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Chiapas: i casi della vita

Quante probabilità ci sono che tu possa incontrare, in un paese lontano migliaia di chilometri dall'Italia, qualcuno che conosci, almeno di vista? È un caso se nella chiesa di San Juan De Chamula, piena come un uovo, buia, sinistra e annebbiata dall'incenso, mi sia ritrovata gomito a gomito con Tiziano, abitante della stessa cittadina dove ho vissuto tre anni e partito insieme ad un mio ex collega che in quel momento si trovava, per la precisione, a Playa del Carmen, insieme alla moglie e alla suocera? Devo trovare una giustificazione nel fatto che a San Cristóbal de Las Casas c'erano molte altre persone che avrei potuto conoscere, visto che nel periodo natalizio il Chiapas è una meta molto gettonata? Devo pensare che io e Tiziano ci siamo rivolti la parola perché in qualche modo ci siamo riconosciuti?
Fatto sta che sono andata proprio a quell'ora nella chiesa sincretica di San Juan, quindi calpestando gli aghi di pino di cui il pavimento è ricoperto e cercando di evitare le centinaia di candele poggiate per terra, mi sono messa ad ascoltare lo stesso indigeno tzotzil ubriaco con cui stava parlando Tiziano e insieme abbiamo accettato un bicchiere di posh, l'acquavite locale che cura tutte le malattie. In quel momento già c'erano troppe cose che non quadravano: il pulviscolo nelle lame di luce che provenivano dalle finestre in alto, le girandole di neon con la musica, i sonori rutti al gusto di cocacola, le statue di santi con uno specchio al collo, la curandera che tirava il collo al gallo per guarire un bambino malato. E non ho avuto nemmeno il tempo di sorprendermi che il posh ha trasferito la realtà ai confini del sogno.
Fuori, sotto il sole, le gonne e i gilet di lana a ciuffi paiono fuori luogo e i cappelli con i nastri colorati indossati dai nuovi encargos fanno un po' ridere. La chiesa di San Juan si staglia bianca contro il cielo bluissimo, con i suoi bordi dipinti di verde e i bassorilievi a forma di fiori.
All'ingresso del vicino villaggio di San Lorenzo Zinacantan, una bambina ci conduce nella sua casa-atelier dove sono in vendita tessuti e abiti; la mamma ci mostra come funziona il telaio a mano, poi accettiamo le tortillas cotte su una piastra e la birra Corona e infine lasciamo loro alcuni spiccioli.
Da lì ci spostiamo verso la chiesa: a quanto pare, pure a Zinacantan i riti religiosi sono una scusa per bere l'impossibile. Chi si è portato avanti col lavoro già dorme sulle panche, altri tracannano il posh (anche io e Tiziano abbiamo accettato un altro bicchierino), altri ancora ballano: qui indossano tutti la stessa camicia ricamata a fiori di colori sgargianti, mentre i pezzi grossi sono intabarrati in pesanti sai neri e in testa portano dei turbantini rossi. Nel frattempo hanno iniziato a suonare (tromba, trombone, percussioni), e sono arrivati altri turisti che si sono uniti alla festa.
Mentre i maschi se la spassano a modo loro, le donne (anch'esse con scialletti dello stesso identico allegro tessuto fiorato) siedono pazientemente fuori dalla chiesa accanto ai thermos e alle ceste piene del cibo che attende di essere mangiato, e i bambini e le bambine (vestiti con le stesse camicie e gli stessi scialletti) corrono e giocano per le strade. Quando lasciamo il villaggio, gli uomini si stanno divertendo un mondo a far scoppiare micidiali mortaretti.

Racconto di viaggio "VADO AL MASSIMO, VADO IN MESSICO"