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LA "SPIAGGIA" NON ESISTE

Thailandia in solitaria

Il mio viaggio in Thailandia nella stagione monsonica del 2009, inizialmente, ha molto in comune con quello di Leonardo DiCaprio nel film “The Beach”. Devono però trascorrere alcuni giorni prima che io mi renda conto che la "spiaggia" non esiste e che lo spirito del luogo è più facile da trovare lontano dalle coste.

Uno scalo lungo una notte

Avevo scelto la Thailandia come destinazione del mio viaggio estivo per una ragione molto terra terra: la Emirates proponeva biglietti aerei da Roma a Bangkok con scalo a Dubai a soli 400 euro. Mi trovo dunque all'aeroporto di Dubai: ora locale le ventitré e trenta e una lunga notte da trascorrere lì (diciamolo che questo era uno dei motivi dell'infimo prezzo dei voli). Il problema dell'aeroporto di Dubai è che c'è un'unica smoking lounge minuscola dove l'aria è irrespirabile e la gente che aspira ad entrarci è troppa. L'alternativa è fumare in un bar o ristorante dove sei obbligato ad acquistare una consumazione piuttosto esosa, da pagare possibilmente con carta di credito in modo da non ricevere inutile moneta degli Emirati Arabi come resto. Per farla breve, sono entrata verso mezzanotte in un Irish Pub e ne sono uscita alcune Guinness dopo, al sorgere del sole.
Le Guinness sono state gentilmente offerte dai diversi viaggiatori in transito che si sono alternati al mio fianco durante quella lunga notte del mio primo giorno di viaggio verso Bangkok; dunque devo ringraziare pubblicamente Malcolm, ingegnere scozzese, George, consulente aziendale gallese, e Justus, diplomatico kenyota di stanza ad Addis Abeba (con il quale mi sono moralmente impegnata a visitare presto il suo Paese). Inoltre grande stima al cameriere nepalese e alla cameriera filippina che facevano il turno di notte e che si sono ricordati di me quando sono ripassata al ritorno, quasi quattro settimane dopo, a bere un caffelatte.

Arrivo a Bangkok
«In Thailandia,» riprese Robert, «tutti possono avere quello che vogliono, e tutti possono averlo al meglio.»
(Michel Houellebecq, "Piattaforma")

Il mio arrivo a Bangkok è praticamente identico all'arrivo di Leonardo DiCaprio nel film “The Beach”, con la differenza che nessuno mi offre sangue di serpente da bere e che nella camera accanto alla mia non c'è nessuno che fa sesso. Anche perché al quinto piano di questa guest house, che è la fotocopia di quella del film, ci sono soltanto camere singole ed è espressamente vietato l'ingresso ad estranei (in particolare ‒ si precisa ‒ alle prostitute). Mi sono stabilita anch'io in Khaosan Road, il ghetto dei backpacker mondiali di passaggio a Bangkok. Per le esigenze dei viaggiatori stanchi e straniti o dei nuovi arrivati come me è un posto più addomesticato rispetto al resto della città, ossia è uguale a tutte le località per turisti del mondo: una folta offerta di accomodation e locali, bancarelle, minimarket e internet point affollati di giovani che parlano tramite Skype con fidanzati o parenti, o che scrivono su Facebook che stanno a Bangkok e hanno accarezzato una tigre, che hanno rischiato un incidente in pulmino e piove sempre.
Dopo un'indispensabile doccia, come prima cosa mi tolgo le scarpe e varco la porta di un centro massaggi per fare la conoscenza con il famoso thai massage: un'esperienza sublime che ripeterò con una spaventosa frequenza. Allo scadere di un'ora sotto le sapienti mani della massaggiatrice mi siedo a un tavolino e ordino alla donna che cucina con il wok un piatto di noodles alle verdure e pesce. Dal banco di fronte compro la prima birra, la Singha (che in seguito verrà scalzata dalle mie preferenze quando assaggerò la Leo). A quell'ora gli avventori non sono tanti e dunque un neozelandese di origine turca, proprietario di un ristorante italiano ad Auckland, attacca inevitabilmente bottone con me, introducendomi nelle usanze cittadine e dilungandosi nel corso delle due ore trascorse insieme sulle pietanze italiane nella cui preparazione lui eccelle. Nonostante sia di una rara bruttezza, ci prova anche a chiedermi di rivederci, sottintendendo un possibile sviluppo sentimentale, ma viene prontamente fulminato dal mio sguardo schifato.

Pericoli e contrattempi

Sulla Lonely Planet c'è sempre un capitolo che si intitola “Pericoli e contrattempi", ma io non lo leggo mai in anticipo altrimenti mi rovino la sorpresa. A Bangkok ad esempio l'ho letto solo dopo l'esperienza che mi è accaduta il primo giorno di viaggio.
L'innocente truffa funziona così. In alcuni templi ti si avvicinano delle persone amichevoli e colte che ti consigliano di andare a visitare dei luoghi interessanti e meno battuti dai turisti. En passant ti indirizzano verso quello che loro definiscono l'ufficio del turismo, per ricevere indicazioni e organizzare al meglio il viaggio. In realtà questo ufficio non è altro che un'agenzia viaggi come mille altre (che però vende pacchetti molto più costosi della norma), da cui questi personaggi ricevono una percentuale.
Per compiere questo stravagante tour, la donna che ho incontrato io mi ha detto che bastava fermare un tuk tuk e dargli l'equivalente di un euro (con cui un normale tuk tuk di Bangkok non ti fa fare manco un chilometro, figuriamoci un tour di tre ore con varie soste).
Curiosa di conoscere i meccanismi della faccenda e comunque alle 14 del mio primo giorno in una metropoli sconosciuta che sta covando un temporale con i controfiocchi, mi sono imbarcata sul tuk tuk munita del foglietto thai-english accuratamente compilato dalla gentilissima signora di Chiang Mai. Nel primo tempio un tale ha cercato in tutti i modi di terrorizzarmi elencandomi gli innumerevoli furti, rapimenti e assassinii che avvengono ogni anno e mi ha consigliato caldamente di rivolgermi all'ufficio turistico per prenotare un pacchetto. Di fronte al mio sprezzante disinteresse, prima si è spazientito, ma poi, con una metaforica capriola acrobatica, si è qualificato come professore universitario e mi ha invitata a cena. Ho rifiutato cortesemente e ho salutato, meditando sulle curiose abitudini locali.
Pensando che il guidatore del tuk tuk ci avrebbe spuntato qualche baht, mi sono fatta comunque accompagnare al cosiddetto ufficio del turismo, dove un distinto signore mi ha proposto istantaneamente un pacchetto di 21 giorni in Thailandia a “soli” 800 euro. Quando ho cercato di spiegargli che non era il mio genere di vacanza, l'ex gentile impiegato si è alzato in piedi, mi ha deriso con i suoi colleghi sicuramente riferendosi al mio status di saccopelista spiantata e urlando mi ha indicato la porta. Il giro è proseguito con la visita del Marble Temple e dello Standing Buddha. Nel frattempo aveva cominciato a diluviare a secchiate e dunque ho benedetto la santa donna che, in cambio di un vaffanculo a me indirizzato da un impiegato di agenzia viaggi ladra, mi aveva offerto un confortevole giro turistico di due ore al riparo dalla pioggia. Alla fine il povero guidatore ‒ che non parla inglese se non per una serie di frasi standard che legge da un taccuino ‒ mi ha fatto scendere alla fermata del battello sul Chao Phraya, in pratica alle spalle della mia guest house.

