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IL VIAGGIO È UN GRANDE MAESTRO

Sotto i monsoni del Nepal

La prima volta che sono andata in Asia, nell'agosto 2003, non ho scelto la meta in base a profonde motivazioni spirituali, né tanto meno in base alle condizioni climatiche. Visitare il Nepal nel periodo dei monsoni infatti non è stata propriamente una furbata. Non solo gli acquazzoni mi hanno più volte infradiciata, ma ho dovuto affrontare conseguenze spiacevoli come frane disastrose, strade chiuse, sentieri infestati di sanguisughe e cieli perennemente nuvolosi.
Nonostante questo, il viaggio mi ha permesso di entrare in contatto per la prima volta con la religione induista e con quella buddista, dunque con riti, usanze, cibi, abbigliamento completamente nuovi e straordinari. Ho visto svariate risaie a perdita d'occhio, molte mucche in mezzo alla strada e imponenti montagne; ho conosciuto un popolo cordiale, ospitale e dall'aspetto molto fanciullesco (l'unico loro difetto è che sputano in continuazione, facendo un sacco di rumore); è stata inoltre l'occasione per provare questo sport faticoso che si chiama trekking.
Io sono partita totalmente impreparata. Ignoravo nomi e altezze delle montagne più prestigiose dell'Himalaya. Non sapevo che il Nepal fosse la culla del buddismo. Mi era sconosciuto il passato fricchettone di Kathmandu e mi ha stupito scoprire che la città si adagia in una valle più verde e brillante della valle degli orti. Nessuno mi aveva detto che avrei visitato caterve di templi a pagoda. Non avevo previsto che la colonna sonora delle mie peregrinazioni sarebbe stata il noto mantra tibetano "Om mane padme hum". Infine non mi sarei mai aspettata che l'obiettivo principale del viaggio sarebbe stato riuscire a intravedere delle montagne innevate (seppur le più elevate della Terra), sottoponendomi a torturanti quanto spesso infruttuose sudate.

A Kathmandu non c'eri tu

Mi si potrà obiettare che questi piccoli aneddoti riguardano solo la mia umile persona e non presentano alcun interesse per il pubblico. Ma se qualcuno dovesse accarezzare un progetto di viaggio in queste contrade lontane, può darsi che il racconto delle mie modeste avventure non gli sia del tutto inutile… Il viaggio è un grande maestro; chi si sposta senza nulla apprendere può con buona ragione esser definito un asino.
(Niccolò Manucci, "Storia do Mogor")

Per Kathmandu non esistono voli diretti dall'Italia quindi devo fare due scali: uno in Germania, l'altro a Doha, dove trascorro la notte in uno sciccoso hotel fornito dalla compagnia aerea. Nonostante il clima non propriamente temperato (40 gradi e 100 % di umidità), ne approfitto per farmi affascinare dagli elegantissimi abitanti con le loro tuniche bianche e le kefiah e dalle costruzioni kitsch che spuntano nel deserto.
All'aeroporto di Kathmandu dimostro di essere subito entrata nel mood giusto, infatti il bagaglio non arriva e io accetto l'accaduto con una stupefacente e rassegnata passività, come se tutto ciò fosse inevitabilmente scritto nel mio karma, anche indossare la stessa canottiera rossa per giorni. Alla fine siccome c'erano due paia di essenziali scarpe da trekking negli zaini mai arrivati abbiamo preso le redini della situazione, che gli amici nepalesi con la loro proverbiale alacrità avrebbero sbloccato forse per Natale, e siamo andati di persona a smuovere le acque all'aeroporto di Kathmandu e negli uffici della Qatar Airways, riuscendo infine a rintracciare le valigie temporaneamente in gita a Bangkok.
A Kathmandu, se piove, le strade tutte buche e non asfaltate sono nella maggioranza dei casi un pantano fangoso in cui i piedi sguazzano alla grande, se non piove l'aria è pregna di una quantità di polvere e smog impressionante. Senza ordine apparente sono attraversate tutto il giorno da persone, auto giapponesi scassate, risciò, biciclette, autobus, camion indiani agghindati, motorette, apecar, polli, galline, capre, vitelli, mucche e cani. Il concetto di marciapiede non è stato ancora introdotto e perciò ogni mezzo di locomozione che ne è dotato suona il clacson incessantemente per togliersi davanti bipedi e quadrupedi. Pare che i primi semafori, solo su poche strade che possiamo con eufemismo definire "tangenziali", risalgano allo scorso aprile. La cosa positiva è però che, qualunque cosa accada nelle strade, sembra che a nessuno gliene freghi niente.

