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ERASE YOUR EGO

Il deserto dell'Acacus

L'Acacus è un parco nazionale situato in pieno Sahara, a sud-ovest della Libia. Questo viaggio risale alla fine del 2006, ossia a quella finestra di pochi anni in cui il Paese era aperto al turismo e disponibile a mostrare i suoi tesori, sia storici sia naturali. Gheddafi era ancora saldamente al potere e il suo faccione campeggiava ovunque su grandi cartelloni. A sapere cosa sarebbe accaduto di lì a poco, probabilmente avrei scelto di visitare anche i siti archeologici romani. Ma il futuro è imprevedibile e io sono andata solo nel deserto.
È stato un viaggio particolare, questo. Nel deserto si gela, in inverno. Nel deserto non ci sono bidoni della spazzatura. Nel deserto non ci sono cartelli stradali, indirizzi, uffici del turismo. Non ci sono bagni, bar, case e chiese. Né ci sono passanti. In nove giorni di campeggio libero nel parco dell'Acacus, quindi, ci siamo affidati totalmente agli autisti delle jeep: solo loro sapevano la strada. A noi non rimaneva che respirare l'aria secca, scalare le dune, guardare i tramonti. E cancellare il nostro invadente ego.

LA PORTA PRINCIPALE DEL SAHARA
Ora, mentre i miei compagni dormono, continuo a interrogarmi sullo strano potere di seduzione del deserto, su tale onnipresente e inseparabile misto di timore e fascino. Sì, credo che sia così, è proprio quello che si è sentito dire mille volte: la terribile bellezza degli spazi solitari e irraggiungibili, la meraviglia e il terrore dell'infinito, il dilatarsi del tempo, la quiete, il silenzio, la solitudine... Ma forse tale fascino non è che uno dei nomi del narcisismo: l'orgoglio, la vanità di sentirsi vivo in condizioni estreme, scoprire risorse insospettabili all'interno di se stessi. Sì, anche, ma c'è qualcosa di più. O di meno. Forse quel che ci pesa, terrorizza e seduce, è una negazione piuttosto che un'affermazione, un'assenza piuttosto che una presenza. Forse è la mancanza di segni e di simboli, di cartelli e di pubblicità, di idoli e di bandiere, di promesse e di speranze. Arrivare, finalmente, a una certezza chiara, assoluta. Il deserto come pienezza del vuoto, come negazione di ogni illusione. La vita allo stato puro: fragile, felice, assurda, piena, vulnerabile. (…) Per un turista per caso come me, malinconia, romanticismo e letteratura. Per chi passa qui la metà della propria vita, routine, sole siccità, pietre, vento, sabbia e polvere. A chi appartiene il deserto? A tutti e a nessuno.
(Pep Subirós, “La rosa del deserto”)

Dopo averlo lambito sull'orlo in Marocco e in Egitto, quest'anno sono entrata nel Sahara dalla porta principale: la Libia, il Paese nordafricano che presenta meno barriere naturali tra la costa e il deserto. Nonostante l'esperienza sahariana (oggi in fuoristrada, ieri nelle carovane di cammelli) sia diventata più praticabile, ciò non toglie che la regione che abbiamo conosciuto da vicino, il Fezzan — come fu rinominata dagli italiani conquistatori — sia rimasta a lungo una delle zone meno conosciute della Terra.
In seguito alla normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale, la Libia si è aperta da poco al turismo e cerca di risolvere gli ostacoli burocratici che rendevano difficile l'accesso ai visitatori stranieri. Benché sia ancora necessario visitare il Paese con l'appoggio di un operatore turistico locale, è tutto più semplice grazie alla possibilità di ottenere il visto all'ingresso.