Grazie a circostanze fortunate, alle dieci della mattina seguente sono già pronta per partire alla volta delle attrazioni più famose di Bangkok: il Wat Phra Kaew con il Buddha di smeraldo, il palazzo reale, il Wat Pho con il gigantesco Buddha sdraiato e il Wat Arun (il "tempio dell'alba" con la torre in stile khmer). I suddetti monumenti sono davvero ammirevoli, anche se un essere umano innocente dovrebbe avere il diritto di goderne senza sudare così copiosamente e senza rischiare così di frequente un collasso durante quel continuo togliersi e mettersi le scarpe fuori dai luoghi sacri. Così torno in Khao San con il servizio di battelli long-tail, che mi sembra un modo molto più fresco e arioso di viaggiare rispetto al camminare sui marciapiedi roventi.

Verso la spiaggia
Quel che mi è sempre piaciuto del buddhismo è la sua tolleranza, l'assenza del peccato, la mancanza di quel peso sordo che noi occidentali, invece, ci portiamo sempre dietro e che è in fondo la colla della nostra civiltà: il senso di colpa. Nei paesi buddhisti niente è mai terribilmente riprovevole, nessuno ti rinfaccia mai qualcosa, nessuno ti fa mai una predica o cerca di darti una lezione. Per questo sono paesi piacevolissimi e fanno sentire a loro agio tanti giovani viaggiatori occidentali, in cerca appunto di libertà.
(Tiziano Terzani, "Un indovino mi disse")

Anch'io dunque, proprio come DiCaprio, programmo di fuggire dall'invivibile capitale alla volta delle isole del Golfo del Siam ‒ benché nessun tossicomane pazzo mi avesse lasciato attaccata alla porta una mappa per raggiungerle, ricamandoci sopra tutta una storia leggendaria che non sta in piedi, come succede nel film. Leo decide di andarci prendendo un treno notturno diretto a Surat Thani e portandosi appresso una coppia di francesi ‒ cosa inconcepibile nella realtà, ovviamente a meno che non sei un bonazzo biondo con cui la flessuosa e sensuale fidanzatina francese vuole andare a letto. Io invece opto per una soluzione di viaggio ancora più facile e a buon mercato, che vendono in qualunque agenzia squinternata e si chiama “joint ticket” (biglietto combinato bus e traghetto). Questa usanza tipica della Thailandia consiste nel raggruppare un plotone di giovani occidentali con zaino sulle spalle, appiccicare ad ognuno un adesivo sul petto che dirà all'universo mondo dove sta andando e comandarli con dei modi piuttosto sbrigativi, come se fossero bambini in colonia. Non è raro che le tradizioni locali prevedano anche la narcosi dei suddetti saccopelisti e la conseguente rapina durante la notte in bus (com'è accaduto a persone che ho conosciuto).

Ko Samui

Durante l'attesa mattutina al porto di Surat Thani, una ragazza ceca che è in viaggio da 6 mesi ‒ probabilmente illanguidita dalla romantica alba che abbiamo ammirato insieme ‒ mi propone di dividere la camera con lei a Ko Phangan, ma visto che non ho il suo stesso budget pidocchioso non mi faccio corrompere e raggiungo Ko Samui in tarda mattina, accompagnata dai delfini saltellanti.
L'autista del pulmino vuole sapere a tutti i costi dove sarei andata a dormire; purtroppo, dopo la terza volta che gli dico di lasciarmi a Lamai beach che poi me la sarei vista io, sono costretta ad infrangere le note regole di civile rispetto thailandese che consigliano di non perdere mai la pazienza e non alzare la voce. Pranzo tra anziani occidentali con gli occhi a cuoricino che guardano la loro dolcissima giovanissima compagna, osservo i travestiti che giocano a pallavolo, mi addormento tra le mani della massaggiatrice vicino al mare: così trascorre il placido pomeriggio.
La sera Lamai city è un mortorio, così vado a cena in un ristorante dove rimango diverse ore insieme ad una coppia di inglesi alcolizzati. Poiché è il compleanno di Dan, il padrone del ristorante, a una cert'ora arrivano tutti gli amici e si mangia e soprattutto si beve in allegra compagnia. Joe, panettiere tedesco che vive a Bristol da 52 anni, e sua moglie Lala, matta come un cavallo, tornano ogni anno in quest'isola per cui manifestano un entusiasmo immotivato, mentre nella loro tristissima città albionica a quest'ora sono tutti chiusi in casa o al massimo in un pub dove il tenore delle battute lascia molto a desiderare. Certo che la vita quotidiana per due esseri umani che si sono sposati vestiti da Teletubbies non deve essere semplice, considero tra me e me all'alba mentre faccio ritorno verso la mia capanna.

