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Bajram a Valbona

La località turistica di Valbona, nelle Alpi Albanesi, non è altro che una strada di alcuni chilometri, asfaltata da poco, circondata da meravigliose montagne. Lungo la via, a una discreta distanza l'uno dall'altro, sorgono recenti hotel di legno prefabbricati dai tetti molto spioventi, tutti identici. Poiché è più agevole raggiungerla, rispetto a Theth è una meta più gettonata per il turismo locale, persino per gite di un solo giorno.
La giornata del mio arrivo a Valbona era stata piuttosto intensa: dopo una notte da incubo nella fornace di Scutari, alle sei ero già alla ricerca del furgon per Koman, alle otto e mezza ero all'imbarcadero, la pausa pranzo l'ho trascorsa a Bajram Curri dove si crepava di caldo, e infine mi ero smazzata alcuni chilometri sulla famosa e unica strada di Valbona alla ricerca dell'ufficio del turismo. Finalmente mi sono seduta al ristorante e ho ordinato carne di capretto e agnello (la scelta non era molto vasta).
Alla fine della cena è arrivato Uwe, ringalluzzito da una tonificante serata teutonica nella guest house dall'altra parte della strada, di proprietà di una signora tedesca. Purtroppo però il suo momento di gloria è durato poco in quanto ha dovuto assistere all'ennesimo mio incontro con un albanese che vive in Italia, con cui abbiamo finito la serata. Questo verboso avventore seduto al tavolo accanto al nostro, che parlava toscano con l'accento albanese di Tropoje (la città di Sali Berisha) ci ha intrattenuto con una serie di racconti sulle sue esperienze di fanciullezza ai tempi di Hoxha: da pelle d'oca quando ha recitato il discorso che − in veste di "pioniere della rivoluzione" − doveva pronunciare ogni mattina prima dell'inizio delle lezioni: «Ero il più bravo della scuola e invitavo i miei compagni a studiare e impegnarsi» ci ha spiegato in uno scoppiettante alternarsi di “c” aspirate toscane e di “r” da polpetta in bocca tropojane. Sono passati quarant'anni e adesso vive un'altra vita, ma ancora si ricorda come un incubo il fatto che durante il regime era vietato portare pantaloni con le tasche e mettere le serrande alle finestre.
Costui risulterà un personaggio chiave nel mio viaggio, poiché grazie a lui ho scelto la tappa successiva, seguendo le indicazioni che mi ha scritto su un foglietto di carta, tra un sorso di raki e l'altro: Valbona → B. Curri; B. Curri → Gjakovë; Gjakovë → Pejë; Pejë → Bjeshkët e Rugovës.
La mattina dopo, Uwe è partito per un'escursione che lo avrebbe portato in vetta al Maja e Rosit e io me ne sono andata a camminare nella direzione opposta, dove non rischiavo di incontrare grossi dislivelli.
Al ritorno in hotel, ho incontrato nuovamente suor G. e suor A., che avevo già conosciuto a colazione. In vent'anni di permanenza in Albania ne hanno viste di cose, non posso nemmeno immaginare a quanti cambiamenti hanno assistito. «Qui per esempio» mi avevano detto la mattina davanti al cappuccino «tre anni fa c'era questo unico albergo, ed era anche più piccolo.» Adesso hanno appena finito di pranzare e mi offrono una fetta di anguria ben fresca. «Oggi è Bajram, la festa del sacrificio» mi annunciano « e si prevede grande affluenza di turisti.» E infatti molti tavoli sono occupati da famiglie alle prese con ossa di capretto e agnello da spolpare. «Noi ci siamo tolte il velo e loro se lo mettono» mi sussurrano divertite osservando alcune donne e ragazze con un fazzoletto in testa. «Devi sapere che la religione in Albania è stata crudelmente schiacciata» mi spiegano pazientemente «e gli albanesi erano terrorizzati: il regime è stato veramente il più feroce di tutto l'Est. Era vietata la propaganda religiosa, gli edifici di culto furono confiscati e usati per altri scopi, addirittura i villaggi con nomi di santi furono rinominati. Tutti avevano paura, per una parola di troppo si finiva ai lavori forzati nelle paludi vicino a Valona. E se uno scappava, tutta la famiglia pagava.»
Anche il tizio di ieri sera mi aveva parlato della crudeltà di Hoxha, che addirittura fece ammazzare persino i dirigenti di partito e i membri del suo stesso governo. Poi finalmente morì, di leucemia, e il suo delfino Ramiz Alia prudentemente propose delle riforme, che però purtroppo non bastarono a scongiurare la catastrofe.
Penso che oggi è l'8 agosto e che, esattamente ventidue anni fa, circa ventimila loro connazionali sbarcarono al porto di Bari, con la speranza di cambiare vita. La nave requisita dai disperati tornava da Cuba e non c'era stato il tempo di trasferire tutto il carico di zucchero che essa trasportava: per molti quello zucchero tenne viva la speranza in tutto il viaggio. La scena della nave carica come un formicaio nessuno la può dimenticare, soprattutto dopo che quell'evento è diventato emblematico, trasformando l'Italia da Paese di emigranti a terra promessa per gli immigrati. Da allora, a Bari si usa dire: «Vai vestito come un albanese.»

Racconto di viaggio "Il Paese di fronte e quello che non c'era"