Bevuto il primo chai di ordinanza, dalla rotonda di Chhetrapati, a sud di Thamel, parto all'esplorazione della città. Cammino nel fango, tra negozi di magliette ricamate, internet cafè e bancarelle di cibo di varie fogge che frigge, fino a Durbar Square, la Piazza del Palazzo. I turisti dovrebbero pagare un biglietto per entrare, ma ormai il sole sta calando e i guardiani chiudono un occhio. Si profila subito il venditore di balsamo di tigre, personaggio di cui è quasi impossibile liberarsi perché, quando si rende conto che proprio non ne vuoi sapere del balsamo di tigre, tira fuori delle orrende statuette di elefanti o di Buddha. In questa splendida piazza, che in realtà è un agglomerato di più piazze vere e proprie, faccio la prima conoscenza con i templi nepalesi, compreso quello della Kumari, la leggendaria Dea Vivente.
La cena ha luogo in uno dei migliori ristoranti di Kathmandu, collocato in una casa tradizionale newari, con spettacolo di danze e costumi tipici. Il cibo non è un granché, ma a causa dell'abuso di grappa nepali sono sul punto di intrecciare una relazione piccante con il cameriere, che dimostra tredici anni come tutti gli altri.

IL TEMPIO DELLE SCIMMIE

Il primo intenso approccio con la religiosità nepalese avviene all'alba presso il tempio buddista di Swayambhunath, detto anche per ovvi motivi "tempio delle scimmie". Il tempio si trova in cima a una collina che, secondo una leggenda, un tempo era un'isola all'interno del lago che c'era al posto dell'attuale valle di Kathmandu. Lungo la strada saluto allegramente gli abitanti che si lavano i denti ed eccomi qua, incolonnata e pigiata tra i pellegrini e le statue, sulla grande scalinata che mi conduce alla sommità.
Annunciato da un intenso odore di incensi bruciati, ceri di burro di yak e fiori, appare lo stupa centrale. Questo tipico monumento buddista è costituito da una cupola bianca sormontata da un parallelepipedo dorato, sul quale sono dipinti gli occhi onniveggenti del Buddha e un punto interrogativo a mo' di naso, che sarebbe l'uno nepalese, simbolo di unità; in cima c'è un ombrello dorato che rappresenta il nirvana, a cui si può accedere soltanto dopo aver superato 13 stadi di perfezione, rappresentati dagli scalini digradanti che formano una specie di cappello a piramide.

Intorno agli stupa bisogna girare in senso orario, il mantra "om mani padme hum" è riportato sulle bandiere colorate e sulle ruote della preghiera, che si fanno girare accarezzandole con la mano. Del complesso fanno parte anche il gompa (un monastero tibetano buddista), due templi bianchi in stile shikhara, il tempio a pagoda di Hariti (la dea hindu del vaiolo), statue ed immagini sia buddiste che hindu, a testimonianza di come le due religioni in questo Paese convivano in maniera spesso indistinguibile, cosicché le credenze dei due culti sono strettamente intrecciate e spesso gli dei sono affiancati o addirittura sono gli stessi, con nomi diversi.
Il tempio è pieno come un uovo di pellegrini perché è la festa di Janai Purnima, durante la quale gli uomini delle caste più elevate indossano un nuovo janai, che sarebbero i tre cordoni che si portano sulla spalla sinistra e legati sotto il braccio destro, a simboleggiare il corpo, la facoltà di parola e la mente. Questi pacifici sacerdoti legano al polso dei visitatori un simbolico cordino giallo detto raksha bandhan, che bisogna tenere almeno una settimana perché faccia effetto.

