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Al confine con la Siria

La Turchia, sono già 4000 anni che è abitata: è stata governata dagli hurriti, dagli assiri, dagli ittiti, dai persiani, dai macedoni, dai romani (poi bizantini) e finalmente dagli ottomani.
Kilis, prima di entrare nel suo territorio alla fine della prima guerra mondiale, faceva parte della provincia di Aleppo, da cui oggi dista solo 70 km. Nel 2010 aveva circa ottantamila abitanti, mentre all'epoca della mia visita ne aveva almeno centomila in più, tutti provenienti dalla Siria come rifugiati. Il più vicino posto di frontiera, Öncüpınar (in questo periodo chiuso al transito), si trova a soli 5 chilometri dalla città.
Eravamo dunque sui margini del confine con un Paese in guerra e a centocinquanta chilometri da Kobane, la “roccaforte” del popolo curdo, come si erano affrettati a scrivere i giornali pochi giorni prima, quando la città era stata strappata ai militanti del cosiddetto ISIS. Il Ministero degli Esteri effettivamente sconsigliava i viaggi non strettamente necessari qui, “soprattutto nelle aree a ridosso del confine con la Siria, dove oltre al possibile verificarsi di attentati terroristici permane altresì il rischio di sequestri”. Tuttavia, la nostra iniziale decisione di annullare il viaggio aveva fatto imbestialire il nostro anfitrione locale, che aveva iniziato sobriamente (com'è suo costume) a inveire contro la Farnesina, il British Council e in pratica contro l'intero sistema dei governi e dei mass-media occidentali imperialisti, sostanzialmente intimandoci di partire.
Una parte dei rifugiati siriani vive nel campo profughi collocato vicino alla frontiera, uno dei 25 centri di accoglienza allestiti dal governo turco lungo il confine. Qui bambini e ragazzi frequentano le scuole prefabbricate nuove di zecca, mentre le mamme eseguono lavori di tessitura di tappeti, di composizione di mosaici eccetera. Ci siamo andati di persona, al campo profughi, entrando nelle aule dove bambine e ragazzine col velo ci hanno fatto dei sorrisi straordinari sotto gli occhi troppo grandi. Queste scuole sono molto più nuove e fornite delle normali scuole pubbliche turche (e anche italiane, se è per questo) e non tutti accolgono con favore la spesa di soldi pubblici per mantenere un numero così elevato di ospiti, nonostante le belle parole di cui sindaci e prefetti si sono riempiti la bocca nei vari incontri formali con la nostra delegazione.
In ogni caso, la maggior parte dei rifugiati non vive nei campi e dunque i loro bambini a scuola non ci vanno proprio. I profughi infatti si trovano in una condizione di asilo temporaneo che ostacola di fatto la loro integrazione sociale: l’assenza dello status di rifugiato gli impedisce di inoltrare domanda di asilo politico, così chi vive nei campi di accoglienza non sa quando potrà uscire, mentre chi vive fuori spesso non può accedere ai servizi loro offerti a causa della burocrazia e dell’ostacolo linguistico. Infatti, quando fondò la Repubblica turca, Atatürk purtroppo decise di adottare l'alfabeto latino invece di quello arabo. Va comunque detto che in cambio Atatürk abolì il califfato, riconobbe la parità dei sessi, istituì il suffragio universale, introdusse la domenica come giorno festivo, il calendario gregoriano, il sistema metrico decimale e proibì l'uso del fez, del turbante, della barba per i funzionari pubblici e dei baffi alla turca per i militari.

P.S.: Il 18 gennaio 2016 un missile lanciato dai combattenti dell’Isis stanziati oltre il confine ha colpito la scuola di cui siamo stati ospiti: una donna impiegata nell’istituto è stata uccisa e una studentessa è rimasta gravemente ferita.

Racconto di viaggio "KEBAB A COLAZIONE. Da Istanbul al Sud-Est della Turchia" 

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