All'aeroporto di Tripoli ci accoglie imponente e protettivo l'onnipresente Colonnello, finemente drappeggiato e con i famosi occhiali a goccia, ritratto in ogni angolo del Paese su tele gigantesche, poster, dipinti ad olio, murales realizzati con tutte le sfumature del verde, colore dell'Islam e della Rivoluzione.
Sbrigate le procedure in entrata, sugli italiani in Libia si abbatte la cattiva notizia: il volo interno per Sebha è saltato e ci toccano 12 ore di autobus nel piattume sconfinato che separa la costa dal Fezzan, a sud-ovest del Paese. Regola numero uno: fare finta di nulla, non innescare polemiche sterili che si ribaltano notoriamente con effetto domino sugli altri partecipanti inizialmente non schierati. Dormirci su. Una parola: durante il tragitto nel cuore della notte un corpo contundente non identificato riduce in mille pezzi uno dei doppi vetri di una finestra del bus, evocando una scena del film "Babel", ambientato in Marocco — per fortuna senza gli esiti tragici che esso ha nella pellicola del regista messicano. Film che, tra parentesi, viene proiettato al ritorno sui due schermi del bus in un DVD piratato in lingua originale sottotitolato in arabo: la coincidenza avrebbe inquietato anime meno avvezze della mia.
Come scrive Stefano Malatesta, il deserto oggi non è più quello che era un tempo; i sentimenti predominanti nell'affrontarlo non sono più l'orrore e il terrore. Oggi procediamo sicuri nelle Toyota condotte con abilità e maestria dalle braccia muscolose dei misteriosi autisti locali, aggiungo io. Insomma, eliminati la paura, i rischi e il pericolo dell'impresa, ci resta tutto il tempo per goderci il paesaggio. Per considerarlo bellissimo, emozionante, affascinante, magico, suggestivo, una cartolina. E per descriverlo con una serie di luoghi comuni da far venire il voltastomaco, da cui io stessa non posso del tutto esimermi.

LA DUNA DEL NON RITORNO
Nel deserto non si decide, si ottempera.
(Théodore Monod, viaggiatore e naturalista francese)

Tutto comincia presso l'ostello di Feji quando arrivano i fuoristrada e gli autisti, con i quali si creerà un rapporto di grande condivisione e confronto. Secondo le leggi libiche è obbligatorio che ad essi si aggiunga un "poliziotto turistico", il servizievole Khalid.
Ghat è l'avamposto da cui inoltrarsi nel deserto dell'Acacus. Per la notte ci accoglie un grazioso camping costituito da caratteristiche capanne di foglie di palma chiamate zeribe, nelle quali è necessario dormire in un sacco a pelo invernale perché le temperature notturne sono molto rigide. Solitamente si sceglie Ghat per pernottare perché si trova vicina al passo di Takarkori e alla cosiddetta "duna del non ritorno", che conduce all'ingresso meridionale del parco dell'Acacus. Giunti a Ghat apprendiamo però che la suddetta strada è chiusa da circa un anno a causa delle tensioni con l'Algeria, il cui confine costeggia la strada. Solo degli sprovveduti, ignoranti della politica internazionale e tenuti all'oscuro di tutto dal laido corrispondente locale, al giorno d'oggi trovano sensato passare la notte a Ghat. Con la presenza dei turisti ridotta al lumicino, la cittadina è allo stremo: il venditore di souvenir tuareg sta svendendo tutto, il camping rischia di chiudere, per servire la cena i gestori devono andare a fare la spesa. La serata è ravvivata dalle chiacchiere con Dominique, insegnante madrelingua britannico all'università di Sebha, giunto a Ghat per assistere all'imperdibile Festival tuareg, che attrae turisti da tutto il paese.

Al mattino, prima di varcare le porte del deserto, bisogna andare al mercato di Ghat per contrattare sul prezzo degli agrumi, dei pomodori e di altri cibi che completeranno le scorte alimentari. Qua sono quasi tutti neri, ossia la Libia è piena di immigrati. La gente non sembra importuna, né invadente; i bambini vanno scuola e nessuno ti chiede niente. La medina è quasi completamente disabitata e in rovina: è sormontata da un forte turco (poi utilizzato dai nostri connazionali come alloggio militare), le case intonacate sono di un colore bianco abbagliante, vi sono inoltre il palazzo del sultano, quattro moschee e un tuareg shop coi prezzi di Bulgari.

