi) e poi mi ha chiesto 150 mila rupie. Finalmente sola posso salire sulla cable car e guardare l'arcipelago indonesiano riprodotto in miniatura dentro al lago, ossia il motivo principale per cui sono venuta fin qui.

Al ritorno entro nel magico mondo del trasporto pubblico di Giacarta. Prima però devo raggiungere a piedi la stazione degli autobus, facendo la conoscenza con i celebri marciapiedi indonesiani, pieni di voragini criminali. Per tornare nel centro storico, all'ora di punta, ci impiego più di un'ora con i bus “rapidi” della Transjakarta, che teoricamente dovrebbero andare più veloci grazie alle loro corsie sopraelevate e dedicate. Nei vagoni noto molti veli, mascherine, zaini tenuti sulla pancia e smartphone collegati a facebook; alle sei si rompe il digiuno e alcuni passeggeri cominciano ad ingozzarsi. Nel frattempo ha iniziato ad imbrunire, i grattacieli si sono illuminati uno dopo l'altro e si sono accese le luci dei centri commerciali. In un cambio di treno, sulle passerelle futuristiche, acconsento alla richiesta di una foto di gruppo, avanzata da alcuni giovanissimi immotivatamente emozionati di avermi conosciuto. A cena, insieme a due fiamminghe che ho conosciuto in ostello, assaggio il bakso (una minestra con polpettine), e mi sottopongo allegramente a numerose foto di gruppo nella cucina del ristorante. Le belghe invece restano al tavolo a discutere dell'eredità olandese nella toponomastica di Giacarta.

L'indomani me ne vado allegramente in giro per Glodok, il quartiere cinese. Com'è facile sorridere quando sei in posto che non conosci, senza alcun problema o obbligo, pensando solo che la vita è bella e che tutte le persone che incontri sono buone e gentili; quando hai davanti a te altre giornate senza altri impegni che camminare, vedere cose nuove, mangiare e dormire. Ma in ogni caso per le donne è più facile, soprattutto se hanno i capelli e gli occhi castani.
Sto cercando il tempio cinese più antico dell’Indonesia, e a un certo punto penso di averlo trovato. «Temple?» «Ya Ya». Effettivamente, se fosse stato davvero il tempio buddista, quella donna di gesso tra le rocce, vestita di bianco e azzurro, davanti alla quale stavano inginocchiati tre umili pastorelli, sarebbe stata quantomeno inopportuna lì nel cortile, e infatti si tratta della chiesa cattolica della Madonna di Fatima, ospitata però nel fuorviante edificio di un ex tempio cinese. La comunità cattolica di antichi immigrati cinesi è distribuita in parte all'interno della chiesa e in parte fuori ai tavoli a fare colazione; con somma gentilezza mi viene offerto un tè.

Quando mi affaccio in chiesa sono nel vivo della messa, ma nonostante ciò diversi fedeli non vedono l'ora di rivolgermi la parola. Uno di loro − quello con l'inglese più fluente − riesce a sbaragliare tutti gli avversari e monopolizza la mia attenzione, così che in pratica trascorro tutto il tempo della messa a chiacchierare con lui. È un medico cinquantenne già pensionato ma pieno di interessi e impiego parecchio a fargli capire che in Italia si va in pensione a minimo 65 anni perché abbiamo la durata della vita più lunga di tredici anni rispetto all'Indonesia.
Il mio nuovo amico mi elenca con entusiasmo tutti i nomi dei membri italiani del clero indonesiano di Giacarta. Quando finisce la messa ci precipitiamo in sagrestia per conoscere due di loro, un sacerdote sardo e uno piemontese. Scattate le foto di rito e appurato che non avrei fatto in tempo a farmi confezionare, prima del mio volo, una casacchina identica a quella che indossano i diaconi appena ordinati, l'ex medico mi accompagna al vero tempio cinese, dedicato al Buddha della misericordia. Purtroppo l'edificio è stato recentemente danneggiato da un incendio, quindi tutti sono molto contriti nel mostrarmi cerimoniosamente i resti delle zone bruciate, nella nostra passeggiata tra bacchette di incenso, candele, statue di Buddha, campane e tamburi. All'ora di pranzo resto sola a girellare tra le bancarelle del mercato alimentare, tra pesci, granchi, peperoncini e altre colorate merci in esposizione. Tutti mi sorridono anche qua e un venditore mi dice che assomiglio a Maria. «Maria chi?» «The Holy Virgin

Sono a un tavolo dell'elegante cafè Batavia, uno storico ristorante affacciato sulla piazza Taman Fatahillah. È arredato con mobili in legno e tavolini dal piano di marmo, foto in bianco e nero incorniciate riempiono tutte le pareti e un piccolo palco ospita un pianoforte a coda. Il personale è molto formale mentre mi serve un piattino di involtini, una scusa per bere una birra alla spina e per rinfrescarmi, sperando che almeno qui nessuno voglia farsi un selfie con me.
Ci troviamo nella piazza principale di Kota Tua, la città vecchia olandese, un tempo nota come Batavia. Qui accanto è collocato un vecchio cannone portoghese, che a un'estremità si chiude in un pugno (simbolo sessuale in Indonesia): seguendo la tradizione locale, le donne gli portano fiori o si siedono a cavalcioni nella speranza di avere figli. Dall'altro lato della piazza invece sorge l'ex municipio, che risale al Settecento e oggi ospita il museo storico. Adesso non c'è un cane in giro, mentre di sera la piazza, assurdamente semibuia, è affollatissima − come è normale dopo il tramonto nel periodo del Ramadam.
Al museo delle marionette Wayang, dedicato alle maschere del tradizionale teatro delle ombre, trascorro una buona parte del tempo con uno degli addetti, che insiste per scattare almeno una decina di foto con me, continuando a ripetermi che assomiglio a Monica Bellucci. Mentre passeggio lungo il Kali Besar, un ampio canale fiancheggiato dagli edifici più importanti della città, quelli che non sono impegnati a ronfare su giacigli di fortuna mi fanno segno di avvicinarmi per sottopormi alla solita intervista di rito corredata da documentazione iconografica, quindi ci impiego parecchio a raggiungere l'antico ponte levatoio olandese, l'unico rimasto fino a noi.
Sono bastate poche ore a Giacarta per capire che il popolo indonesiano mi darà grandi soddisfazioni; il clima poi non è eccessivamente afoso e insomma sono certa che la camminerò con piacere questa Indonesia.

