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Erzegovina: la terra del Duca

Per visitare le principali attrazioni dell'Erzegovina ho prenotato un'escursione organizzata di un giorno. Alla guida c'è Dario, un pacioccone di circa quarant'anni che non sta zitto un momento. Poco dopo aver lasciato Mostar, ci comunica che tutte quelle bandiere con lo scacchiere che vediamo in giro sono del popolo croato in BiH e ci dovrebbero suggerire che attualmente esso rappresenta il gruppo etnico maggioritario da queste parti. La bandiera effettivamente è l'unica cosa – insieme alla Chiesa cattolica – che è rimasta ai croati dell'Erzegovina, dopo che gli hanno tolto la kuna, le targhe automobilistiche con lo scacchiere e prima ancora, naturalmente, l'annessione stessa alla Croazia.
Mentre procediamo verso sud, la nostra guida ci offre qualche delucidazione storica sull'Erzegovina, informandoci che inizialmente era abitata da popolazioni illiriche, poi fece parte della Dalmazia sotto i Romani, quindi fu slavizzata da tribù croate e successivamente soggetta ai principi di Serbia, finché nel 1377 non fu sottomessa definitivamente al dominio del re di Bosnia Stefan Tvrtko I Kotromanic. Dario trova molto divertente scherzare sull'impronunciabilità del nome di questo re, il quale combatté a lungo contro l'invasione dell'Impero Ottomano e addirittura partecipò alla storica battaglia della Piana dei Merli. Quando passa a parlare di suo figlio, Tvrtko II Tvrtković, ci sfida a ripetere correttamente queste due parole piene di consonanti, ma né io, né il ragazzo uruguayano, né la canadese di Toronto, né tanto meno la neozelandese che vive a Londra ci riusciamo, facendo salire alle stelle l'ilarità di Dario.
Il nome della regione – ci svela Dario quando siamo ormai giunti a Blagaj – deriva dal nobile Stjepan Vukčić, che in un documento ufficiale si autodefinì Herzog (“duca d'armata”, in alto tedesco antico) di San Sava: in cima alla collina rocciosa che vediamo dal parcheggio è situata la sua antica fortezza. Nel 1482 suo figlio fu sconfitto dalle truppe dell'impero turco e quindi l'Erzegovina diventò una provincia ottomana nello stato della Bosnia. Uno dei capolavori dell'architettura di cui da queste parti vanno più fieri è appunto il Tekija di Blagaj, un monastero derviscio in legno e muratura costruito nel sedicesimo secolo nei pressi della sorgente del fiume Buna. Il posto fu scelto dal sultano per la straordinaria bellezza dello scenario fluviale e ancora oggi le alte pareti rocciose, lo smeraldo del Buna e la grotta fanno da fresca e piacevole cornice a questo luogo mistico, che continua ad essere un importante luogo di pellegrinaggio. Qui possiamo entrare solo se ci togliamo le scarpe e ci copriamo i capelli con un fazzoletto, per ammirare le tombe di due importanti dervisci, il salotto affacciato sulla sorgente, l'hammam, la camera della preghiera con i soffitti di legno intarsiato.
Ci dirigiamo dunque verso la tappa successiva: il monastero ortodosso di Žitomislići, risalente anch'esso al sedicesimo secolo. Mentre intorno a noi scorrono ordinati filari di vigneti e frutteti, Dario ci racconta che durante la guerra tutta la sua famiglia (mamma serba e papà croato) era sfollata in un piccolo villaggio, dove lui veniva picchiato a causa del suo cognome. Oggi suo padre è morto e, anche se lui è ateo, appartiene al gruppo dei serbi-ortodossi. Apprendiamo che nel 1941 il Monastero fu saccheggiato e incendiato dagli Ustascia, mentre cinquant'anni dopo la storia sembrò ripetersi quando i croati dell'Erzeg-Bosnia si dedicarono alacremente alla missione di distruggerlo una volta per tutte, massacrando tutti i monaci. Per fortuna oggi non si nota alcuna traccia né dei saccheggi né degli eccidi, poiché il monastero è stato perfettamente restaurato.
Segue, immancabile, la sosta alla città-fortezza di Počitelj, che domina la valle della Neretva. Giunti lì il programma solitamente prevede che ci si arrampichi fino al castello medievale per ammirarne l'eccezionale integrità giunta fino a noi, tuttavia – vista l'afa insostenibile – preferisco restare all'ombra di un gazebo ad assaporare la frutta fresca per cui la località è famosa (che mi viene, ahimè, venduta a prezzi finlandesi).
E infine il pezzo forte, la “perla” dell'Erzegovina tour, che ci attende dopo aver imboccato la strada verso occidente: le cascate di Kravice, una meraviglia della natura creata dal fiume Trebižat. Mentre ci incamminiamo dal parcheggio, dall'alto appare inaspettato questo anfiteatro d'acqua di 120 metri, circondato dalla vegetazione rigogliosa. Qui possiamo coraggiosamente tentare un bagno nelle gelide acque o una doccia refrigerante sotto ai muri d'acqua, sorseggiare qualche bibita sotto l'ombrellone e farci i selfie come tutti gli altri turisti.
Sulla via del ritorno passiamo vicino alla celebre Medjugorje, che completa il quadro multireligioso dell'area. Poiché non è compresa nel nostro tour, Dario vi fa soltanto un rapido cenno, ricordandoci che l'apparizione della vergine Maria nel 1981 ha trasformato un piccolo e anonimo villaggio in una più che fiorente località turistica, visitata ogni anno da più di un milione di pellegrini da tutto il mondo.
All'epoca Tito era morto solo da un anno, il nazionalismo stava riprendendo piede nel Paese e il capo dei Francescani locali fu bravissimo a sfruttare il simbolismo di questo santuario in evidente contrasto con il governo della Jugoslavia comunista. Durante la guerra, Medjugorje entrò a far parte dell'Erzeg-Bosnia, continuando ad ospitare sia i pellegrini sia i membri della comunità internazionale. L'ordine francescano permetteva alla milizia locale di usare la collina delle apparizioni (di sua proprietà) per testare i lanciagranate e questa simpatia per l'esercito della Repubblica Croata dell'Erzeg-Bosnia era affettuosamente ricambiata, visto che i combattenti dell'HVO – tra una bastonata e uno stupro all'interno dei vicini campi di concentramento – venivano qui a pregare.
Dietro la collina di Medjugorje, nei pressi di Šurmanci, c'è la foiba dove nel 1941 gli uomini di Ante Pavelić trucidarono e gettarono più di cinquecento civili serbi, ma Dario – probabilmente per non rovinare la pacifica e gioiosa atmosfera multiculturale – non la menziona, così come non ci parla dei cinque campi di detenzione operanti qui dal 1993, dove prigionieri serbi e bosniaci furono tenuti in condizioni disumane, torturati e uccisi, secondo il piano di pulizia etnica voluto dall'HVO. Il campo di Heliodrom, ad esempio, si trovava a Rodoč (qualche chilometro a sud di Mostar), quello di Dretelj era a pochi passi da Počitelj e gli altri (i campi di Ljubuški, Gabela e Vojno) erano tutti non molto lontani dal nostro itinerario odierno.

Racconto di viaggio "NEL CUORE DEI BALCANI. Esercizi di memoria tra Mostar e Sarajevo"