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Aspettando l'Expo di SARAGOZZA

Da Barcellona un'autostrada deserta porta a Saragozza. Scorgo la città in lontananza come una visione, vibrante nella calura. Qui comincia la Spagna vera, la meseta, gli altopiani, l'altopiano di Castiglia, vuoto, secco, vasto come un mare.
(Cees Nooteboom, "Verso Santiago")

Sono andata a Saragozza perché era la destinazione del volo Ryan Air più a buon mercato tra quelli che partivano il venerdì pomeriggio e tornavano la domenica sera da Bergamo. Solo una volta entrata in città, ho saputo che si stava preparando ad ospitare l'Esposizione Internazionale, il cui tema sarebbe stato: Agua y Desarrollo Sostenible. A dire il vero, non mi è sembrata una città in cui solitamente l'acqua abbonda, ma d'altra parte ci sono stata soltanto un misero fine settimana in cui ha piovuto quasi sempre.
Saragozza, capoluogo dell'Aragona, conta circa 650 mila abitanti e si trova grossomodo a metà strada tra Barcellona e la costa atlantica. Dall'aereo in discesa possiamo visualizzare un territorio prima montagnoso (siamo a ridosso dei Pirenei), poi pianeggiante, polveroso e color sabbia, che ha tutta l'apparenza di essere arido e anche poco abitato. E infatti l'atterraggio vero e proprio inizia solo quando appare il fiume Ebro, su cui la città sorge.
La zona circostante un tempo era desertica ma adesso è più fertile grazie ai canali d'irrigazione: dobbiamo dedurre che si tratti di un posto scarsamente piovoso (che non è una cattiva notizia visto che da noi è un mese che piove ininterrottamente). In realtà, quelle poche piogge che si verificano a Saragozza, pare che si concentrino in primavera e nella fattispecie nel week end in questione, benché si sia trattato solo di sporadici temporali quasi caraibici, violenti ma di breve durata, il corso delle nuvole essendo rapidissimo.
L'hostal prenotato da casa si situava non lontano dal mercato centrale e aveva l'indubbio vantaggio di costare 20 euro a cranio. Al telefono aveva risposto un uomo (gentile), ma io avevo già sospettato che fosse gestito da un puttanone iberico in miniabito trasparente, falso come Giuda.

La conoscenza della città è iniziata da un bar a pochi metri dalla pensione: la spazzatura che invade tutta la base del bancone, la puzza di fritto e di sigaretta, i televisori con i video degli artisti locali, gli aseos al piano interrato e le facce espressive dei vecchi spagnoli (e ora anche dei giovani sudamericani) ci hanno dato il benvenuto, confermandoci che eravamo in Spagna.
Dopo un paio di cañas e qualche tapas (sorvoliamo sulla passione locale per la mayonesa) siamo pronti per esplorare il centro, sotto un cielo sempre più livido. Davanti alla gigantesca piazza della cattedrale di Nostra Signora del Pilar ci sono un po' di poliziotti minacciosi, le cupole sono ricoperte di mosaici di tanti colori tra cui predomina il giallo e i teloni coprono i lavori in corso; il fiume non è lontano e la brezza non lieve.
Le peregrinazioni ci portano in un locale buio e fumoso dove studenti ventenni alternativi ascoltano band locali alle prese con l'heavy metal. Con tre euro ti mettono il timbro sulla mano e puoi bere a prezzi popolari la birra nei bicchieri di plastica e fumare quanto vuoi. Poi, cercando di nascondere il timbro, entriamo in un ristorante (riconoscibile dai neon accecanti) dove ci servono dei taglieri di jamon serrano e formaggi vari con vino tinto. Subito dopo facciamo sosta in un bar minuscolo, dove siamo braccati da un'anziana autoctona che ci ricopre di insulti perché siamo smidollati che votiamo Berlusconi e le nostre città sono invase dalla spazzatura e in pratica siamo una schifezza proprio, e vabbè che la cameriera ci fa segno che la signora non è sanissima di mente ma forse non hanno mai guardato che rimmato c'è alla base dei banconi dei loro bar puzzolenti di fritto e sigarette. Delusi dall'accoglienza poco amichevole della popolazione locale, o forse lievemente brilli a causa delle cañas e le copas, crolliamo addormentati.