L'altra ubriacatura di spiritualità avviene al tempio di Pashupatinath, uno dei più importanti di tutto il subcontinente tra quelli dedicati a Shiva. Poiché nel tempio possono entrare solo gli hindu, mi consolo assistendo alle cremazioni. Sui ghat, piattaforme allestite sul fiume Bagmati, allestiscono la pira e poi collocano il cadavere avvolto in una stoffa; dopo la combustione, le ceneri vengono spazzate nel fiume. L'odore di carne bruciata e il fumo denso colpiscono i sensi. Non ci sono altri turisti: solo qualche sadhu, un monaco buddista e due giovani mano nella mano che fissano per 10 minuti il mio orologio.
Consumo la cena in un ristorante vegetariano in compagnia di una famigliola di topolini, in zona Thamel, il quartiere più turistico e fitto di locali, negozi e ristoranti. Passeggiare per Kathmandu dopo le 11 di sera ha un fascino fuori dal tempo: illuminazione inesistente e nessuna anima viva, eccetto spettrali pagode e sagome di mucche placidamente a passeggio.

Una valle, molte vacche ed alcune valigie

Questa piccola vallata fertile, incastonata tra enormi catene montuose e abitata da circa un milione di persone, è la culla della civiltà nepalese, abitata dai discendenti dei Newar, una popolazione dalle origini misteriose. Il loro periodo di massimo splendore risale al XVII secolo durante il regno dei Malla, quando la valle era suddivisa in città-stato acerrime nemiche tra loro e i commerci erano molto fiorenti. Poi il re di Gorkha unificò il Nepal e la lingua nepali sostituì il newari come lingua ufficiale. I nepalesi, come abbiamo verificato, continuano a mantenere vive le loro tradizioni, sono molto legati alla terra per il loro sostentamento e ai templi per i loro culti.

Interessanti posticini sono acquattati nella valle: a Dakshinkali, famosa per i sacrifici animali in onore della dea Kali compiuti ogni martedì e sabato, arriviamo troppo tardi, quando stanno già lavando via il sangue; a Chobar c'è la gola che secondo la leggenda fu creata da un colpo di spada di Manjushri, che servì a far defluire le acque e a trasformare il lago di Kathmandu nell'omonima valle (questo immenso taglio lo ammiriamo dal ponticello sospeso, costruito in Scozia a inizio Novecento); il gompa di Gorakhnath, dietro Pharping, ci accoglie con un verde paesaggio rasserenante; infine visitiamo Kirtipur, una cittadina isolata e specializzata nella tessitura, ricca di di templi e guide-bambine.
Ma il pezzo forte è Bhaktapur, una delle più belle città del Nepal. La fortuna è stata capitarci in occasione del Gai Jatra, la festa delle vacche, dedicata ai defunti (i Newar credono che siano le vacche a condurre i morti dal dio degli inferi). Per le strade sfilano sia mucche vere sia persone mascherate da mucche, ma anche un mucchio di gente che porta dei pali addobbati con le foto dei defunti recenti. Molti sfoggiano stravaganti costumi ed eseguono una danza con dei bastoni. Questo carnevale inizialmente non si capisce bene cosa c'entri con le vacche, però poi ho letto che deriva da un episodio accaduto nel 1600 quando, per combattere la tristezza della regina alla quale era appena morto un figlio, il re promise una ricompensa a chiunque fosse riuscito a farle tornare il sorriso sulle labbra: da allora questa festa è caratterizzata da danze, divertimenti e costumi bizzarri.

Vado a pranzo con Tana, due sue amiche e il figlioletto di pochi mesi di una di loro. Il bimbo ha il kajal sugli occhi per proteggerli dall'inquinamento e dal sole, gli orecchini d'oro e dei bracciali rigidi ai polsi e alle caviglie, tradizionalmente regalati dalla nonna paterna. Mangiamo i momo, ravioli al vapore ripieni di carne di bufalo molto speziati e piccanti, tipici della cucina tibetana. Poi dalla terrazza ci affacciamo sulla splendida Durbar Square, dove Bertolucci ha girato alcune scene del film "Il piccolo Buddha".

