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Argentina Norte

Il trasferimento nel nord ovest avviene con un bus notturno semi-cama (ossia quasi-letto, ossia molto comodo), con sandwich, merendina, "Superman" e "Titanic" inclusi nel prezzo, che parte a Resistencia e arriva a Güemes alle 5 di mattina. Da qui un altro bus mi conduce a San Salvador de Jujuy, capoluogo della provincia omonima, dove fa un freddo cane, le donne vendono tè bollente e mi si rompono i sandali.
La piazza principale è di forma quadrata e la cattedrale è dotata di un fantastico pulpito in legno. Dopo la notte in autobus mi ristoro alle Termas de Reyes, dove colgo l'occasione per rilassarmi con un massaggio "Armonia e raggi di sole". Chiacchierando nell'atrio, una coppia di Buenos Aires mi svela che tutti gli argentini di pelle bianca sono o italiani o spagnoli.
Mi trovo nella provincia di Jujuy, la più nord-orientale di tutta l'Argentina, e mi sto inoltrando nella Quebrada di Humahuaca, un canyon lungo più di 150 km scavato dal Rio Grande, storico asse di collegamento tra le pianure meridionali e le Ande.
La prima sosta avviene a Tumbaya, dove c'è una delle tante deliziose cappelle risalenti al Seicento (in questo caso dipinta di giallo intenso e dalle forme semplici e arrotondate), che contiene un Cristo crocifisso che indossa una gonna di pizzo. Un passante in bicicletta mi racconta che il giorno della Domenica delle Palme il paese, che normalmente conta 600 anime, si affolla fino a raggiungere circa trentamila presenze. La fede cattolica è molto sentita e c'è un nutrito calendario di festività religiose, che in questa provincia convivono naturalmente con le antiche tradizioni dei popoli andini. A Maimara si ammira la "tavolozza del pittore", una curiosa conformazione di rocce con colori che vanno dal rosso scuro al giallo, e c'è un cimitero abbarbicato sul fianco della montagna, con le tipiche corone di coloratissimi fiori finti appese alle croci bianche sparse disordinatamente. A Tilcara c'è il pucarà, il villaggio fortificato abitato già nel periodo pre-incaico e poi fino alla definitiva occupazione spagnola: questi popoli coltivavano mais e patate e allevavano lama, vigogne e alpaca. Bevo una gustosa birra blanca e acquisto cappello e sciarpa di lana per affrontare i rigori del clima andino.
Infine a Humahuaca mi aspetta un hotel senza riscaldamento, dotato di un lugubre corridoio che potrebbe benissimo condurre alla cella della morte. Di fronte c'è una scuola elementare dove i bimbi entrano alle 8, cantano e recitano poesie per mezz'ora, ed escono alle 18, dopo aver cantato e recitato poesie per un'altra mezz'ora. Il paese è pieno di turisti fricchettoni e infestato da bambini che, con la scusa che oggi è il Dìa del niño, ci sciorinano poesiole in cambio di propina. Per il momento sono indenne dal tipico mal di testa da alta quota e mi posso liberamente ingozzare di picante de mondongo (trippa), locro (una zuppa di mais, cipolle, carne e legumi), carne di lama e capretto.
Attraverso rossi scenari montagnosi oggi raggiungo la vicina Bolivia. Effettuata una sosta ad Abra Pampa per il pranzo (polvere e desolazione), arrivo a La Quiaca, distante 5121 km da Ushuaia, estremo sud dello stesso Paese infinitamente largo (cioè lungo) ed estremo sud di tutte le terre emerse del mondo. Qui c'è la frontiera con la Bolivia per giungere a Villazon, dove mi incammino insieme a decine di persone cariche di sacchi di merce, proteggendomi dal vento, dalla polvere e dal fumo di copertoni bruciati da alcuni manifestanti. La confusione e i colori di questa cittadina boliviana sono abbaglianti.
Tornata in Argentina, per la cena e la notte raggiungo Yavi, sede dell'unico marchesato della provincia, ricordato con un museo che visito insieme alla iglesia. Nell'hostal bevo vino tinto davanti al camino ma l'altitudine comincia a procurarmi mal di testa e difficoltà respiratorie. Dopo cena chiacchiero con degli italiani che sono in viaggio con le loro enormi jeep superaccessoriate imbarcate dall'Italia.
