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L'isola che non c'è niente

Arcipelago delle Dahlak

Alle nove del mattino siamo tutti pronti sul piccolo molo del Grand hotel Dahlak ad aspettare la barca che ci condurrà nel paradiso incontaminato delle isole Dahlak. Tuttavia, in perfetto stile africano, per circa quattro ore nulla accade, il tempo passa e il nostro entusiasmo iniziale scema gradualmente. Finalmente arriva l'imbarcazione insieme ai tre marinai della Dancalia che costituiscono il nostro equipaggio, i quali di primo acchito ci sembrano un po' recalcitranti, come se fossero stati portati lì con la coercizione. Caricata tutta la mercanzia a bordo e azionati i motori, dobbiamo consegnare i consueti permessi ad un addetto che dovrebbe stazionare in un ufficetto presso il faro, ma che bisogna naturalmente andare a chiamare perché si è allontanato. Una volta lasciato il porto, non si vede altro che il vasto, monotono mare (solo per un attimo, in lontananza, qualche delfino). Circa un'ora e mezza dopo avvistiamo una striscia di terra e poco dopo realizziamo che questa isola piattissima di nome Dahret sarà il posto dove trascorreremo quasi quattro giorni.
Scaricate tutte le nostre cose, mi tuffo con slancio tipicamente meridionale ad esplorare i fondali a pochi metri dalla costa. La giornata è splendida, ma abbiamo poco tempo prima che il sole invernale, e di conseguenza le temperature, comincino a calare. Non c'è fretta, ci aspettano altri tre giorni pieni – mi dico. E invece la sera si alza il vento, durante la notte gocce di pioggia picchiettano sulla tenda e il giorno dopo restiamo bloccati come naufraghi sotto una poco allegra coltre di nubi. Il mare è agitato, il periplo dell'isola a piedi dura appena una mezz'ora e comunque non c'è nulla, non dico le palme (che qua non è zona), ma nemmeno un albero, solo arbusti bassi. L'avifauna non è niente di speciale e anche le albe e i tramonti non mozzano il fiato. La delusione si dipinge sul volto di chi non si è portato niente da leggere. Io e l'altro partecipante che abbiamo il Kindle non abbiamo nulla da temere; un gradino sotto i due colleghi muniti di un giornale di enigmistica. I più sportivi percorrono a passo di corsa le coste dell'isola diverse decine di volte. Un membro del gruppo a un certo punto ha comunicato che voleva tornare non solo sulla terraferma, ma addirittura in Italia.
Attendiamo con ansia l'orario dei pasti come un diversivo, ma comunque alle sette e mezza abbiamo già finito di cenare, compreso il 31 dicembre, quando abbiamo sintonizzato l'ora del capodanno sul fuso orario di Dacca (tanto, nessuno avrebbe potuto contattarci per farci gli auguri).
Quando finalmente le condizioni meteo ce lo consentono, ci allontaniamo prudentemente in mare aperto per lo snorkeling, abbastanza piacevole ma non indimenticabile. Il fondale non sempre è limpido; oltre ai pesci colorati ci sono anche grosse tartarughe, ma non sono facili da avvistare. A un certo punto vedo un grande pescecane che sonnecchia seminascosto dagli scogli e me la do a gambe, tuttavia il marinaio che interpello non ritiene che sia pericoloso. Infine, sembra che le temperature molto elevate dell'acqua stiano rovinando irrimediabilmente la barriera corallina. 
L'arcipelago è formato da alcune centinaia di isole, ma la maggior parte sono lontanissime: in pochi giorni al massimo se ne possono visitare due o tre. Nel nostro caso, l’ultimo giorno raggiungiamo Dul Baut, che comunque non è molto diversa dall'isola su cui dormiamo, e Dohul, una delle poche abitate. Qui, allo sbarco sulla battigia ci accoglie un gruppetto annoiato di donne e bambini, che si disperde dopo poco. Anche quest’isola è completamente piatta, il suolo è pieno di conchiglie, il cielo come sempre nuvoloso. Poiché perdiamo la maggior parte del tempo per andare a vedere una piccola batteria di cannoni italiani arrugginiti, abbandonati lì da decenni, ce ne rimane molto poco per visitare uno dei due villaggetti dell’isola, abitati da popolazioni islamiche che vivono in baracche in legno e lamiera circondate da reti da pesca.
Sembrava ormai certo che l'unico pesce che avremmo mangiato alle isole Dahlak sarebbe stato il tonno in scatola, di cui possedevamo abbondanti scorte, e questa sarebbe stata una inaccettabile beffa. Dunque, mentre eravamo di ritorno dall’ultimissima escursione in barca, ormai a poche decine di metri dalla riva, ho insistito con il pescatore Afar affinché calasse di nuovo la lenza come estremo tentativo. Il primo pesce che ha abboccato misurava solo una trentina di centimetri di lunghezza, ma nonostante ciò i partecipanti presenti sulla barca si sono scatenati in grida di giubilo. La seconda preda invece era un gobbo bello grosso, che poi è stato immediatamente pulito e cucinato per cena.
Il giorno della partenza dobbiamo smontare l’accampamento e caricare sulla barca i bagagli e le provviste avanzate, tra cui decine di bottiglie di acqua Gulfa ancora intonse. I tre litri d’acqua al giorno a testa previsti erano effettivamente eccessivi (non era troppo afoso e abbiamo bevuto molto tè), ma non posso non menzionare il sapore scandaloso di quest’acqua made in Dubai. La prima volta che l’ho bevuta, ho pensato che qualcuno l’avesse usata per lavarsi i denti. Poi la proprietaria del ristorante di Asmara "Il sicomoro" mi ha fatto notare che le bottiglie di acqua Gulfa attraversano il mar Arabico in un container, a temperature elevatissime, insieme a vari prodotti che le donano quel gusto inconfondibile (a parte il dentifricio, c’è anche la variante all’essenza di sapone o al gusto detersivo.) Non sono tutte così le acque, ad esempio sono potabili le acque etiopi e sudanesi (e anche la rara Shamlan, yemenita), che non devono percorrere tanta strada per arrivare. Ma tutte sono carissime: un litro e mezzo costa minimo due euro. 

Racconto di viaggio completo "DOLCE VITA ERITREA"

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