MANADO MIO

Ho superato in un colpo solo la linea di Wallace e l'Equatore e sono atterrata a Manado, capoluogo del Nord Sulawesi. Quest'isola − nota come Celebes in epoca coloniale − è costituita da quattro penisole che si incontrano in una croce deformata e mi fa pensare ad una giraffa corallina dal collo lunghissimo, o ad un bizzarro animale mitologico al guinzaglio dell'Equatore. 
Il volo della Lion Air porta come sempre molto ritardo ed è quasi mezzanotte quando esco dall'aeroporto. Solitamente i turisti che sbarcano a Manado sono dei patiti delle immersioni e nove volte su dieci fanno scalo qui prima di imbarcarsi per il parco nazionale di Bunaken; per questo Mr Fersi, cacciatore di clienti nel reparto Arrivi, rimane un po' spiazzato dalla mia destinazione, ma regge bene il colpo e riesce a piazzarmi nel taxi di un autista appartenente al suo devoto entourage. Giungiamo a destinazione percorrendo una strada buia, orlata di palme sconvolte da un vento formidabile.
La mattina dopo il ristorante del mio brutto albergo è molto animato per la colazione: grandi piatti di risi e bisi transitano dal buffet ai tavoli. È la terza notte che non dormo bene: ai problemi col fuso si è associata la presenza di quelle zoccole delle zanzare.
La Lonely Planet dice che «con la sua sovrabbondanza di insulsi centri commerciali e di enormi buche nei marciapiedi, Manado non è certo uno dei luoghi più attraenti del Sulawesi Nord». Ed effettivamente, mentre cammino, basta un attimo di distrazione per sgrattarmi la tibia in una delle “enormi buche” nel marciapiedi. In uno degli “insulsi” mall, invece, ho dovuto addirittura metterci piede, per comprare un'altra ricarica telefonica, sgomitando nel reparto telefonia.
Dopo aver ricevuto uno dei massaggi più memorabili di tutta la mia vita, il mio stato d'animo ha raggiunto apici di benessere inscalfibile. Mentre cammino verso il porto, un tramonto mozzafiato arrossa l'orizzonte sul mare e l'isola vulcanica di Manado Tua. Scorgo in lontananza un ponte dove regna un'incredibile confusione di auto e di gente a piedi e, mentre mi dirigo in quella direzione, vengo fermata da due diverse compagini familiari sul ponte: tutti vogliono sapere che ci faccio là, chi sono, dove vado, che lavoro faccio e ovviamente vogliono una foto con me. «Ma'am, che è tutto sto casino di gente qua?» «Mister Roberta, siccome che il ponte è nuovo, vengono tutti qui sopra al tramonto a farsi le foto e metterle su Facebook». Mister Roberta. Mi fanno morire questi indonesiani. Per cena scelgo uno qualunque di quei ristorantini affacciati sul mare nei paraggi del Mega Mall, che propongono paket di pesce bakar, ossia alla griglia (la parola rica poi ho capito che vuol dire "piccante").
Avevo chiesto un taxi alle 5 di mattina. Quando bussano alla porta, l'orologio segna ancora le 3 e mezza e mi rimetto a dormire. All'orario stabilito scendo nella hall e noto che sul tavolo troneggia un bel piatto di risotto indonesiano decorato con uova sode: volevano recapitarmelo in camera di buon'ora perché pensavano che fossi in Ramadan.

CHEBANGKA!

Il paesaggio che ci circonda sulla strada tra Manado e Likupang mi ricorda − con qualche piccola differenza culturale − quello verdissimo delle Filippine. Contro il fondale fisso delle palme da cocco, scorrono manifesti elettorali, qualche tempio cinese pacchiano, severe chiese protestanti di cemento, teloni e teloni pieni di chiodi di garofano, con cui aromatizzano le stomachevoli sigarette locali chiamate kretek. Dopo un'altra mezz'oretta in barca attracchiamo all'isola di Bangka, dove lui e lei mi stanno aspettando, in piedi con i capelli al vento. Insieme percorriamo il famoso molo di legno tra due ali di coralli, che in parte affiorano tra le chiazze di turchese e blu scuro.

Questo angolino di Pacifico, compreso tra il mare di Celebes e quello delle Molucche (nomi da romanzi di Conrad!), si trova ad una latitudine di 1 grado virgola qualcosa e rappresenta il cuore del Triangolo dei coralli, una delle "aree prioritarie" protette dal WWF. Proprio sulla spiaggia, dietro gli alberi, sorge un centro di ricerca di biologia marina, nonché semplice ed essenziale struttura turistica destinata per lo più agli amanti delle immersioni. Questi sognatori con i piedi ben piantati nella sabbia, che hanno abbandonato gli angusti orizzonti italiani per realizzare un ben più arioso progetto di vita qui, hanno particolarmente a cuore la salvaguardia della natura. D'altra parte la ricchezza di specie di coralli e di relativa fauna marina − minacciata da diversi pericoli − non è soltanto tra le più affascinanti del mondo, ma dà sostentamento a tutta la popolazione locale. Sono infatti i pescatori di Bangka e di Gangga, riconvertiti in istruttori di immersioni e skipper, ad accompagnare quotidianamente i sub nei migliori dive spot della zona, e sono locali tutti gli altri collaboratori. Al rispetto ambientale e culturale siamo invitati anche tutti noi turisti responsabili, così come gli studenti e i ricercatori che trascorrono lunghi periodi qui, per godere e insieme prendersi cura delle specie marine che studiano.

Anche chi come me è venuta qui semplicemente a trovare un'amica − e non ne capisce niente di biologia marina né intende indossare muta e bombole −, può approfittare della biodiversità in comode sessioni di snorkeling, sia di fronte alla spiaggia, sia tuffandosi dalla barca insieme ai divers. Da non sottovalutare, naturalmente, la più tipica opzione vacanziera, ossia rilassarsi sui lettini imbottiti all'ombra dei frangipani, di fronte al mare che scintilla pochi metri più avanti, come faccio tutti i pomeriggi fino a che il cielo non è diventato prima arancione e poi tutto nero.
Neppure all'interno della struttura mancano goduriosi angoli relax di fronte al mare, dotati di amache e lettini imbottiti. È quasi ora di cena e la musica lounge riempie la stanza senza pareti. Qualcuno strimpella una chitarra, in lontananza, mentre il vento fa svolazzare le tende. «È pronto!» si sentirà echeggiare fra poco e poi tutti gli ospiti, studenti, turisti e viaggiatori, raggiungeranno il grande tavolo quadrato che rappresenta l'epicentro di tutto. In questi giorni intorno al desco siedono, tra gli altri, una studentessa che tocca il cielo con un dito per la sorte che l'ha condotta in questo paradiso, una famiglia di biondissimi finlandesi che alloggia qui già da alcuni mesi, una coppia di italiani recidivi.

Ma il mare non è tutto. L'interno dell'isola è occupato dalla giungla incontaminata, dove di notte se si è fortunati ci si potrebbe trovare faccia a faccia con il mitico tarsio dagli occhi a palla, mentre lungo le coste, tra una lingua di sabbia e l'altra, spunta qualche raro villaggio. Per esempio Lihunu, che raggiungiamo attraversando un lungo sentiero selvaggio per fare visita a una coppia che ha da poco perso il suo bambino. A un mese dal tragico evento, le donne stanno preparando montagne di frittelle e le sedie di plastica sono già schierate sul patio in attesa degli ospiti. «Bulè! Bulè!» (straniero) urlano i bambini. Un pesce di metallo svetta in cima al campanile della chiesa protestante, la religione portata dagli olandesi.
Percorrendo invece un breve tratto di costa verso nord si giunge all'epico posto delle mangrovie, dove l'acqua e la sabbia si incontrano creando un inquietante acquitrino pieno di radici. Se si proseguisse ancora, prima o poi si raggiungerebbe l'area in cui, se lo scellerato progetto di estrazione made in China dovesse mai andare in porto, potrebbe sorgere una miniera di ferro (come se non bastassero i cambiamenti climatici e le tonnellate di plastica che quotidianamente arrivano dal mare).

