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Cose turche

Istanbul-Cappadocia in solitaria

Per il mio primo viaggio extraeuropeo postpandemico ho scelto la Turchia, un Paese che amo, collegato da un comodo volo diretto da Bari, dove sono già stata più di una volta, sperimentando tra le altre cose la comodità dei suoi autobus e la squisita ospitalità dei suoi abitanti. Questo nonostante il fatto che una serie di persone di mia conoscenza non condivida, diciamo così, questa scelta – le stesse persone che quando sono stata ad esempio in Uzbekistan o in Vietnam (governate da regimi altrettanto, se non più autoritari) non hanno avuto niente da ridire. Questa volta la meta principale sarebbe stata la Cappadocia, ma avendo due settimane di tempo ci volevo arrivare lentamente, viaggiando via terra e facendo delle soste nella regione occidentale.

Istanbul di nuovo tu

Intanto per via del mega ritardo del volo per Istanbul sono arrivata a Galata così tardi che quando il muezzin ha chiamato alla prima preghiera della giornata (ore 4:35) ero ancora sveglia. Il mio piano era passare una giornata a Istanbul e organizzare il primo spostamento verso sud, ma non avevo previsto che il giorno in questione coincidesse con la vigilia di Bajram, la più importante festa del Paese, la quale sarebbe durata quattro giorni. Oltretutto poi ho scoperto che questi quattro giorni si attaccavano con un facile ponte alla festa nazionale che cadeva il venerdì successivo e anche di conseguenza al fine settimana, creando una lunga vacanza di nove giorni. A maggior ragione, partire verso il sud ovest il venerdì 8 luglio era impossibile: tutti i mezzi di trasporto erano già prenotati. Vogliamo aggiungere che non potevo acquistare un biglietto online perché non accettavano le mie mastercard? Oppure che volevano un numero di telefono turco che non possedevo? Alla fine, su consiglio di un ragazzo gentile che lavora in un'agenzia di viaggi a Sultanahmet, ho deciso di raggiungere la Cappadocia via Ankara, riservandomi di comprare il biglietto alla stazione.

Nel frattempo Istanbul ha sempre il suo fascinoso splendore di gabbiani, pescatori, bancarelle, frutta, ponti, foulard, mentre me la cammino col sorriso prontissimo. Un ristoratore del ponte di Galata mi invita per un tè perché ha voglia di fare due chiacchiere, e la sua prima domanda è: Perché gli italiani non vengono più tanto in Turchia? Io ho accennato alla serie di conoscenti, quelli che non avevano avuto niente da ridire quando ero andata ad esempio in Siria o in Etiopia. Ma gli ho detto anche che hanno paura del Covid, gli italiani. Questa domanda me l'hanno fatta anche altre persone nel resto del viaggio, tra cui un venditore di tappeti e operatore del turismo che mi ha fermato a Konya, esprimendo la speranza (da me incarnata) che dopo la pandemia tornassero i turisti occidentali a Konya. Costui, quando gli ho raccontato le mie difficoltà logistiche legate al Bajram, ha aggiunto strizzando l'occhio: "È anche per questo che si viaggia, no?" Comunque il ristoratore del ponte di Galata, come il 90% delle persone incontrate nel Paese che hanno chiacchierato con me anche per una o due ore, era curdo, precisamente di Mardin, che è una città che ho nel cuore e che ritrovo negli occhi del ristoratore del ponte di Galata e negli occhi buoni, umani, solidali di tutti gli altri.
In queste due striminzitissime giornate a Istanbul, ho fatto anche la visita al palazzo Topkapı e la crociera sul Bosforo, dove ho visto i delfini e ho visto anche più bandiere turche in un'ora che bandiere italiane in anni. I prezzi sono ancora bassi rispetto all'Italia poiché la Lira Turca ha perso molto valore negli ultimi tempi, anche se in certi luoghi bisogna stare attenti: ad esempio in un locale di Galata sono stata accolta festosamente da tutta la comitiva di giovani che ballava sulle note del dj e poi il titolare voleva farmi pagare quasi dieci euro due dita di raki (che io naturalmente non gli ho dato).