La proprietaria dell'agenzia si reca personalmente da me di buon'ora per accertarsi che mi prelevino per l'escursione prenotata. È una trentenne chiacchierona e allegra, ma con sbalzi d'umore terrificanti; il suo problema è che vuole un bambino, ma purtroppo è single e dunque cerca alacremente un boyfriend (le andrebbe bene anche un fidanzato straniero e infatti nel passato ha già avuto una relazione con un italiano, con il quale ha visitato Napoli e Parigi, ma poi si sono lasciati.) Il pick-up che viene a prendermi è già occupato da quattro italiani che parlano incessantemente dei ristoranti dove hanno mangiato sorprendenti quantità di pesce spendendo solo venti euro (io finora per mangiare ho speso al massimo due euro). Il nostro piccolo gruppo è capitanato da Enzo, un italiano residente a Ko Samui da più di quindici anni, che lavora con un'agenzia viaggi, collabora con la trasmissione di Licia Colò e a tempo perso fa l'ammaestratore di cobra. Ci fermiamo per uno snorkeling sulla “migliore barriera corallina della zona” con pesciolini “numerosissimi e non timidi”, come spiega il dépliant, che praticamente bussano alla maschera. E io non posso non chiedermi, se questa è la migliore, come devono essere le peggiori. L'isola di fronte, Ko Tan, è invece legata ad una curiosa storia di cani morti a causa degli ultrasuoni emessi dai pipistrelli. 

Attracchiamo quindi sull'isola di Ko Mudsum, su una spiaggia che in effetti avrebbe tutte le caratteristiche della famosa “spiaggia”, la quale però, tecnicamente, secondo l'autore del libro dovrebbe essere ubicata dentro al Parco Nazionale Marino di Ang Thong (che è una gita che non ho fatto perché ci volevano troppe ore di barca). Invece il film lo hanno girato a Maya Bay, sull'isola di Phi Phi Leh, parco nazionale situato nel Mare delle Andamane, che oltre alla spiaggiosità e al mare turchese-verde, ha tutta una serie di faraglioni di fronte che lo rendono un po' più intimo e morboso, in linea con le situazioni tipo “Isola dei famosi” ma più estreme che si svolgono nel film. A differenza del film, qui a Ko Mudsum nessuno di noi manifesta l'intenzione di allungare a dismisura la permanenza − forse perché non abbiamo scoperto maestose piantagioni di marijuana all'interno dell'isola. Anzi, i connazionali a mollo nell'acqua bollente non riescono a capacitarsi del fatto che un italiano di Riva del Garda viva in Thailandia da quindici anni e abbia del tutto rinunciato allo sci.

Lady bar

Lamai Beach al tramonto è incantevole e anche il mare perfetto per un ultimo bagnetto. Mi sdraio su uno di quei materassini con il cuscino triangolare di cui sono dotati i bar sulla spiaggia, ma i silenziosi e implacabili mosquitos arrivano a frotte e, mentre si comincia a preparare la magica atmosfera della sera, vado a rifugiarmi nella mia casetta di legno.
La sera decido di approfondire la conoscenza dei go-go bar, che la sera prima erano chiusi a causa del Buddha Day, durante il quale non si beve e non si fa festa (e questa era la ragione del mortorio). Ce ne sono decine tutti vicini, c'è un bancone in legno e un paio di pali di metallo dove queste minuscole ragazzine fanno finta di essere eccitanti per questi panzoni che bevono la birra, finché una qualche ragazza gli si avvicina e chiacchierano tutta la sera, oppure continuano per la notte, oppure addirittura per una settimana o due.
Durante la gita Enzo mi aveva fatto un quadretto piuttosto squallido dei rapporti uomo-donna in questo Paese, spiegandomi senza mezzi termini che gli uomini sono fondamentalmente delle merde, che si sposano con ragazze molto giovani che poi mollano senza problemi quando sono vecchie (ossia a 25-30 anni) e se ne trovano un'altra. In quel caso la legge thailandese non li obbliga a versare alimenti o comunque a provvedere in qualche maniera alla famiglia, così molte donne, non sapendo come mantenere i figli, li lasciano dai genitori e vanno a prostituirsi a Patpong in Bangkok, oppure a Pattaya, Ko Samui, Phuket o altre località turistiche. I venti euro che guadagnano per una sera li vanno a versare immediatamente in banca. La stessa realtà me l'ha confermata Sasi, questa ragazza che mi invita a bere nel bar dove lavora ‒ fondamentalmente il loro lavoro è questo, quindi se sei uomo o donna non cambia, basta che consumi, e io consumo un paio di birre mentre cerco di capire lei come la pensa. La pensa prima di tutto che vorrebbe avere il mio colore di pelle. Poi che vorrebbe avere i miei stessi diritti di donna farang: per esempio che se mio marito mi lascia, almeno mi dà i soldi per dare da mangiare ai nostri figli.
Ovviamente quella di Enzo e di questa ragazza minuta e dal sorriso perenne è solo una delle realtà, come al solito non si può generalizzare: ci sono anche uomini come si deve e ci sono una moltitudine di donne senza scrupoli, che magari hanno passato un'infanzia poverissima nel nord est del Paese e poi, accalappiato il farang di turno, passano le giornate dal parrucchiere e dall'estetista e mangiano solo ostriche e champagne tirandosela un casino.