IL GRANDE MARE DI SABBIA
Svegliarsi ogni mattino in un punto diverso del vasto deserto. Uscire dalla tenda e trovarsi davanti allo splendore di un nuovo mattino: tendere le braccia, stirarsi nell'aria fredda e pura; riempirsi di luce e di spazio; conoscere, al risveglio, la straordinaria ebbrezza di respirare solamente, di vivere solamente…
(Pierre Loti, romanziere versato sui temi dell'esotismo naturalistico)

All'ingresso del Parco nazionale dell'Acacus, un altopiano trasformato in opera d'arte dalla natura, ci accolgono formazioni rocciose a forma di vecchine, funghi, tartarughe, santi, conchiglie, uomini col cappello, fidanzatini che si baciano, pile di frittelle, pupazzi di neve.
Torri, monoliti, pinnacoli, grotte, archi — ossidati e scolpiti dal tempo — sembrano resti di statue greche senza braccia, piramidi precolombiane corrose, templi indiani coi bassorilievi sciupati, sfingi egizie levigate dalla sabbia, misteriosi obelischi con le iscrizioni ormai illeggibili.
È qui, in questo territorio lunare e misterioso, dai cui spiragli di rado si intravedono delle enormi dune rosa pesca, che scorrazzeremo per i primi due giorni.

Il primo campo lo montiamo nei pressi dello uadi Auis. È la prova del nove: ognuno deve verificare se la propria attrezzatura è adatta, se il cognato per errore gli ha prestato i picchetti da terra e non da sabbia, se i sacchi a pelo sono abbastanza caldi, i pigiami sufficientemente termici, i teli di plastica del numero adatto per non intridere i bagagli di sabbia e benzina, le stoviglie della tipologia utile a consumare risotti Knorr, tortellini, tè e caffè bollenti, cous cous e spaghetti al tonno, i materassini comodi e isolanti e così via.
Da quel momento, le stesse operazioni verranno effettuate in maniera sempre più agile e spedita. Le tende vengono disposte in fila sotto il profilo di un'alta duna, oppure in cerchio, protette dalle rocce scure. Grandiosi tramonti segnano l'arrivo della notte: dipinti con tutte le sfumature del giallo, oppure abbaglianti di rosa e di viola; limpidi e puri oppure striati dalla nuvolaglia. Disegnano porzioni geometriche di luce e ombra, soffondono ed appicciano. La mattina sono albe da primo giorno sulla Terra quelle che ci danno il buongiorno, poi sfumano gradualmente durante la colazione, e infine vengono sostituite dalla luce piena quando ormai le tende sono smontate e siamo pronti per salire in macchina.

Ogni pomeriggio montiamo il campo in un posto diverso. Le soffici dune di Wan Kasa assomigliano a dei crème caramel: la loro forma, impercettibilmente e senza tregua, si modifica grazie al vento che soffia, cancella i passi umani e i segni degli pneumatici, affila gli spigoli. Nell'Erg Murzuq un'immensa luna bianca ci attende seduta in groppa alle dune, ma per quanto scaliamo non riusciamo a toccarla. Quando ci arrampichiamo sulle dune una specie di vertigine ci prende di fronte al vuoto, ai granelli mobili, al giallo, alle ombre. A volte ci dobbiamo sedere per non cadere.
Allontanandoci dall'erg Murzuq, il paesaggio cambia: una stupefacente distesa verde appare in lontananza. Le luci della fattoria di Berjuj, dove si coltivano cereali in maniera intensiva, irrigati da enormi pompe a forma di idrovolanti, stimolano riflessioni frutto di opposte vedute.

Esplorando in jeep il parco, nuovi prodigi si susseguono. La sabbia come una colata di oro liquido glassa il terreno, a volte lasciando spuntare qua e là strati basaltici color cioccolato. C'è una roccia che è stata erosa fino a creare la trionfale incurvatura di Fozzigiaren; un'altra che ha assunto l'aspetto dello snello colonnato di arenaria di Tin Ghalega, arrotondato e deformato dal tempo.
Poi, attraversando la piana del Reg Taita e il passo di Abahoa, si entra nei territori piatti e spazzati dal vento del Messak Settafet, un vasto altopiano ricoperto da detriti resi lucidi e scuri dalla sabbia e dal caldo. Nelle soste giochiamo a bocce con le colaquinte, una specie di cocomeri delle dimensioni di una palla da tennis, color giallo chiaro striato di verde.

