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Cugini per scherzo

Macinando chilometri tra Senegal e Gambia

Senegal del NordKédougou - Casamance - Gambia - Petite côte - Immagini - Piccolo Me

Casi esemplari di turismo in Africa

Per la serie dei casi esemplari di turismo in Africa, un quadro della situazione da queste parti ci sta bene. Il turista rosso come un gambero di sole africano va a vedere il museo degli schiavi sull'isola di Gorée, magari è anche contento che non esista più la tratta degli schiavi, ma poi uscendo incontra uno come Zorro che lo intontisce con la sua tiritera fissa finché non gli cava due palanche di tasca, mentre qui sulla spiaggia i bianchi si comprano i neri, e vedi lo sciancato con il negretto, l'anziana europea col giovane africano, tutte le promiscuità a pagamento in pronta offerta. Niente scappa al traffico di carne umana tra bianchi e neri, ma io sono rimasto a corto di giudizi morali.
(Gianni Celati, “Avventure in Africa”)

Tra i motivi per cui il Senegal sta diventando una meta di viaggio sempre più ambita figurano le graziose spiagge, un bel po’ di santuari della natura e un popolo universalmente noto per la gioia di vivere e l’ospitalità (che in wolof si dice “teranga” ed è diventato un claim turistico). Inoltre è un Paese a maggioranza musulmana, ma laico, e ha una situazione politica tranquilla, a differenza degli stati confinanti dove sussistono instabilità e disordini. Un altro non disprezzabile aspetto che attira i viaggiatori europei è il clima: a queste latitudini non esiste un vero e proprio inverno, benché, a fine dicembre, lungo la costa atlantica le temperature possano scendere anche sotto i 15 gradi.

La sera della vigilia di Natale a Dakar è un piacere assaporare un appetitoso thiof grigliato, accompagnato da una fresca Gazelle, in questo ristorante affacciato sulla ventilata spiaggia di N'Gor. Ci troviamo a meno di un chilometro dal punto più occidentale di tutta l’Africa, mentre a est il Phare des mamelles illumina a intermittenza il mare. Negli eleganti condomìni affacciati sull’oceano risiedono parecchi ricconi, tra i quali si celano alcuni ex dittatori esiliati da altri stati africani.
Sebbene i cristiani rappresentino soltanto il 6% della popolazione, a mezzanotte in punto la nascita di Gesù bambino viene festeggiata con fuochi d’artificio presso il monumento all'Africa Renaissance che svetta, investito da fasci di luce cangiante, dalle due "mammelle" di Dakar.
Ai piedi di questa gigantesca statua, dedicata a tutti coloro i quali hanno sacrificato la loro libertà o la loro stessa vita per la rinascita dell’Africa, ci saliamo la mattina dopo per dare un primo sguardo alla città. Sotto di noi scorre la “corniche”, con la sua lunga spiaggia piena di attrezzi ginnici, gentile omaggio dell’ambasciata e di alcune imprese cinesi.

Naturalmente quasi nessuno dei turisti atterrati a Dakar si perde l’isola di Gorée, patrimonio mondiale Unesco, raggiungibile con un efficiente traghetto. Questo tranquillo posticino in mezzo al mare si presenta oggi come un vacanziero agglomerato di case e ville colorate in stile coloniale, macchie di bouganville e palme; le stradine sabbiose sono invase da originali opere d’arte basate sull’antica arte del riuso e i ristorantini e le bancarelle propongono al visitatore neoarrivato le tipiche pietanze senegalesi come il pollo o il pesce yassa, e bevande come il bissap (karkadè), il bouye (succo di baobab) e soprattutto il caffè touba, molto corroborante grazie al pepe e ai chiodi di garofano con cui è miscelato. Per fortuna è possibile farsi servire ovunque una fresca birretta, visto che qui non praticano quella tipica ipocrisia islamica per cui in pubblico non bevono e poi si sfondano quando nessuno li vede.
Nel 1500 l’isola costituì il primo insediamento stabile degli europei: i portoghesi compravano gli schiavi dai Wolof e questo commercio andò avanti come se niente fosse anche quando l’isola passò agli olandesi e poi ai francesi. La maison del esclaves sta qui proprio per ricordarci dei milioni di abitanti giovani e aitanti, rapiti, legati ai ceppi esposti qui nelle bacheche del museo e portati con la forza a lavorare nelle Americhe. Nelle celle visitabili tra queste infauste mura hanno transitato molti di loro in attesa della partenza.

Lasciata l’isola, tutti i turisti si spostano al lago Retba o Lac Rose, così chiamato per il colore delle sue acque ad alta concentrazione salina, abitate da particolari alghe che producono un pigmento rosso tenue. Qui solitamente incontrano le donne e gli uomini intenti a raccogliere il sale e scoprono che il lago non è così rosa come alcune foto vorrebbero far credere loro. Il giorno di Natale nel tardo pomeriggio non c’è nessuno al lavoro e i sacchi e le barchette di legno colorato sono abbandonati tra i cumuli di sale. Il nostro rally in 4x4 è lo stesso abbastanza dilettevole: prima si circumnaviga il lago (dotato di alcune effettive sfumature rosacee) e poi, sobbalzando allegramente sulle dune, si raggiunge con grande entusiasmo la spiaggia, sconfinata e ventilatissima, che dovrebbe coincidere con l'ultima tappa della Parigi-Dakar. Nei dintorni ci sono dei graziosi lodge, qualche macilento dromedario è disponibile per portare i turisti a passeggio e nei ristoranti organizzano volentieri spettacoli di danze acrobatiche indigene.