Ko Tao
L'angoscia ha origine non nel guardare dei grassoni tedeschi che sfilano in costume su spiagge un tempo immacolate, ma deriva innanzitutto dalla nostra concezione, mutuata dai media, di come dovrebbero essere quelle stesse spiagge. È l'attesa in sé che spoglia le destinazioni a cui siamo diretti di parte della loro autenticità.
(Rolf Potts, "Marco Polo non ci è mai stato")

Dopo un paio di giorni a Ko Samui, è giunto il momento di spostarmi nell'isola di Ko Tao, evitando accuratamente Ko Phangan dove il Full Moon Party aveva attirato adolescenti sballoni di tutto il mondo. Purtroppo prima di arrivare a Ko Tao bisogna caricare i suddetti deficienti da Ko Phangan (tappa obbligata nel tragitto della nave) i quali crollano senza forze in ogni angolo libero, cercando invano di riprendersi dagli eccessi della notte appena terminata.
A Ko Tao mi sento in paradiso mentre mi faccio massaggiare in riva al mare, davanti al tramonto. La sera è tutto un trionfo di lucine, musica lounge, cuscini e divanetti, ragazzoni biondi reduci dalla giornata di immersioni. Questo Paese ti vizia: tutti i piaceri della vita loro te li offrono anche se non li hai chiesti. Al Vibes conosco questa ragazza inglese bionda e frizzante che sta cercando di trasferirsi sull'isola per fare la baby sitter, dopo aver insegnato un anno alla Primary School di Bangkok. Tanti europei son stufi di come vanno le cose a casa loro e io non posso dargli torto.

Nonostante il cielo non promettesse niente di buono, ho intrapreso lo stesso un’impegnativa passeggiata per raggiungere la spiaggia di Aow Leuk. Quando sono arrivata in questa scenografica baia mi sono immersa istantaneamente, sguazzando per un'oretta, ossia finché non è cominciato un diluvio tipicamente monsonico che sarebbe durato tutto il pomeriggio.
Mentre mi beavo a mollo nelle acque turchesi del golfo del Siam, mi sono messa a chiacchierare con due ragazze italiane: Paola è di Trento e sta trascorrendo qualche giorno al mare prima di andare in Myanmar; Marina è una bolognese diventata buddista da alcuni anni, in viaggio con due amiche abbandonate alla loro inadeguatezza su un'altra spiaggia. Costei a un certo punto è dovuta andar via perché una tipa le aveva sfasciato il motorino e dunque doveva gestire un incontro risolutivo con l'uomo che affitta i motorini e la responsabile dell'incidente. Invece io ho accettato un passaggio da Paola, ma purtroppo la mia fobia nei confronti dei motorini thailandesi guidati da donne italiane sulle isole dalle strade scoscese e non asfaltate ha avuto la meglio, così ho preso un passaggio da un pick-up lasciando la trentina sola con la sua gomma bucata.

Il tempo non si è sicuramente rimesso al bello, ma prima o poi lo dovevo fare questo benedetto tour con lo snorkeling. Certo avrei preferito recarmi con il sole alla stupenda isola di Nangyuan ‒ in pratica tre isolette da cartolina collegate da sottili strisce di sabbia, ovviamente sede di un esclusivo resort ‒, alla Mango Bay e alla Ao Hin Wong Bay, dove si può osservare con la maschera una meravigliosa barriera corallina piena di pesci. E poi il viaggio di ritorno sulla barchetta di legno colorata non è comodissimo e ci metto un bel po' per riprendere l'equilibrio una volta scesa.
Mi ristoro in uno dei milioni di bar rasta che infestano il Paese, dove l'unica colonna sonora concessa è Bob Marley e c'è sempre il thailandese con i dread, lo sguardo stolido e il sorriso ebete, che in questo caso sta cercando malamente di scrivere con un pennarello le voci del menu del bar su cartoncini di carta fatta a mano. È in compagnia di una bellissima ragazza lituana con i capelli corti la quale qualche mese fa, appena adocchiato questo bar, aveva all'istante deciso di fermarcisi a lavorare ed era stata sua l'idea di questi menu fatti a mano tremendi e soprattutto poco pratici in un Paese dove piove sempre (oltretutto li sta facendo scrivere al thailandese rasta chiaramente semi-analfabeta). E questo nonostante la lituana sappia il fatto suo e infatti mi parla a lungo della situazione sociale ed economica del suo Paese dopo il crollo dei regimi comunisti.
Sulla strada del ritorno ho incontrato nuovamente le due italiane e mi sono fatta coinvolgere in una serata mal assortita in compagnia delle amiche bolognesi sempliciotte di cui sopra e di un tedesco e uno svizzero tedesco istruttori di scuba-diving che vivono sull'isola. È paradossale viaggiare da sola e poi ritrovarmi con quattro donne italiane a digiuno di inglese e che parlano a voce troppo alta, mentre cercano di mangiare un piatto siberiano o mongolo in maniera impropria. Per fortuna anche al tedesco la situazione pare insostenibile, così è bastato un cenno di intesa e ci siamo dileguati.

Through the monsoon

Quando decido di lasciare l'isola il mare non è propriamente quello che si dice una tavola, ma mi illudo che il traghetto superveloce non dia problemi. Non mi rendo conto del dramma che sto per rivivere nemmeno quando vedo i passeggeri appena sbarcati: bende sugli occhi, visi bianchi come stracci, donne sostenute a braccio dai compagni, omoni che si siedono a metà passerella sulle loro stesse valigie guardando nel vuoto. Persino la ragazza ceca che è in viaggio da 6 mesi (che ne deve avere di pelo sullo stomaco) è ridotta molto male.
La mia occasionale compagna, una ragazzona canadese dotata di quella inscalfibile serenità tipica di chi frequenta lunghi seminari di yoga in India, mi riferisce che in biglietteria le hanno detto che il tragitto è tranquillo. Ora, io non so che idea hanno i thailandesi della tranquillità, però due ore e mezza in un'imbarcazione che dà delle tuzzate contro le onde così forti che le griglie dell'aria condizionata si staccano dal soffitto (sfiorando la testa mia e di altri passeggeri), piena di gente che urla aggrappata alla poltrona davanti e vomita in continuazione, insomma a me non sembrano tanto tranquille. Per fortuna la canadese col suo sorriso ayurvedico tiene a lungo poggiata la mano sulla mia dicendo: «È tutto okay» (mentre io sono intimamente convinta di stare vivendo i miei ultimi minuti di vita, pensando «Che cazzo sono venuta a fare in Thailandia? Aveva ragione mia madre: non me ne potevo andare come tutti in campeggio nel Salento?»). Quando finalmente scendiamo, la canadese mi svela che, avendo vissuto dieci anni su una barca ormeggiata nei pressi di Vancouver, non era stata particolarmente turbata dall'esperienza.