Queste giornate stanno scorrendo veloci e felici al Coral Eye, ma c'è una vibrazione sotterranea che mi tiene sveglia e mi fa fare strani sogni. Sarà la brezza incessante che squassa le fronde e fa cantare i vetri e le intercapedini. O forse le suggestioni delle storie di fantasmi che tornano a visitare quest'isola. Oppure il fatto che di notte il generatore si spegne, il tavolo è vuoto e la torcia crea ombre che possono ingannare. Quando stavano scavando per le fondamenta della struttura, a un certo punto diversi operai interruppero i lavori perché sostenevano che al cantiere fosse stato fatto il malocchio. Soltanto dopo aver chiamato un esperto fattucchiere che bonificasse l'area si erano rimessi all'opera (il grande occhio con i coralli dentro l'iride, logo del centro, ancora non era stato esposto a mo' di amuleto).
Altre storie da dopocena riguardano le superstizioni contro i filippini (capri espiatori di ogni genere di disservizio) e l'ipocrisia dilagante che riguarda gli uomini sposati (protestanti o islamici che siano) che frequentano i bordelli. E insomma non deve essere facile lavorare e vivere insieme a questi isolani. Per certi versi sembra di essere tornati indietro nel tempo: il figlio di un dipendente è morto all'età di due mesi solo perché era nato prematuro; risale a venti giorni fa la morte per rabbia di un ragazzo poco più che ventenne; non è raro che le donne muoiano di parto. Un po' per pigrizia, un po' per motivi economici o di tempo, e in fondo soprattutto per cultura, non si frequentano abbastanza gli ospedali e le farmacie.
E io mi chiedo come deve essere vivere in un posto dove nell'armadio non c'è né un cappotto né una sciarpa e non usi praticamente mai le scarpe. Dove hai una casa con le vetrate sul mare e puoi fare il bagno ogni volta che vuoi. Dove ogni lunedì mangi nasi kuning e la sera ikan goreng. Il martedì nasi goreng a pranzo e ikan kuning a cena. Il mercoledì: pizza. Come frutta: papaya, mango, banane e anguria. Dove non c'è un negozio, non cucini, non compri le sigarette, non guardi la televisione. La notte non c'è la corrente elettrica. I tuoi vicini di casa abitano in una capanna. Ma io poi che ne so. Il mondo sotto l'acqua è impossibile immaginarselo guardando la superficie, tanto più se ci sono molte onde.

UNA REGIONE VULCANICA

Vengo depositata presso questo resort di Tomohon, nel nord del Sulawesi, dove mi accolgono cordialmente un indonesiano, un tedesco e due cani. Mi offrono un tè, che sorbisco nella bella terrazza, e quindi ci accordiamo per l'affitto di una moto con conducente per l'indomani. Poco dopo sono invitata ad andare in città con il gestore e sua moglie (anche lei tedesca); ci accompagna Adam, l'indonesiano che funge da factotum e autista.
Prima di andare a comprare dei jeans per la signora, bisogna mettere qualcosa nello stomaco. Scartato un ristorante di pesce perché giudicato troppo caro dall'intransigente tedesco, finiamo in un ristorante cinese a buon mercato, ma che praticamente ha terminato quasi tutte le provviste. Per quanto riguarda lo shopping, il problema è che la tipa vuole dei jeans un po' larghi in fondo, mentre tutti i negozi di Tomohon vendono dei jeans stretti alle caviglie. Al decimo negozio ne abbiamo tutti abbastanza dei jeans stretti alla caviglia, così decidiamo di andare a fare merenda alla House of Kitty: una sorta di castelletto a due piani tutto bianco e rosa, invaso di decorazioni a forma di Hello Kitty. Qui la coppia degusta dei cupcakes che sembrano finti, molti gruppi ci salutano dai tavoli a fianco e mi sembra di stare in un cartone animato. Dalla finestra in lontananza svetta il vulcano Lokon contro il sole al tramonto.

La regione dei Minahasa è ricca di foreste, costellata di vulcani ancora attivi e caratterizzata da grande ricchezza di flora e fauna: salgo sullo scooter con Adam per andare ad esplorarla. Prima però facciamo un salto al celebre mercato di Tomohon del sabato: solo in questa giornata scendono i venditori di serpenti, cani, pipistrelli, topi e altre prelibatezze. Rifletto qualche minuto, impalata nella confusione generale, sull'opportunità di recarmi in quella area del mercato, combattuta tra la morbosa curiosità e lo schifo, ma alla fine non ci vado (Adam neppure è interessato e d'altra parte, essendo musulmano, si tiene alla larga persino dalle bancarelle dei suini, figuriamoci). Poiché non riesco a capacitarmi del fatto che un popolo amante degli animali domestici ne possa mangiare la carne, intervisto una passante la quale, come se ci fosse una logica, mi informa che i cani venduti al mercato non sono i loro, ma vengono da Gorontalo. In ogni caso, dopo quattro giorni nella prigione dorata di Bangka, ci voleva proprio questo divertente e colorato bagno di folla.
La seconda tappa è il vulcano Mahawu, facilmente accessibile con una piccola passeggiata che ci conduce su una piattaforma collocata esattamente sopra al cratere, ampio 180 metri. Da lì si vedono anche il Lokon e il suo vicino, che condividono lo stesso cratere (al momento in attività e più difficile da raggiungere di questo). Ci dirigiamo quindi verso il lago Tondano, percorrendo fertili campi coltivati e risaie terrazzate, laghetti pieni di fiori di loto e mucche al pascolo, fino ad arrivare al ristorante dove Adam voleva farmi assaggiare le lumache. In effetti, a sorpresa, mi aveva ordinato un intero paket composto anche da pesce e aragostina, che ha condiviso con me sulla terrazza affacciata sul lago, davanti ai vasconi dei pesci.