Rientrata nella ormai nota Quebrada di Humahuaca, faccio sosta a Uquia (dove sorge la chiesetta di San Francesco), attraverso il Tropico del Capricorno a Huacalera (segnalato da cippo e vela di pietra) e arrivo a Purmamarca, dove si affaccia la montagna dai sette colori. Tutto mi ricorda che la Quebrada è inserita da poco nel Patrimonio dell'umanità: bustine di zucchero, di shampoo, di cuffie da bagno. Questo riconoscimento ha apportato denari utili a risollevare il paese dove infatti si costruiscono case a più non posso, con i tetti in canne di bambù raccolte dalla strada adiacente e legate una per una con filo di ferro. L'hotel tutto rosa è molto confortevole e il freddo intenso.
Apprendo che il cerro de los sietes colores, davanti al quale sono alloggiata, ha acquisito queste splendide sfumature poiché le montagne contengono notevoli quantità di ferro, zolfo, rame e altri minerali; ma invece di andarlo a toccare compiendo la "passeggiata dei colori" preferisco andare ad acquistare tappeti colorati nelle botteghe artigianali.

Abbandono per sempre la Quebrada e procedo attraverso la puna andina verso le Salinas Grandes, abbaglianti come un campo da sci. Il ristorante tutto di sale (tavoli, sedie, pareti) è chiuso perché, secondo l'autista, «quelli non hanno gana de trabajar». Gli scultori di statue di sale fanno una pausa per partecipare a una mitica partita di pallone Italia-Argentina a quasi 4000 metri di altura, che vede la vittoria degli indigeni sicuramente perché gli italiani non sono avvezzi a questa altitudine.
Mi rimetto sulla strada perché mi aspettano tre ore di sterrato polveroso per giungere a San Antonio de los Cobres (che sarebbe il rame). Il paese è desolato e polveroso, i pochi abitanti quechua sembra che non se la passino tanto bene, l'unico riferimento politico alla distantissima capitale te lo ricordano i graffiti elettorali sui muri. L'hotel è veramente un'isola di tepore e bellezza: riscaldato dal camino, arredato con gran gusto e dotato di uno chef simpatico e creativo. Il mal d'altura continua nonostante l'infuso di foglie di coca.
Per raggiungere Salta, compio a ritroso l'itinerario del treno delle nubi, che quando funziona collega Salta a San Antonio attraverso la Quebrada del Toro. Il paesaggio comincia a mutare radicalmente: verde, mucche al pascolo, grandi fattorie. Ed ecco la grande città, dove la sera fino a tardi c'è gente, negozi aperti, bancarelle, locali, pop corn, noccioline, cd taroccati, zucchero filato.
A Salta sono presenti numerose testimonianze storiche risalenti all'epoca coloniale. Nella piazza principale si erge la cattedrale dove, al termine della messa, ha luogo una cerimonia in onore della vergine di Urkupiña, la Madonna dell'Assunzione nella cultura boliviana. La chiesa di San Francisco invece — realizzata da un architetto italiano praticamente ubriaco — è rossa e dorata. Il cabildo è un edificio che risale al periodo coloniale ma fu restaurato a fine '800 per combattere l'eccessiva europeizzazione architettonica della città; oggi ospita il museo storico, dedicato alla storia della regione e di Salta stessa, caratterizzata da splendidi portoni, balconi, case antiche.
Al mercato artigianale trovo la solita paccottiglia di presepi, scialli, terrecotte, bamboline; ne approfitto allora per pranzare al sole con humitas e tamales, pacchettini avvolti in foglie di granturco e ripieni di composti a base di farina di granturco (choclo), formaggio, prosciutto, carne (insieme alle empanadas sono il mio pranzo più comune). Nel primo pomeriggio imito le abitudini locali andando a fare la siesta: la città è calda e deserta. Esco giusto in tempo per raggiungere la teleferica che porta sul cerro San Bernardo e trovarla bloccata, con i poveri sfortunati che penzolano rinchiusi in quelle gabbiette sospese. Panorama strepitoso su tutta la città che da lassù sembra la Springfield dei Simpson.
Il mercato coperto alle nove di sera è tutto un casino di ragazzi che mangiano la pizza, casalinghe che comprano salsicce, uomini soli che guardano la partita in una delle decine di tv sintonizzate sul campionato di calcio. Buster Keaton mi serve picante de mondongo al tavolino nel cuore del reparto macelleria: maiali interi appesi ai ganci incombono su di me.