UN TEMPO QUI ERA TUTTA SAVANA

Uno dei motivi per visitare il Tadrart Acacus, oltre agli incredibili scenari naturali, è la presenza di una quantità enorme di testimonianze artistiche rupestri, ossia graffiti e pitture risalenti al periodo in cui il Sahara era un'immensa savana, percorsa da enormi fiumi e popolata da giraffe, rinoceronti, elefanti, gazzelle.
Gli studiosi ipotizzano che la popolazione che abitava in questi territori abbia addirittura influenzato culturalmente la grande civiltà egizia. La prima spedizione nell'Acacus fu compiuta solo negli anni '50 dall'italiano Fabrizio Mori, che scoprì i tesori delle pitture rupestri e dei graffiti nascosti negli uadi dell'Acacus, i letti dei fiumi risalenti alla preistoria che hanno scavato giganteschi canyon e scolpito le rocce di arenaria. Lì, negli anfratti ricavati sotto le pareti, trovavano rifugio i nostri antenati che forse più di 10mila anni fa cominciarono a incidere o dipingere immagini a loro familiari come scene di caccia, animali selvaggi e domestici, figure umane impegnate in gesti quotidiani, ruote ed altri utensili.

Negli Uadi Tanshalt e Anshal ci aspettano pitture di umani dalle mani grandi con le dita visibili, cavalli e cammelli rossi e bianchi. Proseguendo, incontriamo due siti che sono stati transennati da poco, novità che stupisce anche gli autisti. D'altra parte mi chiedevo come fosse possibile che praticamente tutte le pitture dell'Acacus siano prive di protezione. Il primo sito è Uan Amil, dove si trovano i dipinti più interessanti, che raffigurano scene di vita quotidiana, di battaglia e di caccia e che, essendo in sequenza tra loro, dimostrano per la prima volta la precisa intenzione da parte dei nostri antenati di testimoniare qualcosa per i posteri. Il secondo è Wan Amalun, famoso perché il professor Mori qui ha ritrovato un bambino mummificato.
Raggiunto il Messak, percorriamo lo Uadi Markendush dove saltelliamo come caprette tra le rocce che un tempo costituivano il letto del fiume, per giungere a quello che sta per diventare un sito archeologico con tanto di biglietti d'ingresso. Per il momento l'addetto allo sbigliettamento non si vede e le recinzioni sono nuove di zecca, così entriamo gratis. Dopo esserci liberati dai finti tuareg nigerini che ci vorrebbero vendere ciondoli, bracciali in finto argento e altra paccottiglia di pelle colorata, andiamo ad ammirare i famosissimi "gatti mammoni" (battezzati così dall'archeologo Leo Frobenius) incisi in una roccia piatta. Qui nel Messak sono stati ritrovati solo graffiti, forse a causa della particolare conformazione delle rocce, che non offrivano grotte naturali. Lo uadi Matkendush in particolare contiene la maggior parte delle stazioni rupestri: oltre ai gatti mammoni, si possono ammirare ad esempio giraffe e coccodrilli.

BIDET NEL DESERTO
Creatura d'un altro mondo tutto rumore e travaglio, vi sentite ora come riportato al principio della lunga fuga di secoli dalla cui fatica siete stato generato, e vi ci sentite bene come in un placido sogno.
(Guelfo Civinini, "Ricordi di carovana", 1933)

Tutti gli scrittori versati sul fascino dell'esotico prendono in considerazione soltanto il lato poetico e romantico del deserto; nessuno di loro si sofferma mai a pensare alle conseguenze pratiche di campeggiare per nove giorni in un posto completamente privo delle comodità a cui siamo abituati.
Prima di tutto, anche se sono arcinote le proverbiali escursioni termiche tipiche del Sahara, pochi immaginano che all'inizio dell'inverno le temperature notturne possano raggiungere facilmente gli zero gradi, tanto che spesso al mattino le tende sono ricoperte da un sottile strato di ghiaccio. Questo significa indossare praticamente tutti gli abiti uno sull'altro, i guanti, la sciarpa e il cappello, mentre si prepara la cena, mentre si mangia (per terra), mentre si “lavano” le stoviglie con la sabbia e mentre si dorme, seppur nel sacco a pelo invernale. Significa anche congelarsi le parti mediane del corpo quando si devono espletare i propri bisogni fisiologici tra le dune. Naturalmente di lavarsi non se ne parla proprio: le salviettine umidificate bastano e avanzano.