Kayar è uno dei pochi insediamenti presenti sulla “costa grande”, il tratto di spiaggia sabbiosa che va dalla penisola di Cap Vert a St-Louis. Il fascino di questa meta risiede nella spiaggia dei pescatori, brulicante di uomini che fanno la spola con le innumerevoli piroghe colorate e donne che li attendono per poi vendere il pesce, accatastato sulla sabbia in imponenti montagnette argentee. Il colpo d’occhio è mozzafiato per gli abiti colorati delle donne, per le imbarcazioni e i carretti tradizionali vivacemente dipinti, per l’abbigliamento dei pescatori (dotati di stivaloni di gomma e tute cerate) e degli staffettisti, che corrono avanti e dietro con pesanti cassette piene di pesce poggiate su curiosi copricapi imbottiti. In Senegal la pesca artigianale costituisce uno dei maggiori settori di impiego del paese e contribuisce in maniera rilevante alle esportazioni, oltre a fornire un considerevole apporto di calorie per la popolazione. D’altra parte il nome stesso dello stato deriva dal termine wolof “sunugaal”, che significa “nostra piroga”.
Nei pressi della spiaggia si svolge il consueto tran tran. C'è un topo, ad esempio, che avendo provato a invadere l’intimità di una piccola abitazione era stato bastonato e abbandonato giusto davanti all’uscio dall’anziano che ci vive. Dopo qualche minuto però si scopre che i colpi lo avevano solo intontito ma non ucciso, infatti il roditore lentamente si rialza e prova a introdursi nuovamente nella casetta; a quel punto il vecchio lo pesta con molta più veemenza, poi prende il cadavere per la coda e finalmente lo porta lontano.

Al monastero di Keur Moussa ogni giorno alle 11 e un quarto viene celebrata la messa conventuale, che i visitatori stranieri si sorbiscono allo scopo precipuo di ascoltare le canzoni liturgiche alla fine, accompagnate dagli strumenti locali come il balafon e soprattutto la kora; poi, eventualmente, acquistano i genuini prodotti venduti dai monaci. La tappa successiva è la Manifattura Senegalese di Arti Decorative di Thiès, l’unica fabbrica di arazzi di tutta l’Africa Occidentale, fondata nel 1966 dal primo Presidente del Senegal, Senghor. La prima fase di lavorazione consiste nel riprodurre a matita su carta i disegni originali, realizzati da artisti senegalesi; quindi l’equipe prepara i fili colorati di lana trattata, proveniente da Belgio e Francia, e infine nel laboratorio di tessitura una squadra specializzata nell’uso del telaio realizza l’arazzo. Tutto questo procedimento ci viene spiegato e mostrato nei minimi particolari, per ore, manco poi dovessimo crearli noi gli arazzi. E comunque, visti i prezzi, soltanto prestigiose istituzioni pubbliche o abbienti privati possono permettersi di acquistarli. 
Il deserto di Lompoul viene venduto dal marketing turistico come un luogo ideale per ammirare tramonti infuocati, passare una notte a guardare le stelle e addormentarsi abbracciati avvolti dal silenzio dei campi tendati. In realtà l’occhio più esperto si accorge che non si tratta propriamente di un deserto bensì di un pezzo di savana particolarmente arida, dove c’è un gruppo di dune alte poche decine di metri: qui hanno intelligentemente piazzato alcuni eleganti campi tendati in stile mauritano (con gabinetti in ceramica poggiati sulla sabbia, acqua corrente e wifi), proponendo per cena grandi piatti di cous-cous seguiti da show di percussioni tribali, cercando tra l'altro di applicare tutti gli standard del turismo sostenibile. Se a ciò si aggiungono i su e giù in jeep, i suggestivi falò e alcuni flemmatici dromedari nessuno si accorge della differenza. 

St-Louis è la città più settentrionale del paese e sorge con una conformazione originalissima sulla foce del fiume Senegal. Nel Seicento fu il primo insediamento coloniale francese in Africa ed è poi stata la capitale del Senegal fino al 1957. Il suo centro storico dalla pianta a scacchiera è ancora oggi caratterizzato dall’architettura coloniale, rintracciabile ad esempio nelle antiche palazzine con cancellate in ferro battuto, balconi in legno e verande. Il suo simbolo più famoso è il ponte mobile Faidherbe che collega l’isola su cui sorge la città vecchia alla terraferma: progettato da Eiffel in Europa originariamente per attraversare il Danubio, fu poi smontato e trasportato qui a pezzi nel 1897. Proseguendo idealmente sulla stessa linea del ponte si raggiunge l’altro ramo del fiume Senegal, che separa l’isola dalla Langue de Barbarie, una penisola sabbiosa stretta e lunga affacciata sull'Atlantico. In questa zona protetta dalle correnti oceaniche sono parcheggiate una moltitudine di barche colorate che fanno un grazioso effetto nella caligine del pomeriggio (a patto che non si guardino i cumuli di rifiuti). 
Percorso l’altro ponte e raggiunta la "lingua", si entra in un mondo più caotico, dove al posto delle carrozze turistiche e degli atelier d’arte si viene circondati da una discarica a cielo aperto. Si tratta del cosiddetto quartiere africano, abitato da una comunità di pescatori detta Guet N'Dar. Nei paraggi si trova un originale cimitero musulmano, dove su ciascuna tomba è drappeggiata la rete da pesca dell'occupante. Se si proseguisse ancora verso sud si arriverebbe al Parc National de la Langue de Barbarie, che ospita numerose specie di uccelli acquatici, ma noi ci fermiamo per la cena e la notte in uno dei tanti hotel con piscina che sorgono vicino alla spiaggia. Qui ci viene preparato il Thieboudienne, il piatto nazionale senegalese, originario proprio di Saint-Louis: si tratta di una pietanza a base di riso, pesce e varie verdure così speziata e piccante che non riesco neanche a finirla, anche perché mi stava salendo una febbre di cui non ho mai capito l'origine e che è durata fino al pomeriggio successivo. E comunque la cosa peggiore di St-Louis è stato scoprire che per soli due giorni ci siamo persi il concerto di Youssou N'Dour.