Prima di raggiungere la stazione degli autobus di Esenler ho deciso di andare all'hamam di Balat che già conoscevo, ma evidentemente ho sbagliato l'ingresso perché quello che conoscevo io era solo femminile mentre qua erano tutti uomini. Superato l’imbarazzo iniziale, anche perché nel frattempo era arrivata una ragazza polacca col suo fidanzato, il mio massaggio, per quanto superprofessionale anche se troppo energico, pareva durare per sempre e sono stata io a un certo punto a dire all’energumeno il cui sudore mi sgocciolava addosso da troppo tempo: Scusa ma quando finisce? Insomma me ne sono andata abbastanza seccata e con i capelli bagnati.
La Turchia non è stata toccata dal gran caldo che ha afflitto l’Europa (in Cappadocia un tizio mi ha detto che quest'anno l'estate non è mai arrivata): questo per dire che girare con i capelli bagnati nella sera di Istanbul non è stata una genialata. Poi ho cenato in un ristorante così fuori dai circuiti turistici che il menu era indecifrabile e per loro io ero una celebrità.... come in India! Il solerte titolare mi ha chiamato un taxi per la stazione aprendomi cerimoniosamente lo sportello, il tassista è stato così super espansivo che poi non ho badato al taximeter e quando all'arrivo mi ha chiesto una somma esagerata io gliel'ho pure data perché nel frattempo ero arrivata all'inferno.
La stazione degli autobus di Esenler il venerdì sera pre-Bajram era un caos inestricabile, in cui riuscire a comprare un biglietto per Ankara è stato un miracolo (per il quale devo ringraziare un sollecito e simpaticissimo impiegato che parlava addirittura un po’ di inglese), e poi per due ore non si è capito più niente perché nessuno sapeva da dove il proprio autobus sarebbe partito, e c'erano tipo 50 persone che cercavano di tirare il braccio all'unico impiegato deputato a dare informazioni e ho assistito ad almeno due tentativi di rissa, finché ho trovato uno con la maglietta gialla che aveva il biglietto per il mio stesso autobus e mi sono appiccicata a lui finché siamo partiti, circa due ore dopo l'orario ufficiale.

Un giorno ad Ankara

Negli autobus turchi è ancora più visibile la presenza di una solidarietà che da noi abbiamo perduto da tempo. Si cambia posto di buon grado se serve, ci si ferma se si trova qualcuno lungo la strada con un mezzo in panne, ci si aiuta spontaneamente. Tra l'altro devi dire se sei uomo o donna così non ti fanno sedere accanto a uno sconosciuto di sesso diverso e ci sono bevande e snack a disposizione dei passeggeri. Quella notte l'autostrada era trafficatissima, ho dormito poco e niente, quando siamo scesi al mega autogrill c'era un freddo assurdo e quando siamo arrivati ad Ankara con un ritardo macroscopico diluviava. Nel frattempo nel finestrino avevo visto dei grattacieli inquietanti tipici dell'Asia nella nebbia fitta. E anche l'hotel di Ankara potrebbe tranquillamente essere a Bishkek o Tashkent: Asia vera. Inglese niente, struttura e camere perfette con materasso professionale e quel concetto di eleganza asiatica quantomeno discutibile, tè e caffè a disposizione, personale che non ha praticamente niente da fare tutto il giorno, tranne fumare e bere il tè seduti al tavolino di fronte all'ingresso. 

La giornata ad Ankara prende una piega mite e soleggiata mentre visito il mausoleo di Atatürk, eroe fondativo, paladino del laicismo e dei diritti umani, amato e celebrato in tutto il paese, che è comunque un posto emozionante, sia il solenne e scenografico monumento sotto le nuvole bianche, sia il rito del cambio della guardia, sia l’interessante museo. Quindi mi faccio portare nella città vecchia, dove c'è un castello che non c'entra niente con il resto della città, e trovo un giardino con un ristorante pieno di messicani che bevono birra. Il palazzo presidenziale me l'aveva mostrato il tassista la mattina e non ho pensato che fosse utile andarci di persona. Al parco ho mostrato i primi segni di cedimento semiaddormentandomi su una panchina, mentre famiglie e gruppi di amici mi passavano davanti con il passo pigro tipico delle giornate festive e dal luna park arrivavano le urla dei ragazzi sulle giostre. E infine sono entrata nella stupenda moschea di Kocatepe.

Per riuscire a bersi una birra, in molte località della Turchia bisogna fare una specie di indagine di mercato, schivando accuratamente tutti i kebab e kahvesi o cafè. Ad Ankara a quanto pareva bisognava scendere un po’ a sud della moschea, cosa che ho fatto mentre tutto lasciava presagire un imminente temporale. A causa del Bajram la night life oggi non ha luogo, ma normalmente sì, devi tornare, mi dice uno studente di ingegneria informatica divertente e arguto che lavora in questo pub e che passa almeno un'ora e mezza a parlare con me. Non ama il Grande Presidente. Naturalmente è curdo.
Verso le dieci torno in hotel decisa a recuperare il sonno perduto, cosa che però non accade perché mi sale la febbre e con essa anche una vaga preoccupazione. La mattina dopo la passo a letto prima di recarmi all’otogar a prendere l'autobus per Göreme.