La prossima e ultima attrazione è il piccolo lago sulfureo Linow, le cui acque cambiano colore a seconda della luce. Peccato che Adam si sia scordato di dirmi di portare il costume, per cui rimango seduta sulla riva a guardarlo sguazzare tra i fumi puzzolenti che esala quell'acqua verde smeraldo. Altri laghetti ben più bollenti e geyser sono disseminati nelle vicinanze, ma non sono adatti per il bagno quanto per cucinare polli e lumache (come si evince dalle piume e dai gusci abbandonati nelle vicinanze). Per tornare a Tomohon facciamo il giro largo, sfiorando una rotonda sormontata da un'arachide gigante e osservando le tradizionali abitazioni Minahasa, tutte in legno con tetti spioventi. È in questa fase della gita che il cerimonioso Adam mi svela di essere una guida turistica e che, oltre al prezzo concordato ieri per il motorino con autista, devo anche pagarlo − senza contare che gli ho anche offerto quasi tutto il pranzo.
Per sbollire l'incazzatura me ne vado senza salutare e mi dirigo in città, decisa a cenare al decantato ristorante Gardenia. Già ieri avevamo curiosato nei suoi meravigliosi giardini, scambiando due chiacchiere con il titolare, un cinese corpulento e dall'espressione scaltra, che passeggiava in canottiera e calzoncini appoggiandosi a un bastone. Il tedesco tuttavia mi aveva sconsigliato di andarci a cena per via dei prezzi troppo alti, consiglio davvero paradossale da parte sua, viste le tariffe dei suoi bungalow e l'ambiguità nell'organizzazione delle escursioni. Purtroppo il ristorante è occupato da un ricevimento di matrimonio tra un belga e una indonesiana (che tra l'altro si sta concludendo) e devo mestamente tornare al mio "resort" per cenare, da sola, tra gli inquietanti versi dei rospi.

BALI: HONEYMOON WITH MYSELF

Noi turisti bianchi siamo come delle vacche da mungere per un senso di giustizia naturale, e tutto il gioco di mungitura del turista somiglia a quello delle colonie di parassiti che si attaccano al corpo di qualche grande animale pieno di sangue. Ma ho anche idea che noi saremmo solo dei pallidi fantasmi, se questi ragazzini neri non ci tirassero per qualche attimo nell'animazione del loro mondo. Guardo per strada i turisti come me: hanno una divisa comune, con la borsetta porta-documenti in cintura, l'abito tra lo sportivo e il balneare, gambe nude da bambini in vacanza, attrezzature tecniche, cappellino para-sole. Ma soprattutto in comune hanno questo: che evitano di guardarsi l'un con l'altro, quasi si vergognassero di riconoscersi.
(Gianni Celati, “Avventure in Africa”)

Al momento di pianificare lo spostamento verso sud, mi sono resa conto che il collo del Sulawesi era troppo lungo per percorrerlo via terra nel limitato tempo a mia disposizione; è stato allora che la tentazione ammaliante di Bali si è impossessata di me. In qualche maniera comunque ci sono passata, dal sud, con uno scalo tecnico a Makassar: in fase di atterraggio ho visto le sue coste e le sue risaie allagate e ho mandato un saluto al popolo dei Toraja (forse non ero ancora pronta per assistere alla mattanza dei bufali tipica delle loro cerimonie funebri).
Nell'oblò appaiono i vulcani che spuntano tra le nuvole e pochi minuti dopo atterriamo su una pista circondata su tre lati dal mare. L'aeroporto è già una piccola Bali in miniatura: la porta color salmone con i fregi grigi e le statue in pietra con l'ombrello, i fiori colorati e la grazia dei dettagli che − persino in un luogo impersonale come un aeroporto − creano da subito quell'atmosfera da luna di miele da cui sarei stata pervasa per l'intera settimana.

Dopo aver fatto un po' la gnorri con i vari tassisti, capisco che all'aeroporto di Denpasar (il principale aeroporto di Bali) non esistono i mezzi pubblici e accetto a malincuore di salire su una vettura. Parte una lunghissima trattativa col conducente, che va avanti per tutto il viaggio fino a Ubud − un'ora circa. Lui ogni tanto ripensa alla cifra che abbiamo concordato e prova a impietosirmi, poi fa un po' il piacione, e addirittura mi propone di lasciarmi a Batubulan, pensando che io ignori dove sia. Ma io niente, cuore di ghiaccio, prendo la sua mano e gliela rimetto sul volante.
Inizialmente, molte cose mi infastidiscono a Ubud: il caldo afoso, la confusione, la famiglia di scozzesi al tavolo accanto al mio che ordina la pasta e alla fine anche un dessert, il modo in cui la cameriera pronuncia la parola dessert in inglese, la francese che si compra mezza boutique mentre il marito seduto sulla poltroncina le fa i complimenti, le due bionde sovrappeso che indossano dei pantaloncini inguinali, i balinesi che mi chiedono insistentemente se io abbia bisogno di un taxi o di un massage (tra l'altro nessuno di loro indossa il pigiama e sono tutti seri). Sembra come se i simpatici indonesiani, sempre pronti allo scherzo e teneri nella loro sindrome del fanciullino, si siano fatti contagiare da quei noiosi dei turisti.

Siccome non esistono più luoghi inesplorati sulla Terra (e se pure esistono, sicuramente io non sono nelle condizioni di andarli a scoprire), non ha molto senso che le prime ore a Ubud io coltivi dentro di me un piano B, tipo spostarmi a Lombok o alle isole Gili. Ma è quello che succede e con questo stato d'animo (sono solo di passaggio, presto me ne andrò) vado al Sacred monkey forest sanctuary. Grazie al semplice contatto con la giungla e con questi macachi sfacciati e dispettosi, ma nondimeno sacri, metto da parte le mie paturnie e pian piano entro in confidenza con lo spirito del luogo. Quando esco dal parco, sbaglio completamente direzione e mi ritrovo in una via periferica, dove nessuno mi offre taxi o massaggi (se non sbaglio mi dicono addirittura "Mister Roberta"). Quando capito in un giardino incantato come quello delle fiabe realizzo che i miei propositi stanno vacillando.
Al palazzo reale sta per cominciare lo spettacolo di Legong Dance. Nonostante il gran pienone di turisti occidentali e soprattutto orientali, lo spettacolo mi conquista: le ballerine graziosissime nei loro movimenti al rallentatore, la musica dell'orchestra di gamelan ipnotica e vagamente inquietante, i costumi un trionfo di oro e di fucsia. Ok, Ubud. Hai vinto tu. Mi dico mentre brindo alla mia luna di miele con una Bintang ghiacciata, aspettando un piatto di mie goreng, completamente indifferente al gruppo di australiani ubriachi che ridono di cose stupide al tavolo accanto al mio.

Il filo da disbrogliare
Vedi, in questi silenzi in cui le cose / s'abbandonano e sembrano vicine / a tradire il loro ultimo segreto, / talora ci si aspetta / di scoprire uno sbaglio di Natura, / il punto morto del mondo, l'anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità.
(Eugenio Montale, "I limoni")

Quando la mattina apro la porta, un coniglietto bianco è in procinto di salire le scale, tra le statue misteriose che siedono a guardia del mio spartano bungalow; due suoi simili di colore grigio saltellano sulle passerelle lastricate che attraversano il prato, tra gli ibiscus e i frangipane. Il padrone di casa e suo figlio stanno ponendo con gravità un cestino di offerta in un incavo del tempio di famiglia. Nella vasca grossi pesci rossi nuotano tra superbi fiori di loto color pervinca.
Mi avvio per le strade. Di fronte ad ogni casa e negozio sono appoggiati per terra dei vassoi di foglie di palma intrecciate riempiti di fiori, frutta, riso, bacchette di incenso. La popolazione è impegnata a confezionare e dunque issare dei lunghi pali di bambù, capolavori d'arte addobbati con elaborati festoni di foglie di palma, noci di cocco, fiori, pannocchie di mais; le estremità di quelli già posizionati ai lati delle strade svolazzano nell'aria creando un clima di festa. Delle corolle colorate sono perfettamente allineate sugli scalini di un ristorante. Mi siedo ad uno dei tavoli, imbambolata di fronte ad una vasca piena di foglie e petali che compongono un elaborato disegno.