A nord di Saint Louis si estende il Parco Nazionale degli uccelli di Djoudj, una zona umida di 16mila ettari sul delta del Senegal, il fiume che a questo punto sta per raggiungere l’oceano dopo aver segnato l’intero confine con la Mauritania. A causa del gran numero di toubab (bianchi) convenuti fin qui per compiere il giro in barca, l’attesa è lunghissima ma per fortuna ben ripagata: oltre ai classici cormorani, aironi e spatole africane, le imbarcazioni infatti vengono letteralmente sovrastate da miriadi di giganteschi pellicani bianchi, che non avevo mai visto in così gran numero e soprattutto così da vicino. Uno spettacolo indimenticabile.

L’ultima attrazione del circuito turistico della grande côte è Touba, la città santa dei murid, una delle confraternite islamiche più diffuse in Senegal. La grande moschea è particolarmente imponente con i suoi pregiati marmi e le ricche decorazioni in argento, oro e cristallo, e accoglie milioni di fedeli che provengono da tutto il Senegal, in particolare per la celebrazione del Magal. Qui è sepolto infatti il celebre Cheikh Ahmadou Bamba, fondatore della confraternita, e vi risiedono la maggior parte dei marabout, leader religiosi dell'Islam senegalese, venerati come santi viventi. 
In città le donne sono vestite dalla testa ai piedi, bar, ristoranti e alberghi non esistono ed è vietato fumare; dunque non vediamo l'ora di raggiungere il primo autogrill fuori città per accenderci una sigaretta. Tra l'altro all'uscita i dignitari della moschea vendono i loro rosari islamici con un’alacrità troppo sospetta.
E intanto che maciniamo chilometri, tutto il Senegal del Nord si mostra alla luce del sole: uomini che accarezzano caproni, camion colorati che celebrano il proprio marabout, transport en commun, zebù, auto abbandonate, galline nei portabagagli, insegne illustrate a mano, partite di pallone, teiere di gomma colorata per le abluzioni rituali, consigli sanitari scritti sui muri (lavarsi le mani, alimentare i bambini in modo equilibrato), baobab, spazzatura, rivendite di mobili, caschi e scarpe.

Il sabato del villaggio

Man mano che ci si allontana dalla regione costiera in direzione sud orientale, il paesaggio diventa sempre più arido e le temperature più elevate, i baobab alzano i rami al cielo, gli asini trainano i loro carretti quotidiani, le capre brucano quel che c’è, e poi sempre più numerosi diventano i tucul nella terra rossa, ogni tanto intervallati da una moschea bianca e verde. Al mercato del bestiame di Missirah sono convenuti un gran numero di pastori peul che ci guardano, alcuni con divertimento, altri almeno inizialmente con fastidio. Migliaia di montoni bianchi, di capre e poche mucche affollano la brousse, ma purtroppo siamo costretti a rifiutare l'acquisto di qualche capo da legare anche noi sul tetto del pulmino.

Da Tambacounda, dove abbiamo spezzato il viaggio trascorrendo la notte, per raggiungere la remota regione di Kédougou bisogna per forza attraversare il Parco Nazionale Niokolo-Koba, enorme con i suoi 9130 chilometri quadrati. La strada è lunga e non asfaltata, con conseguenti tonnellate di terra che entra nelle vie respiratorie. A causa del bracconaggio, degli incendi e dell'inaridimento precoce, il parco è iscritto nella Lista del Patrimonio Mondiale in Pericolo. Se nella stagione delle piogge il paesaggio appare verde e lussureggiante, adesso è secco e bruciacchiato, gli alberi sono scheletrici, i ciuffi di erbe gialli; ogni tanto compare un tir che va o viene dal Mali (o che è rimasto cappottato in mezzo alla strada chissà da quanto), mentre dal punto di vista faunistico si possono avvistare soltanto le scimmie della specie cercopiteco gialloverde (anche perché il numero dei grandi mammiferi è diminuito considerevolmente, e anzi alcune specie sono quasi del tutto scomparse).

Giunti nei pressi del fiume Gambia effettuiamo una sosta lungo la strada ed è l’occasione per entrare a curiosare nella vita quotidiana di queste popolazioni. Gira voce che si festeggi un matrimonio, per cui ci incamminiamo accompagnati dal solito stuolo di gioiosi bambini fino al centro del villaggio. Mentre nello spiazzo tra le capanne si cucina e si chiacchiera, mi introduco in una camera da letto già stipata di donne che ballano seguendo il ritmo del suonatore di tanica. Inizialmente immagino che si tratti del letto nuziale e che sia usanza inaugurare la nuova coppia con le danze, ma ad un certo punto la donna che si suppone sia la sposa comincia a piangere a dirotto tenendosi la pancia e si butta sul letto in lacrime. Le altre continuano a ballare e si indicano l'addome con espressioni contrite, finché qualcuno non ci spiega come stanno i fatti: non si tratta di un matrimonio bensì di una sorta di rito di fertilità. La donna in questione infatti, già sposata da un po’, non è ancora riuscita a rimanere incinta e questa potrebbe essere una vera tragedia per lei, destinata ad essere ripudiata dalla famiglia e a vivere infelice per sempre.
Attraversando a piedi il ponte sul Gambia ci possiamo rendere conto di come avviene il lavaggio della biancheria per chi non possiede una lavatrice: centinaia di persone a mollo nel fiume che strofinano vigorosamente vestiti e lenzuola colorati sulle rocce che affiorano, e poi li stendono (letteralmente) sul terreno.