Per cucinare, bisogna portare con sé taniche d'acqua e provviste, che si aggiungono, naturalmente, alle cataste di legna per accendere il fuoco. L'autista più scalmanato, il Gatto — sempre in gara con il suo compagno di avventure (la Volpe) — in una delle sue stravaganti manovre ha perso pezzi dal portapacchi della macchina: la legna per la notte e i sacchi della spazzatura si sono dispersi nella prateria desertica e siamo stati costretti a raccattare pazientemente tutto.
All'ora di pranzo — denominato, come tutti i pasti, "mangiarìa" — i portentosi guidatori ci hanno dato la prima lezione di ecologia: hanno acceso il fuoco e hanno cucinato i "macaroni", contenuti in un sacco di juta da 5 kg. Noi campeggiatori del Sahara, invece, ci siamo perlopiù cibati del contenuto di scatolette di tonno o salmone o, a scelta, di formaggini monodose impacchettati (accompagnati da pane e sabbia), producendo un grosso cumulo di spazzatura non biodegradabile che ci siamo dovuti caricare sul tetto della jeep per tutto il viaggio. L'unica eccezione alla loro monotona dieta è stata la sera in cui gli autisti si sono cucinati quelle succulente bistecchine che per due giorni venivano stese al sole sul cofano ad ogni sosta: si trattava di carne di montone e serviva per solennizzare la festa dell'Eid’ Al-Adha, la più importante festa islamica, che quest'anno inizia il 30 dicembre. Tra l'altro, a causa del lutto nazionale proclamato a seguito dell'esecuzione capitale di Saddam Hussein (effettuata, forse non a caso, all'alba di questa santa giornata), il governo libico ha deciso di annullare tutte le celebrazioni dell'Eid.

In Libia, come in tutti i Paesi severamente islamici, è vietato bere alcolici. Così la sera davanti al fuoco accettiamo i bicchierini di tè, forte e zuccheratissimo, che gli autisti ci offrono. In realtà ogni tanto il capo autista Massud tira fuori anche una preziosissima bottiglietta di plastica che contiene un distillato di datteri probabilmente illegale.
Ma il contributo dei driver non si esaurisce nelle lezioni di ecologia, enogastronomia, clima e guida nella sabbia. Non avendo una lingua in comune, viene naturale il tentativo di comunicare con la musica leggera, ma tentiamo anche discorsi più articolati. Come al solito gli uomini con cui vengo in contatto in un paese più tradizionale del nostro, si stupiscono di quante donne vivano sole in Italia: mi spiegano allora in una torre di babele di linguaggi e gesti come festeggiano il matrimonio in Libia e soprattutto vogliono convincermi a trasferirmi lì, perché la vita costa meno cara. In fondo, italiani e libici si assomigliano: tutti facciamo un gran casino quando parliamo e le nostri voci si sovrappongono con toni concitati.

SAHARA QUEL CHE SAHARA
Il deserto è bello perché è pulito e non mente. La sua nitidezza è straordinaria. Non ci si sporca mai nel deserto.
(Théodore Monod, dispensatore di massime sul deserto)