Per la notte raggiungiamo Nagarkot, la Ponte di Legno del Nepal, cittadina in posizione strategica la cui attrattiva consiste nel fatto che la mattina all'alba si può ammirare in dimensione panoramica la catena dell'Himalaya. Ci arrampichiamo tra anse profonde a bordo di un autobus davvero poco rassicurante. Il panorama della valle si apre, stupendo, ma non abbiamo tempo per goderne: siamo obbligati a riscendere a Kathmandu per recuperare le valigie all'aeroporto. Il ritorno a Nagarkot, in un finto taxi alle 10 di sera, è meglio scordarselo (puzza di cherosene, calore infernale sprigionato da non so quale parte dell'auto e fondatissima paura di precipitare nel dirupo).
La mattina dopo alle 5 e 30, ancora intontita dalle birre bevute la sera prima, mi svegliano per vedere l'Himalaya, che come abbiamo già detto era lo scopo principale di tutto il viaggio. Apro gli occhi e la finestra enorme contiene già lo spettacolo: ci comunicano con orgoglio che siamo stati fortunatissimi a poter ammirare la maestosa e innevata catena senza nuvole in questa stagione, sia pure per un'oretta soltanto visto che poco più tardi la valle è già tutta avvolta in un vaporoso nuvolone.

Lasciata Nagarkot, ci aspetta prima il tempio di Changu Narayan, dedicato a Vishnu (una meravigliosa espressione di arte hindu inclusa nel patrimonio mondiale dell'Unesco), e poi Thimi, dove assistiamo alla lavorazione della ceramica, cotta sotto grossi cumuli di paglia. Visitiamo anche una scuola: il preside è davvero entusiasta della nostra visita, il suo inglese è leggermente approssimativo ma i grandi sorrisi e le energiche strette di mano suppliscono al linguaggio verbale; gli alunni ci tempestano di domande in inglese. Apprendiamo che la scuola in Nepal non è obbligatoria, comincia alle 10 e termina alle 4 e tutti indossano delle divise: camicia cravatta gonnellina a pieghe o bermuda. Inutile dire che l'analfabetismo tocca cifre elevatissime.

E salirò e salirò...

Tin Tin: «Ah, la montagna, com'è bella!... E poi quest'aria vivace e leggera, un po' frizzante... Dovresti venire con me, almeno una volta...»
Capitano Haddock: «Io??? Non è per me... La montagna, come paesaggio, non mi preoccupa troppo... ma ostinarsi a salire su un mucchio di pietre, è troppo per me!... Soprattutto se pensiamo che poi bisogna sempre riscendere. Allora a che serve, ti chiedo... Senza contare che si rischia sempre di rompersi le ossa!... Non si vede altro sui giornali: dramma della montagna di qua, dramma della montagna di là!... No, le montagne, per quanto mi riguarda, si possono sopprimere... Si impedirebbe, d'altronde, che gli aerei vadano regolarmente a schiantarsi contro una o l'altra cima...»
(Hergé, "Tintin in Tibet")

Prima di arrivare a Pokhara, dove ci aspettano eventi più grandi di noi, siamo attesi per un rafting nel fiume Trisuli, che di solito è calmo come una tavola, ma durante i famosi monsoni è un po' più movimentato. Niente di pericoloso comunque, nonostante il capobarca continui a terrorizzarci dicendo che se non avessimo eseguito bene i comandi avremmo rischiato di cadere, bere molta acqua e morire ("drink lot of water and easily die"). Ci danno giubbotti e caschetti che puzzano terribilmente di sudore e umidità, ci guardiamo ridendo istericamente e sudando copiosamente nelle stesse zone dell'attrezzatura precedentemente sudate da tutti quelli che ci hanno preceduto. A quel punto non ci possiamo più tirare indietro. In realtà il fiume è davvero calmo e in qualche momento lo stato di trance in cui sono entrata potrebbe essere tranquillamente scambiato per noia.
Il viaggio prosegue in pullman. Una frana ci obbliga a scendere tutti con i rispettivi bagagli, percorrere qualche centinaio di metri a piedi e risalire su un altro autobus che ci aspetta dall'altra parte. Trascorriamo la serata a Pokhara, punto di partenza per i trekking e le scalate, fornita di negozi di attrezzatura e di un bel lago dove — non nel periodo dei monsoni — si possono fare piacevoli gite in barca. In questa stagione, ovviamente, piove sempre.