Appurato che la stanza si affaccia su un cantiere aperto frequentato da uomini che fanno pipì, ritorniamo al bar col rimmato per terra per ingozzarci di churros, croissant appiccicosissimi e caffé con leche.
A questo punto entriamo nel mercato, annotando che è pieno di granchioni e bacalao e pescioni e frutta all'apparenza deliziosissimi; per affettare carne e pesce usano un coltello gigantesco largo quanto la lama dell'affettatrice. La fetta di cocomero ce la mangiamo sotto alla statua di Giulio Cesare, braccio alzato mollemente in segno di vittoria (ma non altezzoso) e gambina piegata in posizione equivoca, statua che svetta trionfante fuori dal mercato e vicino alle murallas romane. Non c'è da stupirsi: l'imperatore fondò la città chiamandola Caesaraugusta e la rese uno dei centri più importanti della Spagna romana. I vecchi che passano ci guardano male: in effetti, giubbotto da albanese, scarpe anni '80, capelli unti, pantaloni della tuta con chiazze di olio e sugo di anguria che cola dal mento non depongono a nostro favore.
Passeggiando nel centro i due viaggiatori low cost osservano un'inspiegabile quantità di negozi specializzati in costumi e accessori di carnevale, cittadini in mise lussuosissime che partecipano a innumerevoli matrimoni e comunioni, il pupazzo Fluvi, l'aliena e acquosa mascotte dell'Expo di Saragozza, che saluta in forma di portachiavi, pupazzo imbottito, logo, lampada, album, zainetto ecc.
Incapaci di trovare un filo rosso a tutte queste informazioni contraddittorie, attraversiamo il puente di piedra e andiamo a pranzo dall'altra parte della città, offuscata dalla polvere color sabbia dei vari cantieri aperti. In questo ristorante spagnolo travestito da ristorante buddista mangiamo lomo di vitello e insalata, che confermano la teoria secondo la quale gli spagnoli sanno fare bene le tapas, ma per i piatti non sono molto portati.
A fine pasto un avventore attacca bottone con la scusa della Ferrari e ci illustra esaurientemente la situazione della città. — Questo Expo che sta per cominciare a giugno è paradossale — opina — perché ruota intorno alla risorsa acqua, un bene prezioso di cui questa terra non è poi così ricca, ma a sentire lo slogan sembra di essere in Scandinavia. Di soldi ne sono arrivati tanti — aggiunge — e per fortuna con una parte di essi ci hanno costruito case popolari. L'Euro ha fatto lievitare i prezzi anche qui, e il governo sfrutta gli extracomunitari (molti anche latinoamericani) che giungono con i caiccos —. Inoltre, noi sapevamo che a Saragozza c'è un importante università, ma ignoravamo che i due pilastri culturali fossero l'Accademia militare e l'Opus Dei. In sintesi è una città conservatrice e tutto sommato, chiosiamo, provinciale — tranne la movida serale, che poi è animata fondamentalmente da universitari ventenni e questo son bravi tutti. Il tipo aveva vissuto in Svizzera, ma all'epoca di Franco era tornato per fare il militare; poi aveva viaggiato un bel po' come consulente aziendale. A un certo punto interrompe il suo monologo perché deve tornare a casa dalla mamma che non sta bene.
Il pezzo forte del turismo di Saragaozza è il palazzo de La Aljafería: si tratta della residenza dei re arabi che nell'undicesimo secolo avevano conquistato la città ribattezzandola Saraqusta. È un esempio di architettura mudejar, uno stile che incorpora elementi cristiani, arabi ed ebraici e il cui nome deriva dal termine arabo Mudajjan, come venivano chiamati i musulmani che erano rimasti a vivere in Spagna nel periodo della Reconquista. Successivamente, abitarono il castello alcuni re d'Aragona nel periodo in cui il loro regno comprendeva tra gli altri territori Barcellona, la Corsica, la Sardegna, la Sicilia e in pratica tutta l'Italia meridionale. In seguito fu sede dell'Inquisizione, mentre oggi una parte del palazzo ospita le Cortes di Aragona. Fa parte del complesso la Torre del Trovatore, quel personaggio immortalato da Giuseppe Verdi nell'opera lirica omonima.
Terminata l'interessante visita culturale, ha cominciato a diluviare, ma appena il ritmo sembra calare ci avventuriamo via di lì per raggiungere la plaza de toros. Le nuvole corrono via e siamo di nuovo in zona Avenida Caesar Augusto. La serata prevede aperitivo e tapas in una sidreria basca con conversazione storico-etnografica, passeggiata senza meta fino ai limiti della città nuova e a seguire mangiata di pesce e agnello in un ristorante giallo e neon, dove gli avventori seguono l'Eurofestival alla tv, parteggiando campanilisticamente per un deficiente con il ciuffo a banana che rappresenta la Spagna nella kermesse. Purtroppo la vita mondana in quelle viuzze piene di locali, che altrove sarebbero interessanti, a Saragozza si dimostrano una delusione a causa degli studenti figli di papà che rappresentano il 90 % dei clienti.

Domenica mattina ci alziamo tardissimo, la tenutaria bussa a tutte le camere per ricordare che entro 10 minuti dobbiamo evaporare. Il cielo è cupo e, dopo i soliti churros, vorremmo vedere qualcosa di romano, però nei pressi del museo del puerto fluvial ci perdiamo nel mercato dell'antiquariato e quando ne usciamo il museo è chiuso. Siamo vicini alla Seo, la Cattedrale del Salvador, un ex Moschea che è stata così tanto modificata nei secoli che oggi si presenta come un miscuglio interessantissimo di romanico, gotico, mudéjar e barocco. A quest'ora anche la chiesa è chiusa, pare che tutti siano a casa a mangiare, o a festeggiare qualche comunione o battesimo (gli studenti invece molto probabile che dormano profondamente).
Stufi marci di Fluvi, buffet libre, articoli religiosi e nuvole, ci strafoghiamo di sardine e vino bianco. La ciliegina finale è il caffè Roma che come logo ha una cartina muta dell'Italia realizzata sicuramente da uno studente disgrafico, che invece della Sicilia e la Sardegna ha disegnato un rettangolo di fronte alla Calabria. E il caffè costa due euro e fa anche schifo.

Giunti in Italia, si presenta l'occasione di visitare Bergamo alta: possiamo così notare che è molto bella, elegante, piena di ristoranti raffinati e — grazie alla Ryan Air — pullulante di turisti.

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