Chumpon

Ognuno per la sua strada: la mia è prendere una stanza a Chumpon e non muovermi fino al giorno dopo per nessuna ragione al mondo. E infatti trovo subito alloggio presso una guest house molto accogliente e a buon mercato, di cui sono l'unica cliente. La ragazza che la gestisce non dimostra più di diciannove anni ed è di una dolcezza disarmante. Insieme a lei, sul divano, guardo il telegiornale.
Come ogni sera alle 8 per una buona mezz'ora trasmettono tutto il resoconto dell'intensa giornata del re e della regina, durante la quale normalmente aiutano un casino di gente e benedicono plotoni di persone in divisa che si stendono ai piedi del re e, con la testa vicina ai suoi piedi, ricevono una foglia sull'orecchio e uno sbaffo sulla fronte, che il re Bhumibol gli appone con le mani tremanti dato che è parecchio anziano e infatti è al potere da 63 anni. Questo amore per la famiglia reale è così grande che praticamente tutti hanno in casa delle foto del re e della regina più o meno recenti, oppure portano un braccialetto di plastica arancione con scritto "I love the king", frase che scrivono anche sugli autobus e in infiniti altri posti.
A Chumphon celebro la felicità di essere ancora viva: vado al mercato, mangio pollo fritto, compro dei vestiti e vado a cena in un locale poco avvezzo alla presenza di farang. Qui purtroppo sbaglio ordinazione e mi ritrovo un'enorme zuppa di pesce piccantissima che cerco di mangiare bevendoci su un'intera birra grande gelata, ma poi devo miseramente lasciare lì sul tavolo, mentre questo gruppo rock thailandese capellone suona sul palco.
Al Farang Bar faccio due chiacchiere con questo inglese arrogante, il quale smanetta su Facebook col suo laptop, pieno di acredine nei confronti dei suoi vecchi amici che hanno messo tutti su famiglia e non si divertono più come un tempo. Mi racconta che l'unica volta che è stato in Italia ci è venuto in aereo per una giornata soltanto (a Milano, in via Montenapoleone), per comprare un portafogli di Gucci e per bere del vino rosso con la sua morosa dell'epoca. Quando va in bagno ne approfitto per scappare.

Parco di Khao Sok
Quanto a me, credo ancora nel Paradiso, ma ho capito che non è un posto dove andare: lo senti dentro, quando per la prima volta senti di far parte di qualcosa di unico... e quando lo trovi, quel momento... dura per sempre.
("The Beach", film di Danny Boyle)

Dopo la traversata da incubo abbandono definitivamente l'idea di recarmi all'arcipelago di Tarutao e invece viro verso il Parco Nazionale di Khao Sok, raggiungibile senza dover prendere traghetti. Il resort che mi aveva consigliato quella ragazza della guest house è molto accogliente e anche la famiglia che lo gestisce è davvero squisita, ma è veramente isolato nella giungla e dopo le 7 e mezza siamo circondati da una compatta oscurità punteggiata di lucciole e rane gracidanti. Gli unici altri clienti del resort sono tutti olandesi: i due membri della giovane coppia sono fortemente sovrappeso, quelli della famigliola magri e biondissimi. Dopo mangiato non c'è altro da fare se non chiudersi nella palafitta ascoltando i terrificanti rumori della foresta, tra i quali riconosco un essere che, inequivocabilmente, si lava i denti per ore e un altro che russa come una locomotiva.

Finalmente sorge il sole e qualche ora dopo sono in partenza per una promettente gita con tutti questi olandesi, in un lago grande quasi duecento chilometri quadrati, con dentro centinaia di isolotti, baie e grotte lavorate dalla pioggia. Ora, qui, anche se siamo dentro a un lago, il paesaggio è identico a quello dove hanno girato il film “The beach” (faraglioni e tutto) e dunque il cerchio sembrerebbe chiudersi. In realtà è identico tranne un particolare: manca la spiaggia bianca con le palme, visto che appunto siamo in un lago. Anche se, a dirla tutta, pure sulla spiaggia di Phi Phi Leh (dove hanno girato il film) hanno piantato cento palme da cocco perché non corrispondeva ancora esattamente agli standard hollywoodiani di come sarebbe dovuta essere una tipica spiaggia thailandese. Bisogna inoltre aggiungere che, a differenza della gita con gli italiani, durante la quale sembravamo tutti amici per la pelle, questi stitici olandesi hanno continuato per tutta la gita a trattarsi con freddezza e a scambiarsi frasi di circostanza.
La sera mi trasferisco in un resort meno isolato, dove trascorro una serata memorabile all'interno di una piccola comunità di viaggiatori: tre cileni (tra cui Jaime Antonio, di origine australiana), una sudafricana bellissima con i capelli corti e un americano che insegna inglese a Barcellona. Anche se ciascuno proviene da un angolo di mondo diverso e distante, le nostre visioni coincidono mentre siamo seduti ad un tavolo pieno di bottiglie vuote di birra a discutere di educazione e di ignoranza, di amore e di potere, di religione e di libertà di opinione. Lo spirito del tempo si manifesta qui, in questa casetta di legno sommersa nella giungla al centro della Thailandia, e insomma forse ero io che stavo sbagliando fino a quel momento rincorrendo un posto con la sabbia, le palme e le onde.
"Quanto a me, credo ancora nel Paradiso, - dice Richard nel film "The Beach" - ma ho capito che non è un posto dove andare: lo senti dentro, quando per la prima volta senti di far parte di qualcosa di unico... e quando lo trovi, quel momento... dura per sempre."

