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Bangkok: pericoli e contrattempi

Il mio arrivo a Bangkok è praticamente identico all'arrivo di Leonardo DiCaprio nel film “The Beach”, con la differenza che nessuno mi offre sangue di serpente da bere e che nella camera accanto alla mia non c'è nessuno che fa sesso. Anche perché al quinto piano di questa guest house, che è la fotocopia di quella del film, ci sono soltanto camere singole ed è espressamente vietato l'ingresso ad estranei (in particolare ‒ si precisa ‒ alle prostitute). Mi sono stabilita anch'io in Khaosan Road, il ghetto dei backpacker mondiali di passaggio a Bangkok. Per le esigenze dei viaggiatori stanchi e straniti o dei nuovi arrivati come me è un posto più addomesticato rispetto al resto della città, ossia è uguale a tutte le località per turisti del mondo: una folta offerta di accomodation e locali, bancarelle, minimarket e internet point affollati di giovani che parlano tramite Skype con fidanzati o parenti, o che scrivono su Facebook che stanno a Bangkok e hanno accarezzato una tigre, che hanno rischiato un incidente in pulmino e piove sempre.
Dopo un'indispensabile doccia, come prima cosa mi tolgo le scarpe e varco la porta di un centro massaggi per fare la conoscenza con il famoso thai massage: un'esperienza sublime che ripeterò con una spaventosa frequenza. Allo scadere di un'ora sotto le sapienti mani della massaggiatrice mi siedo a un tavolino e ordino alla donna che cucina con il wok un piatto di noodles alle verdure e pesce. Dal banco di fronte compro la prima birra, la Singha (che in seguito verrà scalzata dalle mie preferenze quando assaggerò la Leo). A quell'ora gli avventori non sono tanti e dunque un neozelandese di origine turca, proprietario di un ristorante italiano ad Auckland, attacca inevitabilmente bottone con me, introducendomi nelle usanze cittadine e dilungandosi nel corso delle due ore trascorse insieme sulle pietanze italiane nella cui preparazione lui eccelle. Nonostante sia di una rara bruttezza, ci prova anche a chiedermi di rivederci, sottintendendo un possibile sviluppo sentimentale, ma viene prontamente fulminato dal mio sguardo schifato.

Sulla Lonely Planet c'è sempre un capitolo che si intitola “Pericoli e contrattempi", ma io non lo leggo mai in anticipo altrimenti mi rovino la sorpresa. A Bangkok ad esempio l'ho letto solo dopo l'esperienza che mi è accaduta il primo giorno di viaggio.
L'innocente truffa funziona così. In alcuni templi ti si avvicinano delle persone amichevoli e colte che ti consigliano di andare a visitare dei luoghi interessanti e meno battuti dai turisti. En passant ti indirizzano verso quello che loro definiscono l'ufficio del turismo, per ricevere indicazioni e organizzare al meglio il viaggio. In realtà questo ufficio non è altro che un'agenzia viaggi come mille altre (che però vende pacchetti molto più costosi della norma), da cui questi personaggi ricevono una percentuale.
Per compiere questo stravagante tour, la donna che ho incontrato io mi ha detto che bastava fermare un tuk tuk e dargli l'equivalente di un euro (con cui un normale tuk tuk di Bangkok non ti faceva fare manco un chilometro, figuriamoci un tour di tre ore con varie soste).
Curiosa di conoscere i meccanismi della faccenda e comunque alle 14 del mio primo giorno in una metropoli sconosciuta che stava covando un temporale con i controfiocchi, mi sono imbarcata sul tuk tuk munita del foglietto thai-english accuratamente compilato dalla gentilissima signora di Chiang Mai. Nel primo tempio un tale ha cercato in tutti i modi di terrorizzarmi elencandomi gli innumerevoli furti, rapimenti e assassinii che avvengono ogni anno e mi ha consigliato caldamente di rivolgermi all'ufficio turistico per prenotare un pacchetto. Di fronte al mio sprezzante disinteresse, prima si è spazientito, ma poi, con una metaforica capriola acrobatica, si è qualificato come professore universitario e mi ha invitata a cena. Ho rifiutato cortesemente e ho salutato, meditando sulle curiose abitudini locali.
Pensando che il guidatore del tuk tuk ci avrebbe spuntato qualche baht, mi sono fatta comunque accompagnare al cosiddetto ufficio del turismo, dove un distinto signore mi ha proposto istantaneamente un pacchetto di 21 giorni in Thailandia a “soli” 800 euro. Quando ho cercato di spiegargli che non era il mio genere di vacanza, l'ex gentile impiegato si è alzato in piedi, mi ha deriso con i suoi colleghi sicuramente riferendosi al mio status di saccopelista spiantata e urlando mi ha indicato la porta. Il giro è proseguito con la visita del Marble Temple e dello Standing Buddha. Nel frattempo aveva cominciato a diluviare a secchiate e dunque ho benedetto la santa donna che, in cambio di un vaffanculo a me indirizzato da un impiegato di agenzia viaggi ladra, mi aveva offerto un confortevole giro turistico di due ore al riparo dalla pioggia. Alla fine il povero guidatore ‒ che non parlava inglese se non per una serie di frasi standard che leggeva da un taccuino ‒ mi ha fatto scendere alla fermata del battello sul Chao Phraya, in pratica alle spalle della mia guest house.

Grazie a circostanze fortunate, alle dieci della mattina seguente sono già pronta per partire alla volta delle attrazioni più famose di Bangkok: il Wat Phra Kaew con il Buddha di smeraldo, il palazzo reale, il Wat Pho con il gigantesco Buddha sdraiato e il Wat Arun (il "tempio dell'alba" con la torre in stile khmer). I suddetti monumenti sono davvero ammirevoli, anche se un essere umano innocente dovrebbe avere il diritto di goderne senza sudare così copiosamente e senza rischiare così di frequente un collasso durante quel continuo togliersi e mettersi le scarpe fuori dai luoghi sacri. Così torno in Khao San con il servizio di battelli long-tail, che mi sembra un modo molto più fresco e arioso di viaggiare rispetto al camminare sui marciapiedi roventi.

Racconto di viaggio "LA 'SPIAGGIA' NON ESISTE. La calda estate della Thailandia centrale"