In questa regione confinante con il Mali e la Guinea, da alcuni anni sono state scoperte delle risorse aurifere e numerosi piccoli villaggi, fino a quel momento tradizionalmente dediti all’agricoltura e all’allevamento, sono stati completamente stravolti dal punto di vista socio-economico. A Tonboronkoto veniamo accolti da anziani e bambini sotto l'albero centrale, mentre le donne sono tutte sedute all’ombra sull’uscio di una casa in muratura. La miniera si trova ad alcuni minuti di cammino nella savana, che raggiungiamo scortati da innumerevoli bambini che si disputano le nostre insufficienti mani (ne abbiamo infatti soltanto due a testa): la roccia rossa è tutta traforata da buche e cunicoli dai quali i cercatori d’oro (al momento assenti) prelevano il materiale da scavo. La sabbia risultante dalla macinatura delle pietre viene poi mescolata con l’acqua in una bacinella e, con rapidi e sapienti movimenti, l’eventuale oro presente viene trattenuto e il resto lasciato colare fuori, come ci viene mostrato da un esperto cercatore. Per quanto mi risulta, l'estrazione dell'oro di piccola scala è una delle più significative fonti di rilascio di mercurio nell'ambiente nei paesi in via di sviluppo, visto che questo metallo, combinato al limo raccolto, rende più facile il recupero dell’oro. Ma qua nessuno ne fa parola.

I paesaggi culturali dei bassari, dei fulani e dei bedik della regione di Kédougou da pochi anni sono tutelati dall’Unesco per le loro “pratiche agro-pastorali, sociali, rituali e spirituali simbiotiche con l’ambiente circostante”; un modo più elegante per dire che vivono lontano da tutto infrattati nella brousse e cercano di proteggere inutilmente le loro tradizioni, visto che appena uno può, emigra in città. Intanto per raggiungere il villaggio fulani di Ibel è necessario servirsi di una 4x4, indispensabile per percorrere la lunga pista sabbiosa. Da qui bisogna sobbarcarsi una lunga salita a piedi sotto il sole cocente nella campagna punteggiata dai bellissimi kapok dai fiori rossi, insieme ai soliti allenati ragazzotti che si propongono come guide o accompagnatori. Per visitare il villaggio bedik di Iwol bisogna portare in dono una significativa quantità di noci di cola e lecca lecca, oltre ai soldi naturalmente (il “diritto di visita” ammonta a 1000 CFA a persona). La particolarità dei bedik è che le donne hanno un buco tra le narici dove tradizionalmente inseriscono un sottile legnetto o spina di porcospino, non si è capito bene; curiosamente, la maggior parte di coloro che ne sono dotate porta uno stecchino di plastica del tutto simile a quelli del lecca lecca. I numerosissimi bambini invece stanno succhiando almeno un lecca lecca a testa, e prima ancora che noi gli regaliamo i nostri! I turisti solitamente ammirano le capanne col tetto conico di paglia (la più grande delle quali adibita a chiesa) e si soffermano sotto il baobab sacro (che secondo Jean-Baptiste, capo villaggio, interprete per i turisti e maestro da 34 anni, è il più grande del Senegal). 

Gli esseri viventi al momento presenti sono solo anziani, donne e bambini e la maggior parte di loro sta lì senza far niente. Le poche donne che sono in attività pestano i cereali nel mortaio con l’apposito paletto, o lavorano la pasta di arachidi con una bottiglia oppure selezionano le spighe di miglio; i bambini invece fabbricano camioncini con pezzi di legno di fortuna o giocano con le camere d’aria dei pneumatici. Alcune preadolescenti si fanno le treccine e due di loro si scattano foto col telefono. Un anziano vende dei coltellacci tradizionali. L'aula scolastica è vuota, sulla lavagna sono rimaste alcune parole in francese. Tra una capanna e l'altra qualche gallina e delle capre.

I bedik rappresentano circa l’1% della popolazione del Senegal e molti li associano ai vicini bassari – anche se secondo Jean-Baptiste questi ultimi hanno "venduto le loro anime" con l'arrivo dei primi turisti, mentre loro mantengono ancora le loro tradizioni millenarie. I bedik praticano una religione che miscela il cristianesimo portato dai francesi alle loro storiche radici animiste, e infatti molte leggende riguardano le diavolerie operate dal grande fromager e dal sacro baobab. I loro antenati sono le famiglie Keita e Camera, giunte dal Mali. Durante la guerra tribale condotta da tale Alpha Yaye, venuto dal massiccio Fouta Djallon per convertirli alla religione islamica, i bedik sono stati dispersi e molti di loro uccisi. In seguito si sono salvati soltanto sacrificando i giovani più valorosi allo spirito del villaggio, infatti quando Alpha Yaye tornò per sottometterli essi erano protetti dal suddetto spirito: sciami d'api combattevano per loro e pungevano a morte gli uomini di Alpha Yaye. Questo (sempre secondo il capo villaggio) è il più vecchio dei 7 paesi bedik di tutta l'Africa occidentale, infatti dentro al grande baobab c'è un cadavere che risale a cinque anni prima della crescita dell'albero e dunque si può facilmente arguire che esso risale al 13° secolo. 
Jean-Baptiste al momento è assente e dunque queste scarne informazioni non le apprendiamo dalla sua viva voce, bensì le leggiamo su una fotocopia in italiano. È presente sua moglie Adèle, da cui ha avuto 7 figli, che però non è un tipo molto espansivo. La popolazione è in continuo calo e oggi ammonta a circa 500 abitanti; essa è sempre stata formata da quattro famiglie con compiti e funzioni specifiche: i Keita, il ramo da cui nasce Jean-Baptiste, sono quelli che governano il villaggio, gli altri sono incaricati di organizzare le feste tradizionali, di assicurare il rispetto dei riti e dei costumi ancestrali e di realizzare gli attrezzi agricoli. Nel villaggio si può dormire per 3000 sefà, mangiare per 1500 e fare colazione per 1000. Noi però dopo esserci riposati intraprendiamo nuovamente il trekking in discesa, alla fine del quale ci attende inaspettata una capanna adibita a bar dove vendono la birra ghiacciata.