Hua Hin

Alla stazione dei bus di Surat Thani sta partendo un grosso pullman con aria condizionata diretto a Bangkok. Ci salgo intenzionata a scendere a Hua Hin: dal finestrino osservo per molte ore camion carichi di durian e ananas, distese immense di noci di cocco, diversi Buddha seduti o sdraiati. A Hua Hin tutto è cambiato rispetto a ciò che mi avevano detto: grossi grattacieli e hotel di lusso mi accolgono sul viale. Prendo una stanza economica sul molo, arredata con mobili di legno lucido, ed è come dormire su una nave.
Per le strade molti turisti thailandesi in grappoli familiari, numerosi puttanieri soli di ogni provenienza e rari stranieri sperduti che, come me, sicuramente si stanno chiedendo cosa diavolo ci fanno lì. Evitando accuratamente le decine di ristoranti italiani, svedesi, svizzeri, tedeschi, francesi, norvegesi, mi reco al mercato notturno per una cena con riso e granchio seduta ad uno dei tanti tavolini di plastica, da cui posso agevolmente seguire i concerti di Michael Jackson trasmessi dal piccolo televisore. In centro conto anche numerose sartorie che vorrebbero inutilmente imitare lo stile italiano e magari anche vendermi un vestito.

Stasera sono stufa dei turisti ciccioni che bevono la birra, delle lady bar, della musica, di tutta questa finta allegria e di questo ancor più finto gioco della seduzione: me ne vado a passeggio sul lungomare deserto. In lontananza brillano le luci della nave che staziona a difesa della residenza reale di Hua Hin. Questa ragazza paffuta che lavora nell'unico bar aperto vicino al porto mi racconta che i malesi che lavorano sulle navi sono pericolosi quando scendono sulla terraferma, e infatti sono obbligati a tornare a dormire a bordo.
Al mattino è molto nuvoloso e la spiaggia, ampia e orlata di palme, è triste e deserta con la bassa marea, punteggiata dai buchini dei granchietti che entrano ed escono. Il numero di ombrelloni e sdraio pronte ad ospitare clientela che non c'è mi fanno pensare che in altri momenti ci debba essere una certa affluenza, e anche i cavalli con cui fare passeggiate sulla battigia sono annoiati. Solo al bar rasta se ne fregano altamente di tutto e stanno lì con i loro dread e i sorrisi stolidi. Forse sono gli unici ad aver capito tutto.

Sleeping on the river Kwai

Dalla caratteristica stazione rossa prendo un treno diretto a nord, salutando per sempre le deludenti spiagge thailandesi e dedicandomi piuttosto alle acque dolci. Sulla carrozza di terza classe è una sfilata continua di gente che vende cibarie, controllori attillatissimi e addetti al lavaggio pavimenti; i sedili sono duri, i ventilatori millenari pendono dal soffitto e i passeggeri indossano le mascherine. A Ban-Pong prendo un bus che mi porta comodamente a Kanchanaburi.
Alloggerò per quattro notti in un'ampia casa galleggiante di legno, con letto a tre piazze, cullata incessantemente dal fiume Kwai. Al piccolo schermo della terrazza-ristorante, la sera, tutto il personale guarda le telenovele thai che hanno come protagonisti uomini in abito scuro di taglio italiano e donne elegantissime compostamente sedute su divani in broccato (la cameriera e il guardiano di notte sognano scioccamente di diventare come loro). Il tatuatore Joe introduce me e questa ragazza milanese, reduce da un corso di thai massage a Chiang Mai, alle usanze locali.
In questa città c'è il famoso ponte ricostruito sul fiume Kwai. La storia racconta che durante la seconda guerra mondiale i giapponesi invasero la Thailandia e costrinsero una multietnica congerie di prigionieri a costruire una ferrovia che avrebbe collegato la Thailandia alla Birmania, col proposito nascosto di arrivare fino in India. Sfiancati dalle terribili condizioni di lavoro furono in tantissimi ad ammalarsi e morire e poi alla fine il ponte di Kancha fu abbattuto dalle bombe, rendendo inservibile la ferrovia stessa.

Sul viale principale registro una teoria infinita di concessionari di auto ed esercizi commerciali dell'indotto automobilistico, finché non mi estasio di fronte al negozio dove realizzano e vendono le casine degli spiriti. Questi tempietti in legno colorato, presenti davanti ad ogni casa e in ogni angolo delle città, servono a ingraziarsi gli spiriti ‒ o pii ‒ che secondo il popolo thailandese vivono ovunque, invisibili, e devono essere tenuti buoni offrendo loro fanta, coca, frutta, patatine, fiori ecc. (anche i doni si sono adeguati ai tempi). Tiziano Terzani raccontava che quando si trasferì a Bangkok con la sua famiglia molti segnali negativi gli dimostrarono che gli spiriti non erano contenti, così dovettero ingraziarli con la visita al Buddha di smeraldo e invitando dei bonzi a “bonificare” la casa.

Le giornate a Kanchanaburi scorrono placidamente seguendo i ritmi take it easy tanto cari ai thailandesi. Sdraiata sull'amaca in bar ombrosi, sul lettino di un beauty salon sottoposta ad un massaggio alle erbe, al tavolino del bar a bere rum Sang Som e cocacola, dentro locali accoglienti ad ascoltare musica dal vivo, al centro commerciale con gli studenti in divisa dediti al karaoke, nel locale di Joe in compagnia della varia umanità dei giovani viaggiatori.
Una giornata è dedicata alla gita organizzata alle cascate di Erawan. Appena arrivati nel parco nazionale faccio amicizia con Monika, questa ragazza slovacca da tanti anni adottata dall'Italia, che non le pare vero di poter finalmente parlare italiano. Arranchiamo insieme fino al settimo salto delle cascate, incontrando nel tragitto le buffe scimmie macaco che vivono sugli alberi, quindi facciamo il bagno in una di queste piscine naturali piene di pesci che ti mangiano la pelle morta. La sensazione a prima vista è molto seccante, ma poi assolutamente imperdibile quando apprendi che questo pedicure con i pesci, definito “Terapia del Dr. Fish”, è l'ultimo grido in fatto di trattamenti di bellezza (infatti è molto costoso e si sta diffondendo in tutto il mondo). Non solo dà risultati estetici che tutti giudicano strabilianti, ma è anche un ottimo modo per curare la psoriasi e addirittura le ferite più gravi.
Dopo le cascate ci portano a fare la gita sull'elefante, poi in una grotta con statua di Buddha e infine su un treno che percorre un pezzo di "ferrovia della morte". Tornati a Kancha, Monika vuole farmi assaggiare assolutamente il durian, quel frutto gigante con la buccia piena di aculei, per il quale lei impazzisce e che puzza così tanto che è vietato portarselo dietro in autobus e in treno. A me fa effettivamente vomitare.