Dopo tanti giorni in pieno deserto dell'Acacus, tornare sulla strada asfaltata per raggiungere Germa è davvero straniante. Nell'antica capitale dei Garamanti, misteriosa popolazione berbera raffigurata nelle pitture rupestri alla guida di arcaici carri, visitiamo i resti della città vecchia con la necropoli, acquistiamo bevande tremende come la Merinda (succo di mela frizzante) e telefoniamo alla mamma che non aveva notizie di noi e ci credeva già divenute prostitute libiche (negli anni '80 ascoltava "La voce del padrone" di Battiato).
Nell'attesa che Ahmed (il buon Ahmed dagli occhi tristi) reperisca della benzina, ci sdraiamo sulla sabbia. Ci stiamo preparando allo spettacolo degli spettacoli: salite e discese tra le dune più biscottate e ripide dell'Erg di Ubari, a caccia degli idilliaci laghi circondati dai palmeti. Il primo lago, quello di Mahfu, appare all'improvviso dopo un testacoda mozzafiato di Ahmed. È tutto racchiuso in un colpo d'occhio, l'acqua e le palme intorno e poi a sfinire il bronzo sabbioso. Poi il lago più grande, quello di Gabraoun, nel quale si specchia una grandissima duna. La tomba (gabra) del capostipite della famiglia dei boss locali, gli Oun, è proprio lì, nella duna che abbraccia il lago, segnalata da una bandierina verde. Qui ai tempi vivevano i Dauada, una popolazione che si sostentava mangiando una specie di larva che si riproduceva sulle sponde. Nei pressi vi è un camping con ristorante e negozio di artigianato tuareg; volendo si possono affittare gli sci, ma mancano gli impianti di risalita.

Il lago di Oum el Ma è il più pittoresco: uno specchio d'acqua in cui si riflettono la grande duna, i cespugli, le palme e i canneti. È qui che montiamo l'ultimo campo, quello più grazioso ma più umido e freddo, circondato dalle palme che sputano i loro datteri nella sabbia sottostante. Nonostante il vento sia calato, la temperatura è così gelida che non abbiamo la forza di scoprire di chi sono quelle voci che cantano in lontananza. In tenda ho battuto i denti pur intabarrata in sette strati di vestiti (i famosi sette veli), dentro ad un sacco a pelo impregnato di benzina, ma è l'ultima notte e la nostalgia è già in agguato.
L'ultima ora a cavallo delle dune è esaltante ma anche malinconica. Il Gatto e la Volpe scelgono una pista diversa dall'anziano capo autista, il quale impreca in arabo. Nel deserto è sempre necessario tenersi tutti d'occhio e aspettare il fuoristrada che eventualmente è rimasto indietro; tutti gli autisti sono molto attenti, ma stavolta non è proprio possibile andare a riacciuffare i driver scomparsi. Li rincontreremo poi dal "gommista", in un camping dove bisogna rigonfiare gli pneumatici per affrontare il ritorno sulla strada asfaltata. Approfitto per fumare la shisha con dei signori con grandi turbanti, e soprattutto per lavarmi le mani: finalmente le unghie non sono più nere.

E poi, come tutte le cose belle, anche questa finisce. Da ultimo il passo del non ritorno: la doccia dopo nove giorni. L'aria secca e l'onnipresenza della sabbia hanno davvero proprietà fantastiche: piedi, capelli, pentole, gavette, mantengono la loro originaria brillantezza. Ma una doccia dopo nove giorni è una doccia dopo nove giorni. Le ultime 12 ore di autobus e l'intera notte trascorsa all'aeroporto di Tripoli sotto la minaccia dell'overbooking le abbiamo affrontate con uno spirito ascetico, lieto e sereno come quello dei monaci del primo Cristianesimo.
L'esperienza sahariana è stata vissuta da tutti come una felice liberazione dalla costante presenza di un ego invadente (che abbiamo prontamente cancellato all'arrivo, come ci aveva consigliato Dominique, l'insegnante madrelingua). L'abbandono totale e fiducioso alla logica del "loro sanno" ha reso i compagni di viaggio e me quasi ebbri, alleggerendoci dalla comune responsabilità di evitare gli ostacoli che la vita quotidiana ci mette tra i piedi. E insegnandoci che quando non si può fare nulla per cambiare ciò che è dato, è inutile darsi pena.
Il volo è puntuale. A Roma è una bella giornata calda. Al primo risveglio in un letto ho avuto la fondata certezza che i cuscini e le lenzuola in cui giacevo nella penombra fossero fatti di sabbia.

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