La tappa successiva è costituita dalle Cascate Dindefelo, quasi al confine con la Guinea. Per raggiungerle basta pagare 1000 CFA per l’ingresso e camminare piacevolmente per circa 25 minuti nella foresta, nonostante un po’ tutti sulla strada tentino di convincerci che è impossibile trovare la cascata senza guida e pretendano altri soldi. A dirla tutta, la cascata è identica a mille altre cascate in giro per il mondo, un luogo ameno dove provare refrigerio dopo ore di caldo e polvere e magari tuffarsi nelle gelide acque.

La prima notte a Kédougou alloggiamo presso un grazioso relais dove possiamo farci una nuotata in piscina prima della parca cena al ristorante affacciato sul fiume Gambia. Purtroppo la notte successiva non c’è posto, dunque dobbiamo accontentarci di uno spartano campement di Mako. Al nostro arrivo, in serata, ci vengono mostrati dei bungalow semplici ma puliti; tornata però in camera dopo cena trovo una spiacevole sorpresa: il pavimento compreso tra il letto e il bagno è ricoperto da un raccapricciante tappeto di formiche, e in particolare il gabinetto è diventato completamente nero. Corro a chiamare l’addetto, il quale con una velocità quasi comica mi aiuta a portare via tutti i miei averi, avendo cura di saltellare alternativamente su un piede e sull’altro per non farsi morsicare, e nel contempo spruzzando in ogni dove l’insetticida. Mi viene assegnato un altro bungalow identico a quello di prima, anch’esso inizialmente privo di formiche, ma purtroppo, come temevo, una mezz'ora dopo l’invasione si verifica anche in questa stanza. Vado a svegliare l’addetto, il quale prova a trovarmi un’altra sistemazione decente illuminando con la torcia stanze semidiroccate con giacigli di fortuna luridi, che io guardo inorridita. È dunque costretto a svegliare la cuoca e sua figlia, chiedendo loro di cedermi il loro letto matrimoniale, dove finalmente (pur sentendomi in colpa) riesco a fare qualche ora di sonno. La mattina dopo scopro che a qualcuno è andata peggio: della presenza delle formiche si è accorto soltanto una volta seduto sul water, nel cuore della buia notte, quando le stesse hanno cominciato a salirgli dappertutto e a morsicarlo.

Siamo sulla stessa barca

La Casamance è la regione più meridionale del Senegal, unita al resto del Paese come una mandibola a una mascella, con lo stato del Gambia a interpretare il ruolo delle labbra. La regione fu scoperta dai portoghesi a metà del Quattrocento, quando vi regnavano i Kasa, e solo alla fine dell’Ottocento la gran parte del territorio fu ceduta ai francesi, quando venne negoziato il confine tra il Senegal e l'attuale Guinea-Bissau. 
Per raggiungerla, da Kédougou bisogna ritornare fin quasi a Tambacounda e poi virare verso sud ovest: un tragitto lungo diverse ore che costeggia il confine con il Gambia e ci obbliga a fermarci a Kolda per la notte, visto che percorrere le strade senegalesi al buio non è consigliabile. Il relais di Kolda è praticamente identico a quello di Tambacounda, con la piscina al centro della costruzione, ma qui, essendo arrivati ad un’ora decente, possiamo approfittarne per un tuffo e un aperitivo in quest’altro rifugio di bianchi.

Lungo la strada che, seguendo il corso del fiume Casamance, procede verso l’oceano, il paesaggio è diventato decisamente più verde grazie al clima tropicale umido che permette lo sviluppo di manghi, fromager, anacardi, palme da olio, rampicanti... una faccia completamente diversa dello stesso paese visitato finora. Un kankouran arancione passeggia per la strada e i suonatori di tamburi e portatori di bastoni che lo accompagnano ci fermano per spillarci dei soldi. Queste tipiche maschere Mandinka originariamente sarebbero ricavate da foglie, cortecce e fibre vegetali, ma questa brutta copia indossa un accrocchio di strisce di stracci e tessuti sintetici. Inoltre il rito è praticato in occasione della circoncisione (che per i maschi segna l'ingresso nell'età adulta), generalmente tra il mese di agosto e di settembre, e non a Capodanno come in questo caso.

Il viaggio viene interrotto spesso ai continui posti di blocco, dove in molti casi siamo obbligati a scendere e mostrare i passaporti. Qui infatti è ancora presente il movimento separatista per l'indipendenza della Casamance (MFDC), che negli anni passati ha alimentato un lungo e violento conflitto contro le forze senegalesi fino al cessate il fuoco del 2014. Oggi sulla carta dovrebbe essere una regione sicura, se non fosse che due giorni dopo essercene andati tredici persone sono state uccise a colpi di arma da fuoco e sette sono rimaste ferite in un attentato avvenuto nella foresta a sud di Ziguinchor, il capoluogo della regione. Alcune fonti indipendenti parlano di una vendetta nata nell’ambito del traffico illegale di legname pregiato, ma secondo l’esercito del Senegal l’assalto potrebbe essere collegato alla recente liberazione di due membri del MFDC: per i media locali infatti gli autori dell’attacco apparterrebbero a un gruppo rivale.