La casa della gioia

Vado a Sangkhlaburi, al confine con la Birmania, seguendo il consiglio di quell'inglese conosciuto l'altra sera, quello che affermava che la Thailandia ha la forma di un'ascia. La strada per arrivarci è molto panoramica, soprattutto l'ultimo tratto, quando comincia ad intravedersi questo enorme lago tra gli alberi e le montagne. Il lago fa parte del parco nazionale più vasto di tutto il Paese e per il momento posso vedere delle case che ci galleggiano dentro. Considerando che dall'acqua spuntano delle cime di albero, devo dedurre che in altre stagioni il livello del lago sia più basso di diversi metri, ma potrei anche arrivare a pensare che non ha ancora raggiunto l'altezza massima, e che comunque nel frattempo questa gente continua ad abitare nella stessa casa. Alla guest house consigliata dal tatuatore Joe è disponibile una stanza con un'incantevole vista sul lago e su tutte le nuvole, inevitabili nella stagione delle piogge ma che rendono il tutto brumoso e malinconico al livello del lago Maggiore in primavera.
Nelle vicinanze c'è un panificio, dotato di internet point, che fa capo al Baan Unrak ("La Casa della Gioia"), il centro di accoglienza per bambini orfani ed abbandonati e ragazze madri che si trova in cima alla collina. Questo me lo spiega Giulia, che è di Firenze e sta facendo due mesi di volontariato in questa remota terra piovosa. Molte persone, in particolare bambini, per sfuggire al regime birmano, passano il confine e restano in zona perché non hanno un regolare permesso d’immigrazione in Thailandia. Questo centro, fondato dall'italiana Didi alcuni anni fa, offre ospitalità a queste persone, dà loro da mangiare e un minimo di assistenza sanitaria, in una regione molto colpita da malattie come l'AIDS, la malaria e il tifo. Inoltre i bambini frequentano la scuola e le donne sono impiegate nel centro di tessitura in cui si producono sciarpe, stoffe e vestiti che sono in vendita qui. Giulia mi invita il giorno dopo al centro dove ci sarebbe stata la consueta esibizione di yoga del mercoledì, attività che, insieme alla meditazione, alla ludoterapia ecc., fa parte integrante del programma finalizzato ad uno sviluppo olistico ‒ come si dice adesso ‒ dei bambini.

Una gita poco divertente

Con la compagnia non sono stata troppo fortunata. Non solo avevo trascorso una serata tremenda con un insopportabile trio di ventenni composto da un olandese biondo che aveva preso troppo sole, un'odiosissima biondina dell'Ohio in calzoncini che se la tirava un sacco e il suo amico americano che le sbavava dietro. Ma pure la mattina dopo, avendo prenotato una gita per visitare il lago e i dintorni, mi sono ritrovata in compagnia di un gruppo organizzato proveniente da Bangkok, capitanato da una guida thailandese antipaticissima. Dopo la gita sul lago marrone, durante la quale ammiriamo il ponte di legno e il tempio sommerso (visibile interamente in gennaio e completamente sott'acqua in ottobre), il capo gita mi comunica contrito che purtroppo non sarebbe stato possibile fare la passeggiata a piedi nella foresta, a causa delle forti piogge, e dunque che devo andare sull'elefante per un'ora e mezza. Io la gita sull'elefante l'avevo già fatta e non l'avevo trovata molto divertente, quindi avevo proprio una faccia di cazzo nel video che riunisce tutti i momenti salienti della giornata con sottofondi musicali azzeccati, al quale abbiamo potuto assistere la sera a cena. Non solo nella foresta è pieno di zanzare e a tratti piove, ma devo pure condividere il posto con una neozelandese che non si capisce nulla di cosa dica, nonostante io cerchi in tutti i modi di farle capire che l'inglese non è la mia prima lingua e che deve parlare più lentamente.
Smontati dall'elefante ci danno il solito piatto di riso e pollo e ananas per dessert, che insieme all'anguria e alle banane è l'unico frutto che offrono ai turisti, nonostante l'abbondanza di frutta tropicale di cui sono provvisti. Dopo il pranzo questa guida odiosa ci fa vedere come funziona la faccenda dell'albero della gomma, che secerne un liquido bianco che loro raccolgono e poi attraverso vari passaggi in contenitori diversi viene fuori il prodotto finale, cioè un tappetino di gomma.

Al confine con il Myanmar

Il diluvio non accenna a smettere, per cui mi organizzo con ombrello e impermeabile per andare a vedere il Buddha gigante sdraiato, il Wat Somdet e il mercato. All'ora prevista vado allo spettacolo di yoga. Questo è un pomeriggio magico in cui gioco a lungo con i ragazzini prima dell'esibizione e in particolare stringo amicizia con una tipina flessuosa con la frangetta, che se ne sta tutto il tempo appollaiata sulle mie gambe a scattare impropriamente con la mia fotocamera, mentre assistiamo insieme a numerosi altri turisti alle evoluzioni acrobatiche dei nanetti birmani. La sera ceno alla guest house osservando i miei commensali, soprattutto il gruppo organizzato che ormai odio con tutto il cuore.
Al risveglio un pick up mi porta al Three Pagodas Pass, che segna il confine con il Myanmar. Avevo letto che è possibile attraversarlo per un giorno per recarsi in questa cittadina birmana ricca di negozietti e sale da tè tipiche. Purtroppo l'edizione della Lonely Planet di cui sono fornita è stata scritta più di tre anni fa e dunque scopro soltanto al mio arrivo che la frontiera ormai è chiusa: i turisti latitano, i resort che avevano costruito sono vuoti e la zona è in crisi. Mi spiega la faccenda un affabile birmano rifugiato qui che mi propone un giro in moto per vedere i dintorni; anche lui sta meditando di trasferirsi in Malesia, visto che qui non riesce a guadagnare più un bath. Solo ora capisco come mai tutti quelli a cui avevo detto che andavo al Passo delle tre pagode mi guardavano come per dire: «E che cavolo ci vai a fare?», tranne quelli che proprio me lo chiedevano: «Che cavolo ci vai a fare?»
Qui gli uomini masticano il betel, che è quella roba indiana eccitante rossa che fa sembrare a tutti che gli sia scoppiata una granata in bocca.