Le ultime tappe prima di tornare al capolinea sono frenetiche. Prima di tutto lascio con rammarico questa città davvero linda e attraverso il Parco Los Cardones, pieno di questi giganteschi cactus a forma di enormi mani col dito medio puntato verso la volta celeste.
Percorrendo il rettilineo di origine incaica denominato ruta Tin Tin e poi vari sterrati, giungo in questo piccolo centro affollato di turisti: Cachi. Una visita della chiesa mi permette di ammirare suppellettili, cornici, confessionali, tutti realizzati in legno di cactus. Quindi seguo un cane nero che mi conduce di sua iniziativa al cimitero: le croci, i fiori e i cuori sono accampati in cima a una collinetta, circondati da magnifiche montagne in quel momento dorate dal tramonto. In ostello si rompe la caldaia e fa un freddo cane. Concludo la serata con caffè correttio in un bar affollato di turisti americani e italiani (anche perché è l'unico bar).
Per arrivare a Cafayate, città di vino e cantine, bisogna percorrere molte strade dissestate attraverso le valli Calciques, abitate all'epoca da fieri oppositori degli spagnoli conquistatori. Poi è d'obbligo la sosta in una bodega a degustare vino, e irrinunciabile la visita alla meravigliosa quebrada di Cafayate tra favolose montagne rosse di arenaria tutte da scalare, rocce a forma di castelli, frati, rospi, gole del diavolo e anfiteatri.
A cena piano-bar con applauso a ogni gruppo di commensali provenienti da Rosario, Buenos Aires, Cordoba, ITALIA (campioni del mondo). Però oggi, dopo diversi giorni di cd in bus, chiedo con vigore: Piffero, pietà!
Il "Gelato Miranda" è citato da tutte le guide del mondo per il suo gelato al vino e infatti ne approfitta per venderlo a prezzi europei; in gelateria incappo in un ennesimo gruppo di oriundi italiani che hanno attività ben avviate e ci riferiscono dei loro parenti di Milano, Firenze, Calabria.
Ad Amaicha del Valle ci sono le ruinas di Quilmes, un insediamento precedente all'arrivo degli Incas, di cui rimangono mortai, muri perimetrali, punti di osservazione panoramici da cui guardare i cactus a perdita d'occhio. E inoltre è presente il museo della Madre Terra (Pachamama), un altro culto tipico della cultura andina, a cui sono dedicate feste e cerimonie di offerta. Qui osservo le ricostruzioni di come si viveva anticamente nelle quebradas e passeggio tra enormi statue che fanno rivivere le icone di antiche culture indigene.
Dopo un pranzo con tempi d'attesa biblici, per ricevere poi le solite empanadas e milanesas di pollo, sosta nella località denominata El Infiernillo a 3000 metri di altitudine, con lama paciosi messi lì dalla proloco per farceli fotografare. Passerò la notte a Tafi del Valle, la località di villeggiatura dei cittadini di San Miguel de Tucumán, che così sfuggono al caldo estivo. Ora però è inverno e non c'è nessuno e la piscina è vuota. Fuori stagione anche i ristoranti, di solito così affollati che sottolineano a grandi lettere stampate quanto sia importante la pazienza quando aspetti da mangiare, sono semivuoti; e meno male che c'è il mago Harry che mi intrattiene con qualche gioco di prestigio.
San Miguel de Tucumán è l'ultima tappa prima del rientro a Buenos Aires. Tucumán è una grande città, di pomeriggio affollata di studentesse in divisa scolastica che prevede sempre una minigonna, anche per le ciccione. Presso la Casa dell'Indipendenza mi viene illustrato il cammino storico che ha portato alla nascita dello Stato argentino: dalla conquista spagnola del 1536 al vicereame del Rio de la Plata (creato nel 1776 dalla Spagna e che comprendeva anche Paraguay, Uruguay e Bolivia), alle prime aspirazioni all'indipendenza che maturarono in età napoleonica. L'indipendenza fu proclamata ufficialmente in questo edificio in occasione del Congresso di Tucumán, il 9 luglio 1816.
Nel resto del pomeriggio la sottoscritta decide di varcare la soglia di una peluqueria dopo ben 17 anni, sfoggiando al termine dell'operazione un taglio sbarazzino.

Racconto di viaggio"UN PUNTO DI VISTA AUSTRALE. VIAGGIO NELL'ARGENTINA DEL NORD"