A Cap Skirring si trovano le più belle spiagge del Senegal e molte strutture ricettive di tutte le categorie. L'ampia baia sabbiosa è in piccola parte occupata dallo stabilimento balneare del villaggio Club Med ma per il resto completamente deserta. La situazione è sempre la stessa: i bianchi sono stesi sui lettini a prendere il sole e i neri deambulano sulla battigia con le loro mercanzie da vendere; l’unica differenza è che qua anche i poliziotti che li cacciano sono neri. Nell’interno, tra le palme, alcuni baracchini provvedono ai semplici bisogni degli sparuti turisti: cibo, bevande, musica e spinelli. E insomma sembra proprio di stare ai Caraibi, anche perché molti abitanti dei Caraibi, grossomodo, proprio da qui vengono.
Anche a Cap Skirring c’è una spiaggia dei pescatori in pieno fermento, dove sono tutti affaccendati a mettere a posto le reti oppure a pulire il pesce e i molluschi, lasciando le interiora puzzolenti abbandonate in pasto agli uccelli. Mi viene offerta l’ataya da un gruppo di pescatori, insieme alla chela di un granchio appena arrostito sul fuoco. Il sogno di raggiungere l’Europa è molto comune da queste parti, il bello è che anche in Europa vorrebbero continuare a fare lo stesso mestiere. D’altra parte il settore in Senegal sta attraversando un periodo di crisi, minacciato dalla pesca pirata soprattutto straniera e dall’ipersfruttamento delle risorse ittiche.
Il sole man mano cala dietro alle ultime piroghe ritardatarie, rendendo il cielo giallo e poi rosa; nel frattempo una luna gigante sta sorgendo dietro le barche colorate ormai a riposo sulla spiaggia.

A circa 120 km dalla foce del Casamance, comincia la zona di estuario, caratterizzata da un vero e proprio labirinto di bolong (insenature) e marigot (fiumiciattoli) che tagliano la zona in tante isole; l’elevata salinità delle acque dovuta alla vicinanza dell’oceano Atlantico crea un ecosistema molto raro, nel quale effettuiamo una gita in piroga. L’imbarcazione procede lentissimamente sull’acqua liscia come l’olio, tra le impenetrabili foreste di mangrovie, sovrastata dagli uccelli acquatici. Ci fermiamo al villaggio di Ourong, all'ingresso del quale sono allestiti dei banchetti dove vendono quaderni, penne e gli onnipresenti lecca lecca che a quanto pare rappresentano una vera e propria fissazione da queste parti. Nella piazza principale è già in corso una danza per i turisti, quindi ci viene mostrato il bombolong o tamburo a fessura, un tronco d'albero usato per trasmettere messaggi da un villaggio all'altro. Osserviamo anche il nuovo pozzo per l'acqua, la "case de santé", l'operazione di recupero dei molluschi ottenuti rompendo dei conchiglioni col martello. Segue poi la visita alla scuola: i bambini sono seduti nei banchi con i loro quaderni e le loro lavagnette; la mia alunna preferita al collo porta un grosso osso di animale. La popolazione, principalmente costituita dai Jola, continua a praticare i riti animisti, come dimostrano ad esempio gli ossi e le zampe di gallina appesi ai rami degli alberi.

Percorso un altro braccio di fiume siamo ad Elinkin, villaggio di pescatori al momento affaccendati a scaricare grosse razze dall'imbarcazione, lanciate e poi raccolte e impilate sulla sabbia. Ci muoviamo poi seguendo l'odore pungente fino all'area di essiccazione del pesce. Infine in uno scenario da cartolina tropicale risaliamo sulla piroga alla volta dell'isola di Carabane, ormai praticamente alla fine dell'estuario, quasi nell'oceano. Qui ci aspetta una lunghissima spiaggia deserta con tanto di palme, alle spalle della quale visitiamo una serie di testimonianze storiche abbandonate in uno stato di trascuratezza e ruggine tra l’erba alta. Oltre ai resti di una chiesa e di una prigione per schiavi, c'è anche un cimitero in cui riposa eternamente un capitano francese il quale chiese di essere sepolto in piedi di fronte al mare: questa orrenda piccola piramide è oggi la sua tomba. Mi mangio un bel pesce alla griglia nell'attesa che anche Carabane – come il resto della Casamance – venga valorizzata e diventi attrattiva per i turisti come l'isola di Gorée.