La città degli angeli

Dopo diverse ore di viaggio, vengo catapultata di nuovo in Khaosan Road, a Bangkok, circondata da branchi di giovani biondastri non sbarbati e con lo zaino, uomini soli a caccia di business o ragazze, disperati pieni di piercing, italiani in coppia critici su tutto. Trascorro la sera con un sosia sudafricano di Paolo Conte ad ascoltare musica dal vivo: è appena arrivato e questa volta sono io a introdurlo alle usanze locali.
Nel lungo sightseeing che mi aspetta ormai sono scaltrissima e posso rispondere con sufficienza ai personaggi che mi consigliano di andare a vedere il Marble Temple e lo Standing Buddha, o che mi danno la solita dritta dell'ufficio turistico sgamuffo; gli faccio vedere addirittura la foto, contro la quale loro non possono fare altro che ammutolire e salutare.
Giro come una trottola tra le strade di Bangkok: ci sono da visitare diversi wat, devo salire sulla Golden mountain, da cui si ammira un grandioso panorama che mescola il monumentale della città antica con il futuristico dei quartieri moderni, e mi ritrovo nel quartiere specializzato nella vendita di statue di Buddha. Con il taxi d'acqua raggiungo in un battibaleno il quartiere Siam, quello nuovo, pieno di grattacieli e centri commerciali. Qui anche solo per attraversare la strada devi servirti delle passerelle sopraelevate, che collegano tutti gli shopping center senza bisogno che tu esca all'aperto a sudare. Dopo un breve giro di Chinatown (delirio, caldo, puzza e inquinamento), eccomi al salutare Lumphini Park, accanto al quale c'è il night market, con un enorme capannone stipato di tavoloni stile Oktoberfest, dove si può mangiare, bere e naturalmente fare shopping.
Per ripararci dal consueto acquazzone, io e Monika ci rimpinziamo di ravioli al vapore e pollo al bambù in un ristorante cinese al coperto. Poi assoldiamo un tuk tuk che ci porti a Sukhumvit, nota per i templi del sesso: in realtà la noia, gli squallidi frequentatori e i prezzi europei ci fanno passare la voglia di proseguire lì la serata e dunque gettiamo soltanto qualche sguardo nei semibui locali. Al mercato è pieno di musulmani integralisti e mi chiedo come possano convivere i burqa con le tette di fuori. Al mio quartiere ci torno con un finto tassista di moto che mi fa così spaventare che gli do la metà del compenso pattuito (che lui accetta senza battere ciglio, d'altra parte).

Ogni sabato, nella periferia nord occidentale di Bangkok, si tiene il mercato galleggiante di Taling Chan. Si tratta di un posto dove fondamentalmente i thailandesi vanno a scofanarsi di pesce: il klong è affollato di barche sulle quali cucinano granchi, gamberi, molluschi, risotti e diverse altre imprecisate caterve di cibo così colorato da sembrare di plastica, mentre sul pontile sono sistemati i tavoli. Durante la gita in barca sui canali, la gente che abita in queste case di legno ci saluta dalle amache che dondolano in terrazza, i ragazzini fanno il bagno tuffandosi dalla scaletta di legno, gli altri turisti invece acquistano il "lucky bread" (che sarebbe pane in cassetta) e lo buttano in pasto ai pesci praticamente intero. Tra le tappe, c'è un ennesimo wat e un centro dove coltivano differenti tipi di orchidee.

La domenica raggiungiamo Ayutthaya, la vecchia gloriosa capitale, sostituita da Bangkok dopo essere stata spazzolata via dai birmani. Purtroppo il caldo asfissiante ha reso insopportabile il Buddha sepolto dalle radici di un albero, il Buddha gigante sdraiato, il Buddha seduto con la canottiera gialla, il laghetto, i resti degli antichi templi, i monaci, gli elefanti, il mercato, il cocco caldo. E non ho fatto altro che sognare una doccia.
La scintillante serata finale la trascorro con un imponente negro della Guyana inglese, il quale mi racconta che è in partenza per Torino, che si occupa di commercio di pietre preziose, che è esperto di gastronomia e infine che è completamente a secco di soldi (quest'ultima è effettivamente l'unica informazione credibile di tutto l'elenco). Però per fortuna gli piace il jazz: mi conduce dunque in un accogliente locale dove si ascolta ottima musica dal vivo. Qui conosciamo questi giovani thailandesi appassionati di musica, che risolvono il problema della penuria di soldi perché ci offrono prima da bere e poi persino da mangiare in un locale lì vicino. E anche questa, alla fine, è la Thailandia: un bar-karaoke dove mangiare anatra fredda cantando a squarciagola pezzi di cui non capisci una parola, insieme a uno sciroccato alto quasi due metri, proveniente da un Paese che non sai manco bene dove si trovi, brindando col Sang Som insieme a dei ragazzi ubriachi che sicuramente non rivedrai mai più.
L'ultimo giorno è identico a tutti gli ultimi giorni di tutti i viaggi, in cui l'unica incombenza è finire i soldi e riuscire a raggiungere l'aeroporto in tempo. La notte a Dubai, esauriti ormai l'entusiasmo e la vitalità iniziali, la trascorro dormendo su una sedia allungabile ricoperta della maggior parte del contenuto del mio unico bagaglio, quello a mano.

(luglio 2009)

Gallerie fotografiche

Bangkok

 

Thailandia centrale e golfo del Siam