Quando decido di allontanarmi di pochi passi da quelle quattro arterie principali, come per magia ristoranti e centri massaggi spariscono ed entro nel mondo fatato della natura equatoriale. Quasi senza accorgermi passo molte ore passeggiando tra le risaie inondate e i palmeti, in compagnia di farfalle e uccelli acquatici, fino ad arrivare al crinale di Campuhan, che costeggia per chilometri una verdissima e pacifica valle fluviale.
Ed eccoci qui, come da copione, io e Franz seduti ad un tavolino, due pallidi fantasmi circondati dalle risaie, a bere una cocacola e a fare i classici discorsi degli europei ai Tropici. Che qui non c'è la depressione. Che dovremmo imparare a vivere senza stress come gli uomini e le donne che ci circondano. Che noi corriamo e non ci godiamo le cose semplici della vita e che ingigantiamo dei problemi da nulla. E che quando torneremo a casa non dovremo dimenticarlo.
Anche se poi penso che è facile godersi la vita tra le cascate di frangipani e le enormi palme da cocco svolazzanti, guardando il sole che sorge e tramonta ogni giorno, meno facile nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra soltanto a pezzi e fa freddo; quando s'affolta il tedio dell'inverno sulle case e la luce si fa avara, senza albe e tramonti, ibiscus e palme. E che come al solito l'illusione ci mancherà, dimenticheremo quasi tutto questo e, per recuperare il filo da disbrogliare, prenderemo un altro aereo e parleremo con un altro Franz in un altro baretto all'ombra della natura tropicale bevendo un'altra cocacola.

La festa di Galungan
Voglio vederti danzare [... ] come le balinesi nei giorni di festa.
(Franco Battiato, “Voglio vederti danzare”)

I pali di bambù che inondano le strade di Ubud si chiamano penjor e rappresentano il simbolo più tipico di una delle più importanti feste balinesi, il Galungan, che si celebra proprio oggi 15 luglio. In questa giornata, che cade ogni 210 giorni (ossia una volta l'anno secondo il calendario balinese), gli spiriti degli antenati tornano a visitare le loro case e si aspettano di essere ben accolti e intrattenuti con riti e feste. Le famiglie infatti − che già nei giorni precedenti avevano preparato dolci di riso fritto e macellato maiali per preparare il tipico lawar − gli offrono cibo e fiori in segno di gratitudine. Dopo dieci giorni di scorpacciate, in occasione del Kuningan, gli spiriti ancestrali torneranno in cielo.
Per questo giorno speciale ho in programma di raggiungere a piedi il villaggio di Bedulu, distante circa sei chilometri dal centro di Ubud, per visitare la famosa Elephant Cave. I mezzi pubblici − come si è visto − non sono proprio la specialità di Bali, con le moto non ho un rapporto di grande confidenza e comunque, diciamolo, la grotta è solo una scusa per ficcare il naso nelle abitudini locali.
Le vie turistiche di Ubud sono innaturalmente silenziose e molti ristoranti e negozi sono chiusi, ma man mano che procedo cominciano ad apparire i primi devoti carichi di offerte. Se si pensa che ogni villaggio balinese ha almeno tre templi, o Pura, ufficiali (più ovviamente gli innumerevoli luoghi di culto privati presenti all'interno delle abitazioni), forse ci si può fare un'idea del traffico di cestini che c'è in giro. In alcuni casi l'accesso al Pura è vietato a chi, come me, non indossa "busana adat" (abiti tradizionali), ossia il sarong. Tutti lo portano qui: gli uomini con camicie candide e in testa piccoli turbantini, le donne con casacche aderenti di pizzo colorato e fiori tra i capelli. Per fortuna i templi sono contenitori aperti circondati da un semplice recinto basso (pura vuol dire "spazio circondato da un muro") e dunque si può assistere ai riti anche senza entrare: all'ingresso ci sono piccoli altari di bambù, petali di tutti i colori ricoprono i pavimenti, da piccole teiere dorate viene versata dell'acqua per lavare le mani e il viso. Ogni gesto è eseguito con una grazia stupefacente.

Lungo la strada − oltre a un paio di richieste di foto (immancabile la posa con il gesto V di vittoria con indice e medio) − ricevo svariate proposte di passaggi in mototaxi o ojet; ma io ormai da molti giorni ho imparato a rispondere jalan-jalan (“camminare” in lingua bahasa) e loro tutti felici sorridono e mi augurano selamat jalan (“arrivederci” o, alla lettera, “buona strada”). Questa lunga scarpinata mi insegna che i marciapiedi anche qui sono pieni di buche e vere e proprie voragini, con la variante che a volte nascondono rettili tipo varani o serpenti.
Finalmente compaiono delle sfilze di bancarelle di sarong che annunciano il santuario di Goa Gajah, incassato nella giungla. Per entrare nella "Grotta dell'elefante" bisogna passare dentro alla bocca spalancata di un orribile demone scolpito al centro dell'elaborata facciata di pietra. Forse è da questa creatura minacciosa che ha origine il nome del sito, oppure dalla statua di Ganesh che si trova dentro alla caverna artificiale, insieme al simbolo fallico di suo padre Shiva (il sacro lingam). Dopo aver ammirato, insieme a turisti e devoti, i vari altari e padiglioni, le piscine dotate di fontane antropomorfe e i numerosi tavoli ricoperti di offerte, imbocco a caso un sentiero tra gli alberi e, costeggiando un piccolo tratto della valle del fiume Petanu, risalgo verso il villaggio di Bedulu (un tempo capitale di un regno grande e potente). L'altra attrazione "da non perdere" sembrerebbe essere Yeh Pulu, dove compare una lunga parete di roccia scolpita, forse rimasuglio di un antico eremo (anche se trovo più diletto nella rigogliosa foresta e nelle rasserenanti risaie circostanti).
Tra le vie di Bedulu un balinese che parla un po' di italiano mi invita in casa, mi presenta qualche parente e mi offre addirittura del cibo. Per fortuna declino l'invito, infatti poco dopo, sulla via per Ubud, c'è un ristorante paradisiaco costituito da palafitte, dove mangio un piatto molto coreografico tenendo i piedi a mollo in un laghetto pieno di enormi pesci rossi. Le cose sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto.