One day in the Gambia

Paese ficcato dentro il Senegal come un tumore. 
(Dave Eggers)

Per essere onesti, la Casamance è ancora poco visitata non tanto a causa dei conflitti per l’indipendenza, quanto perché è difficilmente raggiungibile: andarci via terra implica le lunghe trafile ai passaggi di frontiera con il Gambia, non ci sono voli regolari che la collegano al resto del paese e bisogna mettere in conto qualcosa come 15-18 ore per approdarci in traghetto da Dakar – servizio ripristinato nel 2005, tre anni dopo il tragico incidente del Jola in cui persero la vita in mare quasi 2000 persone.
All'andata avevamo fatto il giro largo da Tambacounda ‒ itinerario sfiancante che ha senso soltanto se si intende approfittarne per visitare il parco di Niokolo-Koba o la regione di Kedougou ‒, ma per tornare a Dakar anche a noi tocca attraversare il Gambia, tagliato per tutta la sua lunghezza dal fiume omonimo. Il tragitto più breve dalla Casamance a Toubacouta passa per Banjul e Barra, collegate da un traghetto che percorre l'estremità della foce del fiume: sulla carta si tratta di 4 ore di strada, nella realtà è un’intera giornata trascorsa in perfetto african style

Intanto ancora prima di giungere al posto di frontiera di Sereti siamo sottoposti ai frequenti controlli ai posti di blocco; poi bisogna uscire da un paese, entrare nell’altro e pagare il visto anche se si è soltanto di passaggio. Appena si passa il confine improvvisamente nessuno più parla una parola di francese perché la lingua ufficiale qui è l’inglese. Finalmente posso imbastire tutte quelle scherzose conversazioni che in Senegal mi erano precluse: forse è per questo che ho trovato i gambiani davvero spassosissimi, a cominciare dal cambiavalute ricciolino con cui mi sono intrattenuta per tutto il tempo in cui ho atteso il timbro sul passaporto. Dai finestrini dell’autobus scorrono le solite file e file di negozi con insegne disegnate a mano, e intorno polvere, terra, magliette colorate, piedi nelle ciabatte di gomma.

A Banjul la fila di camion che si apprestano a salire sul traghetto non promette niente di buono. Salire a piedi è una procedura abbastanza rapida, nonostante la fiumana multicolore dal sapore biblico che affolla il ferry boat, e in un tempo umano siamo a Barra. Il pulmino invece riuscirà a raggiungerci circa 6 ore dopo, visto che proprio oggi è in corso una manifestazione dei supporter dell’ex presidente Jammeh, i quali non solo hanno intasato la strada per Banjul ma hanno anche monopolizzato i traghetti successivi al nostro. Sui loro vivaci abiti di tessuto stampato campeggia la faccia di uno dei più crudeli dittatori della storia recente.

Yahya Jammeh ha governato il Gambia dal 1994 al 2017 in modo a dir poco autoritario: gli arresti, le torture e altre violazioni dei diritti umani erano il suo passatempo preferito, la Banca Centrale del Gambia e la National Petroleum Corporation erano praticamente i suoi bancomat personali, gli omosessuali gli erano così simpatici che ogni tanto minacciava di tagliare loro la gola e in quanto al problema dell’AIDS, sosteneva di essere in grado di curare i malati a mani nude. Insomma non è un caso se questo è tra i 10 paesi di origine più comuni dei migranti che tentano di attraversare il Mediterraneo verso l’Europa. Per fortuna nel gennaio 2017, due mesi dopo aver perso le elezioni, è stato costretto a rinunciare al potere e ad andare in esilio. Adesso si dedica all'agricoltura in Guinea Equatoriale, una dittatura ancora peggiore della sua, da dove finché il presidente non aderisce alla Corte penale internazionale è difficile che venga estradato.
Non c'è da meravigliarsi se i membri dell'APRC (il partito un tempo guidato da Jammeh) ci tengono così tanto a far tornare il loro idolo al potere: ai vecchi tempi godevano di uno status invidiabile e guadagnavano benefici che il resto dei poveri gambiani si sognavano. Tra l'altro giusto un paio di giorni dopo il nostro passaggio, in una tappa successiva del loro tour nel paese, questi scalmanati di verde vestiti si sono scontrati con i sostenitori del Partito democratico che fa capo all’attuale presidente Adama Barrow.

A due passi dall’imbarcadero c’è un cartello scolorito su cui è disegnato a mano il simbolo dell’UNESCO accanto alla scritta “Fort Bullen”. Inizialmente ho pensato si trattasse della boutade di qualche buontempone, ma poi ho capito che la fortezza fa davvero parte del patrimonio “Kunta Kinteh Island and related sites”, che testimonia le varie fasi dei rapporti tra africani ed europei dal XV al XIX secolo. Il forte Bullen (come il dirimpettaio The Six-Gun Battery, situato sull'altro lato della foce del fiume Gambia) fu costruito nell’Ottocento con l'intento specifico di ostacolare il commercio degli schiavi, che nell'Impero britannico era da poco diventato illegale. Sono le uniche strutture difensive conosciute nella regione nate specificamente per questo motivo; le altre fortificazioni infatti (compresa l'isola Kunta Kinteh) servivano per migliorare e controllare il commercio di schiavi e merci e non per fermarlo. Grazie a queste due posizioni militari, gli inglesi presero il pieno controllo del fiume Gambia, aprendo quindi la strada alla creazione di un governo coloniale. 

A parte la breve parentesi storico-culturale, le tante ore trascorse nei paraggi del terminal di Barra non sono state affatto noiose. Considerando che il flusso turistico è sensibilmente calato negli ultimi anni, un gruppo di bianchi rappresenta una ghiotta occasione per qualunque gambiano un po’ scaltro per estorcere denaro o numeri di telefono in vista di un eventuale ingresso in Europa. Anche le proposte di matrimonio fioccano una dopo l’altra, con la clausola che, pur non essendo l’unica, la moglie europea sarà trattata come una regina. Naturalmente non tutti sono così venali o in vena di romanticismo, la maggior parte delle persone incontrate in quelle ore vuole semplicemente chiacchierare. 
Infine, il terminal dei traghetti è una passerella affascinante di gente multicolor carica di fagotti, tra i quali ogni tanto non è difficile riconoscere qualche pacchiana comitiva bianco-verde dei supporter di Jammeh, sfrontati nei loro canti e balli.
A causa di questo imprevisto siamo costretti a rinunciare alla visita del Reposoir des Oiseaux, visto che arriviamo all’Africa strike di Toubakouta molte ore dopo il tramonto.

