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La maledizione di Bukhara 

Affronto le cinque ore di tragitto tra Khiva e Bukhara dentro ad un’auto privata condivisa con altri tre passeggeri. Procedendo in territorio desertico la temperatura aumenta ad una velocità straordinaria fino ad assestarsi sui 45 gradi e, poiché la macchina non è dotata di aria condizionata, l’unico metodo per patire meno il caldo è quello tradizionale uzbeko di appendere degli asciugamani ai finestrini. Arriviamo a Bukhara stravolti come se li avessimo percorsi a piedi quei 460 chilometri.
Il centro pulsante di Bukhara (o Buxoro, le “a” e le “o” sono spesso intercambiabili) è il Lyabi-Hauz, una vasca d’acqua circondata da enormi gelsi, bar, ristoranti e bancarelle, dove gli abitanti si radunano nelle sere d’estate per prendere il fresco. Un tempo Bukhara era piena di stagni come questo, che costituivano la fonte principale di approvvigionamento d'acqua, ma i sovietici li hanno eliminati quasi tutti poiché contribuivano a diffondere malattie.
Approfittando delle tenebre, con quasi un intero piatto di risotto (plov) nello stomaco, vado a zonzo per la città. La piazza della Grande moschea emerge all’improvviso tra le vie semibuie: certe grandiose creazioni umane fanno più impressione se giungono inaspettate. Sotto un nero cielo stellato, in tutto il loro splendore appaiono i due portali della moschea Kalon e della madrasa di Mir-i-Arab, la cupola turchese della moschea e il minareto Kalyan. Questa affusolata “torre della morte” veniva usata per le esecuzioni pubbliche, durante le quali il condannato veniva buttato giù da un’altezza di 45 metri, ed è uno dei pochi monumenti risparmiati dalla celebre furia distruttrice di Gengis Khan. La maggior parte degli edifici della città infatti sono successivi ai Mongoli e anche a Tamerlano, poiché risalgono al Cinque e Seicento, il periodo di massimo splendore economico e religioso di Bukhara e del Khanato omonimo.
Al resto dell'offerta storico-artistica della città dedico la mattina seguente: il museo dei tappeti ospitato nella più antica moschea dell’Asia Centrale, i bazar coperti dal tetto a cupola, l’imponente fortezza dell’emiro, la moschea del venerdì con un’altra vasca superstite, il mausoleo costruito sopra una fonte di acqua miracolosa, la sfarzosa abitazione di un eminente politico poi fatto uccidere negli anni Trenta, il Char Minar con le sue quattro inconfondibili torri… In un’altra stagione avrei passeggiato a lungo osservando i dettagli più interessanti degli edifici in mattoncini, chiacchierando con i venditori e gli artigiani dagli zucchetti ricamati, e soprattutto cercando di capire cosa diamine sono i tappeti bukhara, ma purtroppo le temperature delle ore centrali della giornata mettono a dura prova anche il più audace dei turisti. Bisogna trovare un’alternativa.
Fino all’inizio del Novecento, oltre alle vasche d’acqua e alla vasta rete di canali, a Bukhara c’erano 20 hammam, alimentati dall’acqua dei pozzi e molto popolari sia tra gli abitanti sia tra i commercianti stranieri. Oggi ne sono rimasti soltanto due o tre. Mi rivolgo alla mamma di Bek affinché me ne consigli uno riservato alle donne: "Nessuno a Bukhara va più all’hammam. LORO lo hanno vietato. Nel passato ce n’erano tanti, oltre a centinaia di moschee e scuole coraniche, ma "during soviet times" hanno distrutto tutto! Maledetti, pure il clima ci hanno cambiato: non c’è più acqua e fa sempre così caldo." Non mi aspettavo da una donna così mite una reazione tanto irruenta, comunque il messaggio è giunto chiaro e forte: invece del bagno turco (che tra l'altro costa 20 dollari), andrò in piscina.
Probabilmente ciò che ricorderò per sempre di Bukhara (a parte le stupefacenti moschee e le madrase) è il posto dove ho alloggiato. A differenza dell’abitazione di Murat, il cortile è coperto da una tettoia di plastica che non contribuisce a rendere l’ambiente più fresco, ma nonostante ciò i momenti più piacevoli in Uzbekistan li ho passati qui. Come un’uzbeka sul letto di legno, a gambe incrociate o addirittura sdraiata sui cuscini: il melone a fette, i samsa di patate e il tè sul tavolino; coppette, piatti e tazzine decorati con il fiore di cotone bianco su sfondo nero (l’unico set di stoviglie usato nel paese). La birra prima di andare a dormire e le ultime chiacchierate con gli stoici viaggiatori provenienti da tutte le parti del mondo. Sotto il tavolo Sunny, l'irresistibile cucciolo di cocker che mangiucchia le scarpe accatastate fuori dalla porta e mordicchia i piedi con i suoi dentini affilati. Bek che mi racconta con le lacrime agli occhi dell’incidente mortale accaduto a un ciclista italiano ospite della loro guest house pochi giorni prima. La mamma triste perché l’altra sua figlia si è appena trasferita in Nuova Zelanda. Il concerto di Toto Cutugno ad alto volume al televisore in alto, la mamma che invita il padre riottoso a ballare. La carrellata di video italiani su Youtube: Bek che adora “L’arcobaleno” di Celentano e io che ribatto con “Samarcanda” di Vecchioni.
Solo adesso che mi soffermo per la prima volta sulle parole di questo brano (che ho sempre detestato per l’orribile ritornello “Oh oh cavallo oh oh”), comprendo che fa riferimento a una famosa leggenda mediorientale, quella del servo che incontra la morte al mercato di Baghdad e per sfuggirle galoppa veloce fino a una città lontanissima: Samarcanda. Ma qui trova lo stesso ad aspettarlo la nera signora, che gli dice: "Io non ti guardavo con malignità, Era solamente uno sguardo stupito, Cosa ci facevi l'altro ieri là? T'aspettavo qui per oggi a Samarcanda." Al fato, in pratica, non si può sfuggire.
Anche il mio destino è segnato: ho acquistato un biglietto del treno veloce Afrosiyob e fra un’ora e mezza sarò a Samarcanda. Spero di non fare brutti incontri.

Racconto di viaggio "CANTO NOTTURNO DI UNA TURISTA ERRANTE. Nei sempiterni calli dell'Uzbekistan e del Kirghizistan"