Comincia l'avventura in montagna: sudate, salite, pietre scivolose, pioggia battente, sanguisughe, sale e autan, abiti sempre bagnati, nuvole, cascate, rapide, liane, caprette, merde giganti, tea-time, frittelle, zuppe, tamburi, infradito, giovani accompagnatori sempre sorridenti, muscoli indolenziti, imprecazioni, cadute e lividi. Si dorme nei lodge, stanzette a due letti, con cessi alla turca e docce troppo calde o troppo fredde, si gioca a carte, si beve birra, chi legge, chi scrive, chi si massaggia col balsamo di tigre. Durante le soste per il pranzo i turisti si spogliano delle magliette bagnate, si tolgono le scarpe e controllano quante sanguisughe stanno succhiando il sangue dai loro piedi, quindi le ammazzano e disinfettano le ferite. Intanto i cosiddetti sherpa cucinano, offrono loro il succo di mango e poi si mangia, quasi sempre il dahl (zuppa di lenticchie). Venditori tibetani si sciroppano il trekking per poi esporre la mercanzia nei momenti di relax.

Raggiungiamo i 3000 metri circa in un itinerario circolare che ci ha riportato dopo 4 giorni al punto di partenza, dopo aver toccato Birethanti, Tikhedhunga, Ghorepani e Ghandruk. A Ghorepani, dopo la notte più fredda, più alcolica, più riscaldata dalla grande stufa e allietata dai tamburi, ci svegliano perché una ragazza olandese nel lodge a fianco è in fin di vita: cercano − senza esito − un cellulare che abbia campo. Purtroppo al mattino apprendiamo che la ragazza non ce l'ha fatta: salta il trekking a Poon Hill per ammirare l’alba e lo stato d'animo il giorno dopo rende più difficile accettare la salita, la pioggia, le migliaia di sanguisughe che vogliono salire da tutte le parti, le pietre scivolose e i lividi.

Al ritorno a Pokhara, il sognatissimo programma "pinito-tlekking" prevede doccia, vestiti asciutti, un'ora di godurioso massaggio ayurvedico, bistecca, birre e biliardo. Infine ci informano che la strada per il Chitwan Park e quella per Kathmandu sono impercorribili causa frana epocale, per cui dobbiamo tornare al più presto in aereo e affrettarci, altrimenti avrebbero chiuso anche l'aeroporto. Docili come agnellini partiamo il giorno dopo con un piccolo aereo da 20 posti della "Yeti Airlines" e torniamo a Kathmandu.

A spasso con Buddha

Come se nulla fosse, riprendono i tour nella valle verde: nei villaggi newari di Bungamati e Khokana le donne si lavano i capelli alla fontana e i bambini partecipano a una gara di alfabeto, a Jawalakhel conosciamo le storie dei rifugiati tibetani impegnati nella realizzazione di tappeti, a Patan, la "città della bellezza", lunghissime colonne colorate di devoti eleganti carichi di offerte per gli dei celebrano un altro giorno di festa religiosa in Durbar Square, la piazza rettangolare costellata da una serie infinita di templi in stili uno diverso dall'altro.

A Bhaktapur il caos della festa è terminato e ciò che rimane sono i pacifici ritmi quotidiani. La sera ha un fascino medievale: l'illuminazione è scarsa, spettrali figure umane eseguono per tutta la notte i riti nel tempio di Krishna, il tempio di Nyatapola con i suoi 5 piani svetta in lontananza al di sopra dei tetti della città. La mattina seguente il benvenuto al nuovo giorno ce lo dà la catena dell'Himalaya, ben visibile comodamente seduti al tavolo della colazione. Dopo l'ultimo trekking a Dhulikhel e la visita della cittadina di Panauti, sia di montagne, sia di templi induisti a pagoda ne ho abbastanza.