Parenti contenti

La Petite côte è il tratto di costa a sud di Dakar, caratterizzato da clima piacevole, spiagge riparate dalle correnti e mare adatto alla balneazione. Qui entro in contatto con i Sérèr, la terza etnia dominante del paese, con cui concludo il tour dei principali popoli senegalesi e gambiani: i maggioritari Wolof, i pastori Peul, i Bassari e i Bedick di Kedougou, i Jola della Casamance, i Mandinka, presenti soprattutto in Gambia e dintorni.
Questo mosaico etnico non è ovviamente una prerogativa del Senegal ma si ritrova in quasi tutti i paesi africani. Durante il colonialismo i paesi europei hanno mantenuto e in certi casi alimentato queste divisioni per un loro tornaconto, forzando diversi popoli in un unico stato, creando mostruosità come il Gambia incastonato dentro al Senegal e spesso accendendo la miccia per molte guerre a venire ‒ molte delle quali tuttora in corso. In Europa invece, anche grazie al principio dell’autodeterminazione dei popoli, etnia e nazione in linea di massima coincidono.

In un periodo in cui nella vecchia Europa l’identità culturale e persino etnica è diventata un valore da difendere a spada tratta, paradossalmente è proprio in questa parte dell’Africa che si può apprendere una nuova modalità per relazionarsi in maniera pacifica e conciliante, mettendo da parte la prevaricazione e l’aggressività ormai così diffuse. Si tratta del cosiddetto "cousinage à plaisanterie", una relazione tra due persone nella quale uno è autorizzato a stuzzicare o prendere in giro l'altro, il quale da parte sua non se la deve prendere. La “parentela scherzosa” infatti prende la forma di un gioco tra due persone di comunità diverse, che simbolicamente rappresentano due cugini della stessa famiglia: in questo tipo di dialogo giocoso ognuno porta come argomento una qualsiasi caratteristica che differenzia la propria comunità o gruppo socio-economico da quello dell’interlocutore; le due persone sembra che stiano litigando o addirittura si stiano insultando, ma in realtà non hanno alcun risentimento e anzi alla fine si fanno una grossa risata oppure si abbracciano. Questa relazione è spesso il risultato di un patto ancestrale che vieta i conflitti tra le comunità in questione, ed è praticata in situazioni quotidiane oppure in occasioni speciali come feste e cerimonie; essa promuove la coesione e la stabilità delle famiglie, i gruppi etnici e le comunità, tanto che l'UNESCO nel 2014 ha decretato che questa pratica soddisfi i criteri per l'iscrizione nella Lista rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell'Umanità. 

Nella “piccola costa” mi aspetta un’altra escursione in piroga simile a quella organizzata in Casamance, ma molto più frequentata. Il contesto è il delta dei fiumi Siné e Saloum, parco nazionale dotato dei già noti canali salmastri, isolotti, banchi di sabbia e mangrovie. Di nuovo in piroga sull'acqua ferma come olio fino al piccolo villaggio di Diogane, dove vengo condotta in una scuola. Qui si denota chiaramente un rapporto con i turisti molto più commerciale e un’attitudine generalmente più menefreghista, visto che le frotte di bambini, lasciati scorrazzare incustoditi in una ricreazione infinita, infilano spudoratamente le loro manine nelle borse dei turisti e lanciano certi sguardi velenosi spesso conditi da probabili insulti. Insomma, non vedo l’ora di scapparmene. Per pranzo gli organizzatori della gita hanno scelto un posticino appartato dove si sono messi ad arrostire del pesce sulla spiaggia. Ed è subito Jamaica.
Il capolinea della navigazione è Djifer, caratterizzata da un’ennesima spiaggia di pescatori allietata dai colori delle barche e degli abiti, montarozzi di gusci di conchiglie e puzza di pesce sotto sale. Il tramonto mi coglie a Palmarin in un ecolodge sulla spiaggia; all’ora dell’aperitivo spira un vento drammatico e devo fare i conti con la porta della capanna, così imbottita di salsedine che non si chiude.

L’ultima giornata di visite si svolge nel Senegal più turistico. Samba Dia, conosciuto come il baobab più grande del paese, non è altro che la scusa senegalese per vendere souvenir. Alle immancabili isole gemelle di Joal e Fadiouth si giunge percorrendo un ponte pedonale: nella prima nacque l’ex presidente e poeta Senghor e c’è una chiesa cattolica con un cuore rosa di cemento sul campanile, la seconda ospita un cimitero musulmano-cristiano su un pavimento di conchiglie. M'bour, la più grande città della costa, è la tappa per fare della beneficenza al locale orfanotrofio. E infine l'evitabilissima Reserve de Bandia: il giro in jeep fa scorrazzare i turisti in una specie di zoo dove, viste le cifre esorbitanti del biglietto, vedere gli animali della savana è sicuro al cento per cento. Da segnalare il tramonto tipicamente africano tra i baobab.

Le ultime 24 ore sono le più tipicamente vacanziere: posso vantare una cena a buffet a base di ricci di mare e ostriche, una permanenza in spiaggia semideserta (se non contiamo i giovanotti del luogo che fanno il bagnetto domenicale alle capre), una lunga passeggiata fino alla laguna di Somone, una nuotata al tramonto e un’ultima Flag prima del trasferimento all'aeroporto di Dakar.
E anche stavolta, con l'odore persistente di burro di karitè addosso, è giunta l'ora di tornare all'inverno.

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