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Lalibela, la Gerusalemme d'Etiopia

Non è un caso se le chiese scavate nella roccia, che fanno di Lalibela il centro religioso più importante del Paese, furono realizzate proprio in questa località sperduta nel vasto altopiano. Fu infatti per la sua posizione, più facilmente difendibile dalle incursioni arabe, che l'imperatore Lalibela nel XIII secolo scelse come nuova sede imperiale il villaggio di Roha (come si chiamava prima). Lalibela era un omone alto tipo due metri, che da subito dimostrò di essere un predestinato: ancora neonato fu ricoperto da uno sciame di api, ma rimase miracolosamente illeso. Poiché questo episodio annunciava senza ombra di dubbio che sarebbe diventato re, il fratello maggiore, piuttosto geloso, decise di vendicarsi e lo avvelenò. Lalibela, invece di morire, cadde in preda alle allucinazioni, fu condotto temporaneamente in paradiso, e lì visualizzò delle meravigliose chiese rupestri. Non appena tornato sulla terra e salito al trono, contattò immediatamente delle squadre di angeli muratori molto efficienti, che scavarono nella roccia ben dodici chiese in una sola notte: ecco qui la Gerusalemme d'Etiopia.
La visita alle chiese rupestri di Lalibela presenta subito delle difficoltà per il turista-fotografo: egli deve infatti evitare di far entrare nell'inquadratura sia le orrende e pervasive coperture protettive installate dall'UNESCO (grosse tettoie mantenute da giganteschi pali d'acciaio), sia le relative ombre che la luce del sole stampa dappertutto.
Anche il turista non fotografo incontra degli ostacoli: i tappeti su cui camminerà dentro le chiese sono pieni di pulci ed è obbligato a togliersi le scarpe prima di entrare; inoltre durante la visita deve fare i conti con una folla lacera di centinaia e centinaia di pellegrini, accorsi da ogni dove e accampati in ogni angolo del villaggio. Il visitatore, mentre percorre il dedalo di gallerie, passaggi e cunicoli che collegano tra loro gli edifici, è circondato da fedeli che pregano, leggono, battono le mani, dipanano matasse, ridono; mentre attraversa le trincee per andare da una chiesa all'altra, sente un canto sommesso echeggiare tra la folla e ogni tanto gli acutissimi urli di esultanza (lo zagharid tipico dei Paesi arabi) lanciati dalle donne. Il visitatore non comprende tutto quello che vede e sente.
A Lalibela, il giorno di san Giorgio, il turista-fotografo rischia di scattare un migliaio di foto, di cui una buona parte alla chiesa di San Giorgio (che oltretutto è priva di coperture UNESCO). La Chiesa di San Giorgio è scavata nella roccia. Ma non è scavata in orizzontale; la chiesa di San Giorgio è una voragine nel terreno riempita di una chiesa con la pianta a forma di croce. Mentre il turista-fotografo si avvicina alla chiesa di San Giorgio vede una croce di pietra gigantesca, circondata da un buco: quella croce è la chiesa. Ma non è la chiesa che fa impazzire il turista-fotografo: è il buco, ripieno di centinaia e centinaia di pellegrini. Essi sono vestiti esattamente come nella Bibbia: tuniche e turbanti e bastoni di legno nelle mani rugose e libri delle preghiere vecchi mille anni nelle mani. Non solo: alcuni hanno tamburi e sistri e scacciamosche di crine di cavallo e ombrelli di velluto gialli rossi verdi blu e dorati. Il turista-fotografo dovunque rivolge l'obiettivo vede la foto perfetta. E tutti questi soggetti lo pregano addirittura di fotografarli.
L'unico dettaglio che al turista-fotografo non torna sono le scarpe: scarpe di plastica giallina a forma di sandalo, a forma di scarpa da ginnastica nike, a forma di mocassino, a forma di ciabatta. A forma. Ma di plastica giallina. Il turista-fotografo, per non rovinare l'incantesimo, cerca di fotografare solo quelli scalzi (che comunque sono la maggioranza).
Passeggio da sola tra le strade di Lalibela. Tutti mi fissano e bisbigliano qualcosa. Tutti vogliono sapere: «Where you go. What you want.»
I giovanissimi del luogo si presentano al solito modo accattivante: «Mother father dead.» Tirano fuori il quaderno dei compiti. Dicono: «Io sono molto bravo. La mia materia preferita è: Matematica.» Aggiungono: «In Etiopia i libri costano molto.» Aha. «Non tutti i ragazzi hanno i libri per la scuola.» Aha. «Dammi i soldi per comprare i libri. No? Allora una penna. Colleziono monete.»
Mi affaccio a curiosare in alcuni negozietti di souvenir tutti uguali. Faccio l'errore di interessarmi qualche secondo più del dovuto a degli immettibili orecchini. Tempo cinque minuti, tutta la popolazione di Lalibela sa che voglio degli orecchini. Almeno dieci persone vogliono vendermi degli orecchini identici a quelli immettibili di prima.
Quanto costa questo oggetto? «Trecento, però se vieni a cena con me stasera te lo regalo.»
Nel negozio di parrucchiere ci sono tre ragazze che spettegolano. Mi affaccio a guardare con un sorriso. Mi vogliono spinzettare le sopracciglia. Rifiuto cortesemente con un sorriso. Tre mani tese: «Money, food, t-shirt.»
Compro un oggetto in legno dipinto. La titolare non è affabile e si rifiuta del tutto di contrattare.
Negoziante coi dread: «Stasera ci divertiamo, abbiamo relax insieme, tu piacere uomini di qua.»
La sera, mentre sto precariamente seduta su una tavoletta del cesso rotta, mi ricordo che il biglietto di ingresso alle chiese rupestri l'ho pagato 50 dollari (pari a un settimo del PIL pro capite annuale dell'Etiopia) e quindi che cavolo mi aspettavo.

Racconto di viaggio "AFRICA IN POLVERE. Esplorando l'Etiopia del Nord" 

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