Boudhanath è il più grande stupa buddista del Nepal, il posto più bello, luminoso, colorato e pacifico, con quel fantastico cielo azzurro pieno di nuvolette bianchissime. È il centro religioso della comunità tibetana, in maggioranza profughi da pochi anni che lì intorno hanno aperto negozietti di artigianato. Nei gompa lì presenti si può assistere alle funzioni religiose sottolineate dall'uso di gong e campane.
Poi cerco di raggiungere in taxi il parco di Gokarna, dove c'è una zona boschiva ancora intatta, ma l'ignoranza dei tassisti, che conoscono solo tre parole di inglese ma non ammetterebbero mai di non conoscere la strada, mi fa girare a vuoto, ammirare anche il tempio di Gokarna Mahadev e il villaggio newari dall'auto, e poi tornare al punto di partenza senza aver cavato un ragno dal buco.
A 15 km da Kathmandu c'è Budhanilkantha, dove riposa la statua di Vishnu, sdraiata in un laghetto sulle spire di un serpente. È permesso l'ingresso nel recinto del tempio soltanto agli hindu, che si recano continuamente a omaggiare il dio, bagnandosi la testa nell'acqua del laghetto. Ai re del Nepal invece è proibito contemplare questa statua, visto che loro stessi sono considerati una delle reincarnazioni di Vishnu. Una copia ridotta della statua si trova nel Parco Mahendra di Balaju: il giardino non è un granché (per colpa degli inetti giardinieri, riferisce la "Lonely Planet") ma è comunque un posto tranquillo, con una piscina, dei tempietti e delle fontane. I re del Nepal possono venire tranquillamente qui per contemplare la statua senza incorrere in catastrofi.

Where the streets have no name

Da brava turista giro per i negozi di Thamel, dove è facile perdersi poiché è un quartiere in cui le strade non hanno nome. Mentre osservo degli orecchini esposti in vetrina, il giovane commesso del negozio mi fa cenno di entrare e poi mi chiede di mostrargli l'orecchino che indosso, perché gli piace il design. Inutilmente provo a dirgli che li ho comprati là vicino, quegli orecchini. Mentre lui disegna, dal retro compare un uomo più anziano e baffuto, che mi propone di trafugare in Italia (in quanto turista e dunque insospettabile) delle pietre preziose del valore di 3000 dollari, che poi gli avrei dovuto consegnare a Venezia, previa fotocopia del mio passaporto. Per il favore lui mi avrebbe pagato 3000 dollari: quando gli chiedo quale sia la sua convenienza nel promettermi una somma così elevata, il negoziante non fa altro che abbassare l'ammontare della cifra. Poi ho scoperto che tale truffa è una delle più diffuse nel Paese e infatti c'è scritta anche nel capitolo "Pericoli e contrattempi" della Lonely Planet. Pare che, nella fase successiva alla mia adesione, il gioielliere mi avrebbe chiesto una caparra e avrei poi scoperto che i gioielli non erano di gran valore.
L'ultimo giorno l'imperativo è dare fondo alle rupie entro le 17, per cui ci siamo dispersi in un battibaleno a caccia di maschere, camicette, cd, poster, magliette ricamate, ciondoli, collane, zainetti, pantaloni, pashmine, copriletti, tende (cercando, è ovvio, di riuscire a contenerli nei borsoni appena acquistati per l'occasione). Tutti − per la cronaca − vi sono riusciti egregiamente.

(agosto 2003)

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POST SCRIPTUM

Proprio pochi giorni dopo il nostro ritorno, ripresero in Nepal gli scontri tra il governo e i ribelli maoisti: turisti scortati dall'esercito, scioperi, coprifuoco, bombe che esplodevano in piena Kathmandu, guerriglia in montagna, a poche settimane dal fallimento delle trattative di pace tra il governo e i guerriglieri comunisti. Il re Gyanendra — che allora era al potere da due anni, dopo il massacro dell'ex re suo fratello e di tutta la sua famiglia — stava affrontando una fase delicata della lotta per il controllo del paese. All'epoca mi domandai come sarebbe andata a finire.

Be', successe che due anni dopo, nel 2005, Gyanendra si allargò un po' troppo, licenziando addirittura il governo, ma siccome il popolo non si mostrò molto conciliante, egli decise di trattare con i maoisti, con i quali nel 2006 raggiunse un accordo per una Costituzione provvisoria. In quel periodo fu proclamata la laicità dello Stato (il Nepal era l'unico Stato al mondo ad adottare l'Induismo come religione ufficiale) e fu eletta un'Assemblea Costituente, in seguito alla quale, alla fine del 2007, dopo 240 anni di Monarchia fu proclamata la Repubblica. Infine, le elezioni del 2008 sancirono la vittoria del partito maoista.

(2010)