Le scalinate che portano agli dei
Che bello girare con la motocicletta attraverso la verdissima Bali! Altro che l'Umbria! Con tutto il rispetto per l'Umbria, se lei è verde, Bali cos'è, VERDE?
(Andrea Pazienza, "Sotto il cielo del Brasil")

Le agenzie che fioccano ad ogni angolo di Ubud propongono diversi daily tour che accorpano più attrazioni in un'unica giornata. Tra i luoghi naturalistici più gettonati ci sono ad esempio i vulcani − come il Batur e l'Agung, ancora attivi −, le risaie terrazzate, le strade panoramiche che si affacciano sul mare blu cobalto, i giardini botanici, le piantagioni di caffè (come quelle del Kopi Luwak, prodotto con le bacche defecate dallo zibetto delle palme). Per il resto il grosso dell'attrattiva turistica balinese è costituito dai templi: nell'isola ce ne sono più di diecimila, disseminati sui laghi, sui fiumi, sulle pendici dei vulcani, nelle foreste.
Benché non sia intenzionata a collezionare tutti i templi dell'isola, almeno un'escursione fuori da Ubud desidero farla, evitando possibilmente i viaggi di gruppo. Per questo, nonostante la poca simpatia che provo per i mezzi a due ruote, accolgo con moderato entusiasmo la proposta di Franz di scarrozzarmi sullo scooter scalcagnato che ha noleggiato. La prima meta è Jatiluwih, distante circa quaranta chilometri da Ubud. A parte i problemi alla moto che ci obbligano a fermarci almeno un'oretta da un meccanico di fortuna, l'altra difficoltà è che tutte le strade principali vanno da nord a sud, mentre noi dobbiamo andare a nord ovest e dunque è tutto un tagliare per viuzze secondarie, consultando Google Maps.
A Jatiluwih si va per ammirare alcune delle risaie terrazzate (“le scalinate che portano agli dei”) meglio conservate dell'isola, che si dispiegano verdissime alle pendici del vulcano Batukaru. Insieme alle foreste, ai villaggi e ai templi sull'acqua, esse fanno parte di un antichissimo sistema di gestione delle acque, chiamato subak e da qualche anno tutelato dall'UNESCO. Questo metodo cooperativo e democratico, caratterizzato da canali e sbarramenti che raccolgono le acque delle sorgenti e dei fiumi, combinato al fertile suolo vulcanico e all'umido clima tropicale, ha reso i balinesi tra i maggiori produttori di riso (biologico, possiamo dire) dell'Indonesia. Lo scenario di risaie più gettonato non è né così pittoresco né così verde come pensavo, visto che a quanto pare è il periodo del raccolto. Nondimeno, tanti turisti sono convenuti per festeggiare con la famiglia (come impone la tradizione per il giorno successivo al Galungan) e stanno passeggiando nella campagna oppure sono seduti ai tavoli del ristorante.

La seconda tappa è il Pura Luhur Batukaru, un importante tempio dedicato al vulcano omonimo. Per raggiungerlo dobbiamo percorrere una lunga strada asfaltata in discesa, circondata da una lussureggiante foresta, in compagnia di centinaia di devoti carichi di offerte. Una volta muniti di sarong − e appurato che l'accesso sarebbe vietato alle donne mestruate, incinte o che hanno partorito da poco −, varchiamo il classico arco spaccato a metà che segnala l'accesso. Avvolti in un denso fumo, gli altari dai tetti multipli e gli ombrelli gialli e bianchi svettano tra gli arbusti, una piccola orchestra di gamelan sta suonando gong, xilofoni e tamburi sotto un padiglione, i cestini di offerta si sono ammucchiati ovunque e le statue sono semicoperte dal tipico sarong quadrettato. Poiché nella parte più sacra non si può accedere a causa delle cerimonie (i fedeli sono inginocchiati tutti nella stessa direzione), non possiamo nemmeno raggiungere il piccolo lago artificiale e la fonte sacra.
Sulla via del ritorno, con una breve deviazione, saremmo riusciti a inserire anche la visita al fascinoso tempio di Taman Ayun, incluso nel paesaggio culturale del subak in quanto circondato dall'acqua e da stupendi giardini. Il traffico però è completamente bloccato e restiamo imbottigliati per un tempo così lungo che praticamente arriviamo a Ubud che è buio pesto. Il motivo della congestione lo scopriamo pochi chilometri (ma molti quarti d'ora) dopo, quando intravediamo la coda di una lunghissima processione che parte dalla riva di un fiume e prosegue sulla strada, composta da donne con contenitori in testa e uomini con l'ombrello, seguiti dalle maschere di Barong e di due Leyak. Nella mitologia balinese il Barong è il dio-animale simbolo del bene e della fertilità, mentre i Leyak sono esseri demoniaci capeggiati dalla vedova-strega Rangda (lo scontro tra il Barong e l'arcinemica Rangda, metafora della proverbiale lotta tra bene e male, è rappresentato nella danza tradizionale omonima). Se Rangda e i leyak sono orrendi con i loro capelli scarmigliati, la lunghissima lingua e le grandi zanne, il Barong è troppo buffo perché ci sono due uomini sotto al costume, per simulare le quattro zampe di questo pseudo drago o leone mitologico.
Comunque alla fine dell'escursione, dopo tutte quelle ore sullo scooter, più che apprezzare la filosofia alla base di tutto il subak − ossia l'interazione tra spirito, uomo e natura −, ho sperimentato l'interazione tra la mia schiena e le strade balinesi, disconnesse e piene di buche.

Mangia, prega, chatta
Noi non abbiamo arte, facciamo tutto nel miglior modo possibile.
(Proverbio balinese)

È l'ultimo giorno che trascorro a Ubud: le celebrazioni per il Galungan sono archiviate ma i festeggiamenti continuano, visto che oggi è Lebaran, la fine del Ramadan. Ormai mi sono abituata alla città e non mi danno più fastidio le comodità turistiche; anzi, ho approfittato alla grande dei meravigliosi massaggi balinesi e dei trattamenti di bellezza. Le spa spuntano come funghi, e pure le più pidocchiose (dove sono andata io) sono un esempio di grazia e benessere.
Ubud è la capitale culturale di Bali, conosciuta sin dagli anni Venti come luogo di sosta di pittori e scultori stranieri. Lo spirito artistico si incontra così copiosamente nelle manifestazioni quotidiane, che non ho sentito l'esigenza di visitare le gallerie d'arte e i musei; solo stamattina ho messo piede nel Pura Lukisan. D'altra parte l'esperienza culturale che più entusiasma noi turisti a Bali notoriamente non è tanto la pittura, quanto la danza tradizionale. Dopo il Legong e il Barong, ho assistito al Kecak, ispirato al poema epico hindu Ramayana, chiamato anche danza del fuoco perché un danzatore in trance cammina sui carboni ardenti. A differenza delle altre danze, non è previsto il sottofondo dissonante del gamelan, ma i ballerini, seduti in cerchio battendo le mani e agitando le braccia, eseguono in coro il tipico ciak-a-ciak che mi è rimasto nelle orecchie tutto il giorno.

