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Il tempo si avvolge su se stesso

Da Taiz a Sana'a

La strada è lunga per raggiungere Taiz, una città con un passato glorioso e antico e allo stesso tempo una di quelle che si è più ampliata negli ultimi anni. L'ultimo tratto di strada lo percorriamo al seguito di un'auto della polizia a sirene spiegate che ci fa superare tutto il traffico clacsonante. L'inquietudine cresce: ci attende una folla quasi aggressiva all'hotel e poi al suq rapinano due membri del gruppo di un cellulare e un portafogli e infine, a completare il quadro, c'è l'odioso cesso alla turca in camera.
Per fortuna il mercato è fornito ed economico e poi per cena il simpatico Zaccaria ci apparecchia con fogli di giornale freschi di bucato e ci serve innumerevoli ciotole di terracotta piene di zuppe e omelette a prezzi popolari. Sulla via del ritorno in hotel un poliziotto ci fa segno di affrettarci.
Lasciamo Taiz diretti a Sana'a: è l'ultimo viaggio della speranza, appena in tempo perché le Toyota cominciano a manifestare segni di cedimento (pneumatici bucati, radiatori agonizzanti e conseguenti traslochi e agglomerati umani nella stessa auto). Per spezzare il noioso tragitto passeggiamo nella splendida Jibla, regno della regina di Arwa, cittadina rimasta fascinosamente identica nel tempo (altro scenario pasoliniano). Un'altra moschea e fanciulli pieni di fiori gialli e già pronti per diventare protagonisti delle foto. Dopo il pranzo a Ibb in serata raggiungiamo la capitale dove — come se nulla fosse accaduto — recuperiamo la vecchia abitudine di cenare dal somalo con i suoi neon e le patate fritte.
E forse nulla è successo, il tempo si avvolge su sé stesso.
L'ultimo giorno prima della partenza, c'è aria di festa in Old Sana'a, ma non sono i saldi di gennaio: mancano pochi giorni all'Eid’ Al-Adha, la festa islamica che commemora la sottomissione di Abramo disposto a sacrificare il figlio Ismael. Mentre provo abiti lunghi total black e burqa giunge la notizia della liberazione degli ostaggi italiani, giusto in tempo per il volo di domani. Il suq all'improvviso sorride tra gioielli, frutta secca, lampade in gesso, narghilè, scialli, incenso e mirra.
Trascorro un paio d'ore sulla terrazza dell'Hotel Taj Talha con vista superba sui tetti di Sana'a, dove bevo un tè in compagnia di un documentarista austriaco che sta visitando il Paese in sella alla sua bicicletta.
Sul volo Yemenia, poco prima del decollo, una voce dall'altoparlante del velivolo scandisce due volte: "I cinque italiani reduci dal rapimento vengano in prima classe". All'arrivo a Fiumicino siamo accolti da tutte le televisioni, ma nessuno pare ansioso di conoscere la mia opinione. Non solo. Gli amici e i conoscenti mi hanno rimproverato per essere andata in un posto tanto pericoloso, l'opinione pubblica erano giorni che criticava la stupidità dei viaggiatori nello Yemen, famoso per i continui rapimenti (senza sapere che da anni erano praticamente cessati). E infine il Codacons ci ha chiesto di coprire le spese sostenute dal governo italiano per liberare i rapiti. E io che volevo soltanto festeggiare l'agognato traguardo del posto fisso.

Racconto di viaggio "IL FIORE DELLE MILLE E UNA NOTTE. NELLA FAVOLA DELLO YEMEN" 

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