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La leggenda di Berat

Il progetto iniziale di questa spedizione in Albania consisteva in una settimana sulle montagne a nord e una sulle coste ioniche meridionali. Poi si sa come vanno queste faccende, una cosa tira l'altra finché quando siamo riusciti a fare ritorno a Tirana ormai ci rimanevano soltanto due striminzite giornate prima del volo di ritorno. Non ci restava altro che ripiegare sul sito UNESCO più vicino alla capitale cioè Berat, la città dalle mille finestre.
A prima vista (forse anche alla seconda) questa tappa potrebbe sembrare totalmente folle e inutile. La triste periferia di Tirana l'avevamo già guardata per due volte e non era veramente necessario attraversarla per la terza e nemmeno per la quarta volta. La deviazione a Durazzo non ha fatto altro che confermare lo scempio edilizio e la bruttezza architettonica che sospettavo. E comunque ci vogliono veramente troppe ore, la strada non è molto agevole, il paesaggio è monotono. L'unico passatempo è contare i bunker, questi fungoni di cemento indistruttibili che Hoxha fece realizzare a decine di migliaia, e che rimarranno a perenne ricordo di questo insano dittatore che voleva far credere che l'Albania fosse così bella che tutti se ne volessero appropriare.
Berat è una cittadina deliziosa, con tre agglomerati di case ottomane bianche dai tetti di tegole marroni e le mille finestre che le danno il soprannome. È collocata tra il monte Tomor e il monte Shpirag e attraversata dal fiume Osum.
Mentre pranziamo in un bellissimo hotel-ristorante ospitato in una tipica casa ottomana, apprendiamo la leggenda di Berat. C'era una volta una splendida fanciulla amata da due fratelli, i giganti Tomor e Shpirag appunto, i quali per contendersi il suo cuore si affrontano in una lotta sanguinosa. Tomor colpisce Shpirag con la spada, Shpirag reagisce massacrando il fratello a randellate. Infine Dio si vendica (che non sono modi questi) e trasforma Tomor in una montagna che reca ancora i drammatici segni inflitti dal randello e Shpirag in un'altra montagna, tagliuzzata dai colpi di spada ricevuti. La povera Berat (colpevole solo di troppa bellezza e di troppo amore) invece viene trasformata in una collina, in cima alla quale sorse questo castello che ancora oggi domina la cittadina; tutte le lacrime da lei versate hanno dato vita al fiume Osum, a dimostrazione eterna della sua pena.
Siccome nel ristorante c'è un bel venticello, troviamo tutte le scuse per far durare il pranzo (invero molto leggero) un'eternità. Appena mettiamo il naso fuori ci passa tutta la voglia di esplorare il paese e ci andiamo a rifugiare in camera, con l'aria condizionata. Solo nel tardo pomeriggio ci facciamo forza e raggiungiamo a piedi il quartiere di Gorica, che sorge al di là del fiume.
Quando calano le tenebre andiamo alla ricerca di questo ristorante di Mangalemi trovato su Trip Advisor; la strada per raggiungerlo è accidentata e scivolosa, al buio non si vede dove metti i piedi e l'umidità è spaventosa. Solo alla fine scopriamo che si trova esattamente dentro la fortezza, dove ci eravamo rifiutati di salire sin dall'inizio. Se aggiungiamo che siamo arrivati tutti sudati, che abbiamo mangiato da schifo e che il proprietario era più untuoso delle sue portate riscaldate, è facile capire perché abbiamo immediatamente deciso di andarcene da lì l'indomani di buon'ora.
Torniamo al bellissimo hotel-ristorante, unica gioia di Berat, ad affogare il nostro livore nel raki. Qui chiacchieriamo a lungo con il cameriere, che si mostra altrettanto livoroso, anche se l'obiettivo dei suoi strali non è un paesino ottomano umido e afoso dotato di un ristorante penoso, bensì è un altro: gli albanesi del nord. I quali non solo parlano con una scarpa in bocca, non solo sono così rissosi che arrivano alle mani soltanto se uno li guarda, ma che oltretutto sono retrogradi e primitivi (basta pensare alle faide che ancora oggi sono il loro pane quotidiano e a quella barbara legge del Kanun). Rasserenati dallo spirito di fraternità e di amore di patria che si respira qui, nella tradizionale casa ottomana restaurata, ce ne andiamo a dormire.

Alle nove di mattina stiamo bevendo l'ultimo caffè di Berat; i bagagli sono già sull'autobus che tra massimo una mezz'ora partirà per Tirana. Non vediamo l'ora di andarcene. Il caldo e l'umidità sono già insopportabili, pure all'ombra. Quando scorgiamo un cappellino ballonzolante a quasi due metri di altezza, sotto al quale luccicano degli occhiali, inizialmente pensiamo che ci siano tutte le condizioni per incappare in un'allucinazione; ma poi, più in basso, appare la nota camicia scozzese, seguita dai soliti calzoncini beige con le tasche e dagli enormi scarponi da trekking. È proprio U., con cui avevamo condiviso la gita sul lago di Koman e il soggiorno a Valbona. I primi minuti ancora stentiamo a credere che con tutta l'Albania che ci sta da visitare, ci siamo ritrovati proprio qui. Non solo: U. ha comprato un biglietto per lo stesso autobus che prenderemo noi.
Al solito è entusiasta di questa località che noi odiamo con tutto il cuore: ha visitato tutte le chiese e i monumenti e ovviamente la fortezza; ha pure trascorso una piacevole giornata in montagna e ha conosciuto delle persone interessantissime. Nonostante i suoi problemi intestinali, acuiti dal clima torrido, non vede l'ora di metterci a parte di una serie di considerazioni antropologiche e riflessioni socio-economiche, le quali − alla fine − danno un senso anche a quest'ultima tappa, solo apparentemente folle e inutile.

Racconto di viaggio "IL PAESE DI FRONTE E QUELLO CHE NON C'ERA"

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