La popolarità di Ubud è vertiginosamente aumentata dopo l'uscita del best seller "Mangia, prega, ama" di Elizabeth Gilbert, nel quale Bali viene presentata come il posto al mondo dove meglio si coniugano il piacere e la spiritualità. E infatti in città pullulano i negozi new age di saponi profumati, incensi, cristalli e musica strumentale per lo spirito; fioccano i ristoranti organici e biologici e vengono organizzati in ogni dove corsi di yoga. Franz avrebbe fatto carte false per incontrare uno sciamano del luogo e ha la mania di intervistare tutte le cameriere dei ristoranti per conoscere qualche bella storia di fantasmi. Definisce enfaticamente «un vero e proprio viaggio spirituale» quello che sta compiendo in Asia meridionale da qualche mese. «Qui sto vivendo momenti di infinita gioia, vitalità e liberazione» mi comunica senza ironia alcuna. «I balinesi mi contagiano con i loro sorrisi».
Quanto a me, quello che gli altri chiamano spiritualità io sarei tentata di definirlo semplicemente clima e, per quanto attiene al piacere, al tofu e al seitan ho preferito il maialino arrosto (il mitico babi guling) o addirittura grandi vassoi di sashimi, e non mi sono fatta mancare qualche Bintang o cocktail in uno dei milioni di bar che si susseguono nelle strade. D'altra parte, nonostante le belle parole colme di saggezza new age disseminate nel best seller, leggendo con attenzione si capisce che il segreto di Bali non stava tanto nell'arte degli sciamani o dei curatori tradizionali, bensì nel fatto che la Gilbert aveva finalmente ripreso a scopare.
Purtroppo le cose sono cambiate anche qui negli ultimi anni: gli internet point sono tutti chiusi, c'è il wifi ovunque e i bar e i ristoranti (dove un tempo leggevi, scrivevi o parlavi con gli altri turisti) sono pieni di persone di etnia caucasica che chattano su Whatsapp o controllano su Facebook cosa stanno facendo i loro amici rimasti a casa. Insomma, non è più tanto facile socializzare.

Che pecatu
Lo sguardo fruga d'intorno, / la mente indaga accorda disunisce / nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce.
(Eugenio Montale, "I limoni")

Dopo cinque notti a Ubud, per il gran finale decido di trasferirmi nella parte occidentale della Penisola di Bukit, all'estremo sud dell'isola, dove sorge l'Uluwatu temple, celebre per il suo tramonto a picco sul mare. Per percorrere i 35 chilometri fino a Kuta in minibus ci impieghiamo un'ora e mezza di traffico. Da lì l'unico modo per arrivare a Pecatu è il taxi, che per aggirare la congestione improponibile di Kuta deve fare il giro largo, passando sul ponte della nuova strada a pedaggio. In camera mi aspetta un asciugamani a forma di cigno ricoperto di ibiscus rossi: la luna di miele con me stessa continua.
Sono nella semibuia terrazza della guest house di Pecatu, insieme a dei surfisti in canottiera pieni di tatuaggi e a due ragazze perbene sedute con le loro gonnelline sui divani sfondati. La musica lounge in sottofondo si mescola con i lamentosi canti accompagnati dalla musica ipnotica del gamelan, che provengono dal villaggio. Ci ho provato ad entrare nel tempio, ma all'ingresso un addetto alla security vestito di nero, a guardia del grande traffico di donne con i cesti in testa, mi ha proibito fermamente di entrare (potevo stare sulla soglia e anche fare quante foto volevo). Nel frattempo, dall'altra parte della strada, c'erano degli uomini che mi facevano segno al di sopra di un muro di recinzione. Forse mi ero un po' illusa di essere finita dentro un antico mondo di mille anni fa in questi giorni, ma quando sono entrata nel recinto sono rimasta stupita nel vedere una quindicina di uomini (seppur vestiti con camicia bianca, sarong e mini turbantino) seduti a fare fuori una cassa di birre Bintang, fumando sigarette ai chiodi di garofano. Ho accettato la birra e ho intavolato una animata ma rilassata conversazione con loro. «We are all a family» mi hanno informata. «E le donne?» «Temple». Qualcuno più alticcio faceva battute a doppio senso, altri mi mostravano gli anelli che ornavano le mani. «Alle dieci inizieranno le danze, ma non con i vestiti belli come negli spettacoli per i turisti.» Poi si sono messi a giocare a spirit, un gioco di carte che hanno provato inutilmente a insegnarmi.

L'isola dell'amore in tutto e per tutto
Bali, l'isola dell'amore in tutto e per tutto. Infatti ci vanno solo gli australiani che fanno surf, in quanto, mancando il rif, ci sono delle onde che tritano, alte dieci metri e profonde centocinquanta chilometri.
(Andrea Pazienza, "Sotto il cielo del Brasil")

Dato che la mia carta Maestro non ha mai funzionato qui in Indonesia, l'unico modo che avevo per prelevare contanti era la Visa. Bene, l'altro ieri l'ho dimenticata in un ATM di Ubud. Per fortuna posso pagare gli hotel e i ristoranti con l'altra carta di credito, ma per tutte le spese in contanti devo fare affidamento soltanto sui pochi spiccioli che mi sono rimasti. Non potendomi permettere il lusso di un taxi, sono stata costretta ad esplorare la zona completamente a piedi − rinunciando a luoghi troppo lontani come l'incantevole mezzaluna di sabbia bianca di Jimbaran, la selvaggia striscia di spiaggia orlata di palme di Balangan e il magnifico paesaggio di scogliere e boschi di Bingin. Mentre camminavo sul bordo della strada che portava a Padang Padang, dunque, non si capisce quanti taxi e ojet hanno rallentato per chiedermi se avessi bisogno di un passaggio, e quante volte gli ho risposto "jalan-jalan" (ossia che preferivo camminare).

A un certo punto sono inciampata grattugiandomi un ginocchio sulla brecciolina. Ora, la protagonista del libro “Mangia prega ama” (interpretata nel film omonimo da Julia Roberts) è grazie a uno sbrego sulla gamba che dà una svolta alla sua vita. L'ingenua americana infatti non solo entra in contatto con la saggia guaritrice Wayan (che le cura la ferita grazie a impacchi e beveraggi miracolosi tipici della tradizione curativa balinese), ma conosce il brasiliano tormentato ma allo stesso tempo dolce (interpretato da Javier Bardem), che l'aveva investita con la sua jeep, grazie al quale pone fine alla sua pluriennale astinenza sessuale. Insomma, quella caduta dà un senso a tutto il suo viaggio di un anno, senza di essa non ci sarebbe stata né la crescita interiore né tanto meno il libro e poi il film. Che poi, bastava che avesse conosciuto il brasiliano a New York, e non avrebbe avuto proprio necessità di andare a Roma a strafogarsi di pasta né dalla santona indiana a lavare i pavimenti dell'ashram. Ma non divaghiamo. Io invece di ricorrere a una curatrice tradizionale sono entrata nel primo ristorante che ho trovato, mi sono fatta prestare del disinfettante e ho ripreso a camminare come se niente fosse. Ecco perché non ho conosciuto nessun commerciante brasiliano (o surfista australiano), né ho compiuto alcun progresso nella mia crescita spirituale.
Risolto così facilmente il piccolo incidente, la giornata è andata avanti secondo il programma. La spiaggia di Padang Padang, raccolta in una graziosa insenatura, era davvero misera e minuscola, nonché intasata di gente; ciononostante (compromettendo la pronta guarigione della ferita), non ho resistito alla tentazione di un veloce tuffo rinfrescante. Ho proseguito dunque verso Uluwatu, che è il nome con cui si indica tutto il tratto di costa sud-occidentale. Le spettacolari scogliere (o break) sono state colonizzate da una nutrita serie di negozietti per surfisti, bar e hotel con piscine, collegati attraverso un sistema di scalette (luoghi in alcuni casi accessibili soltanto ai clienti). Dai vari punti panoramici ho ammirato le onde paurose cavalcate dai surfisti, mentre la spiaggia qui praticamente non esiste: non è altro che la parte finale della grotta, quella più esposta alle onde.

L'ultima tappa, nonché attrazione "da non perdere" e motivo principale per cui sono venuta quaggiù, è il tempio di Uluwatu. Solo quando sono entrata nel sito, ho scoperto che il tempio vero e proprio è un edificio microscopico (dentro al quale non si può nemmeno entrare) arroccato in bilico sulla sommità dell'altissima scogliera, e che si viene qua solo per il fantastico paesaggio. Tutti noi turisti − ridicolmente abbigliati con il sarong viola che ci avevano dato all'ingresso − eravamo lì a percorrere avanti e indietro i sentieri che costeggiano il crepaccio, tra fiori fucsia e piante succulente, ammirando le pareti a picco e lo spettacolo del mare pieno di schiuma. I più ardimentosi si facevano fotografare sull'orlo del precipizio e solo i più fortunati hanno incontrato le scimmie. Ora, qui si viene apposta per il tramonto, ma il problema del tramonto è che subito dopo inizia l'imbrunire. E poiché io dovevo ancora camminare per sette chilometri prima di arrivare alla guest house, e non avevo nessuna intenzione di percorrerli al buio, sono stata costretta ad andarmene prima − incrociando tra l'altro la marea umana che a bordo di mezzi a due e quattro ruote tentava di entrare nel sito per ammirare il tanto sospirato tramonto che io, probabilmente, non vedrò mai.

La vicina Cina
È più facile colmare un pozzo senza fondo che soddisfare l’umana ambizione.
(Proverbio cinese)

L'ultima sera che trascorro a Pecatu, dopo aver ricomposto in un battibaleno un bagaglio organizzato per l'indomani, scendo a mangiare nella sala comune e finalmente conosco Jay, il proprietario della guest house. Personaggio effervescente, capelli lunghi unti e sorriso aperto, già alla terza o quarta birra, mi accoglie calorosamente e mi presenta un giovane cinese seduto al suo tavolo.
Jay gli stava chiedendo consigli di marketing: «Tu sei intelligente. Io vorrei imparare da te i segreti del business che stai studiando al tuo master di Ginevra.» Al che Clark ha cominciato a snocciolare cifre e a entrare nel tecnico. «Ma tu devi imparare da me... Look at these guys», lo interrompe Jay indicando gli australiani, europei, brasiliani spaparanzati sui divani a ridere e bere birra. «Il loro unico pensiero è: come posso guadagnare i soldi per pagarmi le prossime vacanze? Impara da loro. Perché dopo che hai fatto tanti soldi, ti sei comprato la macchina, la casa, la barca, poi cosa fai? Vuoi un'altra casa, un'altra macchina, un'altra barca, ma non sei felice. Sei stressato. La notte non dormi.» «Infatti!» annuisce il cinese muovendo la testa su e giù spasmodicamente. «Io la notte non riesco a dormire, penso penso penso senza mai riuscire a rilassarmi. Penso come avere successo. Come diventare una persona ricca e importante.» Clark è qui da alcuni giorni per uno stage e ancora non è mai uscito da Pecatu. Nel frattempo, i ragazzi si stanno organizzando per andare a una festa e Jay gli propone di accompagnarli; il cinese accampa un mal di testa ma gli promette che la domenica sarebbero andati insieme in spiaggia. Shanghai e Ginevra hanno creato un mix micidiale nella testa del povero Clark, chissà se sei mesi a Bali potranno regalargli un po' di balance, come alla protagonista di "Mangia, prega, ama".
Il giorno dopo, all'aeroporto di Doha raggiungo il gate da dove sarebbe partito di lì a poco il mio volo per Roma. Guardandomi in giro, sono certa di aver sbagliato: solitamente, quando sta per partire un volo per l'Italia, un buon numero di viaggiatori in attesa sono italiani, e invece qui sono quasi tutti cinesi. Mi viene in mente quello che aveva detto Clark: «Prima delle Olimpiadi di Pechino, nessun cinese immaginava che dopo così poco tempo avrebbe potuto viaggiare liberamente. Nemmeno lontanamente! È incredibile quello che è successo. Appena si sono chiuse le Olimpiadi, è stato in quel momento che abbiamo capito che sarebbe successo. Ce l'abbiamo fatta.» E poi ripenso a quello che mi ha detto Jay, dal suo osservatorio privilegiato di proprietario di due negozi di souvenir a Kuta, la città più turistica di Bali: «Sai quali sono i popoli più in crisi? Gli italiani e i giapponesi. Prima ne vedevi tanti di italiani e compravano. Tanto. Ora poco o niente. E invece è pieno di cinesi. Ogni anno sono sempre più numerosi.»

GIACARTA DA REGALO

Sono tornata a Giacarta per qualche ora prima del volo di rientro e dalle parti del monumento nazionale ho conosciuto un ragazzo che mi ha voluto fare compagnia per un'oretta. Dopo aver visitato la chiesa cattolica, la moschea Istiqlal e i giardini lì vicino, ci fermiamo vicino a una bancarella di bibite insieme a un suo amico. Il bibitaro dice cose e il ragazzo traduce in un inglese discutibile. «My friend is asking with me... I turisti sono bianchi e amano stare sotto al sole mentre noi abbiamo la pelle scura e lo andiamo scansando, il sole». «My friend is asking with me... Noi abbiamo il naso largo e schiacciato voi lo avete piccolo come il tuo». «My friend is asking with me... I turisti a Giacarta frequentano solo la zona di Kota e di Jalan Cikini Raya». Alla quinta volta che mi ripete che le indonesiane a 42 anni non sono biutiful come me, li saluto e loro mi consigliano di stare attenta alla borsa alla stazione di Gambir. Mi fanno morire questi indonesiani.
Ho ripensato al prete della chiesa di Glodok, un sardo che opera lì da molti anni. «Hai visto il quadro della Madonna che sta a destra dell'altare?» Mi domandò nella sagrestia dopo la messa. «Quella che ha come sfondo le isole rigogliose e il mare?» «Esatto, proprio quella. Sai, in fondo è così che se lo immaginano loro, il paradiso: un arcipelago. Non sono persone meravigliose?»

(luglio 2015)

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