Robe di Cappadocia

Sono arrivata a Göreme, il cuore della Cappadocia, e – nonostante la bellezza del paesaggio che mi circondava – alla venticinquesima travel agency incontrata in cinque minuti a piedi mi è venuto l’impulso di scapparmene. Però comunque ho continuato a camminare finché ho incontrato questo ragazzo che mi ha chiesto se volevo chiacchierare con lui visto che era venuto a lavorare qui "to improve his english". Poi la foto che mi ha fatto sull'altalena con la lavanda avrebbe gradito che io la pubblicassi su instagram. Finito il fatto del ragazzo, allontanandomi dal centro, ho proseguito tra questi pinnacoli che emergono da un paesaggio che è un misto tra i sassi di Matera e i calanchi lucani. A un certo punto mi hanno chiamato da una casa scavata nella roccia: A. ha l’abitudine di fermare i turisti che passano dalle sue parti e invitarli a bere un bicchiere di vino e a mangiare per esempio delle ciliegie asprigne o dello yogurt casalingo. Poi io ci sono rimasta almeno due o tre ore con lui e due suoi amici: entrambi lavorano nel turismo mentre A. fa l’addestratore di animali, ma in questi giorni è in ferie. Mi mostra anche il suo cavallo di un anno, l’unico che gli è rimasto, e dei piccioni ammaestrati, che lui si diverte a vedere volare. A un certo punto viene acceso anche un falò visto che le temperature sono precipitate. Poi andiamo in città, che poi non è altro che un agglomerato di alberghi e ristoranti, i quali immancabilmente contengono la parola “cave” (grotta) nel nome. In questo tour serale mi viene offerto un pezzo di lahmacun (la pizza turca) presso l’hotel dove lavora il figlio di A. e anche una çorba di lenticchie presso l’hotel dove lavora uno dei suoi due amici. Questo per dire che a volte sono troppo precipitosa nelle mie reazioni.

Alla fine, sono rimasta cinque giorni a Göreme, dove per mia fortuna avevo trovato una camera in uno dei pochi alloggi senza “cave” (né di nome né di fatto), dotato tra l’altro di un bel giardino, di una graziosa piscina, di un bar e di molte aree di socializzazione. Qui mi hanno anche prenotato un'escursione di un giorno, il giro in mongolfiera e una cena-spettacolo parecchio kitsch. Il resto l’ho visitato in autonomia a piedi o con i mezzi pubblici, alternando questi spostamenti a mezze giornate di relax, indispensabili visto che avevo l’influenza.
Per quanto riguarda l'escursione, dal titolo "Green tour", un pulmino va a prendere i partecipanti ognuno nel proprio cave hotel (tra l'altro c'è chi ha pagato 40 euro, chi 45, chi 50): oltre me, ci sono una ragazza indiana, una macedone che vive a Londra, una coppia di cinesi che vivono in UK, una coppia di indiani e due ragazze di Valencia. Partecipare a questi tour ti permette di visitare comodamente più attrazioni anche lontane, di socializzare e anche di avere una guida che parla inglese e che ti spiega un po' di cose (in questo caso la guida, ovviamente, era di Mardin!). In cambio però, a parte l'aria condizionata polare erogata puntualmente dal pulmino, ti fa sentire impotente e frustrato nel caso in cui ti dovessi imbattere in un matrimonio popolare senza poter scendere a festeggiare con gli invitati (e non lo dico in astratto).

Le prime due tappe sono soste panoramiche, una per ammirare Göreme dall'alto e l'altra la valle dei piccioni (seguita da un'inutile visita a un negozio di gioielli): in questi luoghi apprendiamo dalla guida che il nome Cappadocia deriverebbe dal persiano «terra dei buoni cavalli» (anche se è più filologicamente attendibile l'etimologia "terra bassa", di origine ittita). Inoltre ci viene raccontato come si è formata la Cappadocia, questa terra dalla conformazione geologica unica al mondo, ricca di cavità, grotte e piramidi di terra di origine vulcanica. E infine bisogna citare i piccioni, che a me non hanno mai ispirato simpatia, mentre qua ce ne sono un sacco e storicamente sono considerati molto utili, soprattutto per il potere fertilizzante dei loro escrementi. 
Dopo un lungo tragitto in auto ci aspetta la visita alla città sotterranea di Kaymaklı, articolata su otto livelli uno più profondo dell'altro: di città sotterranee ne sono state scoperte tante nella regione, ma questa a quanto pare è la più grande; molti sono gli enigmi relativi alla loro storia, ma la presenza di chiese al loro interno rende plausibile il fatto che fossero abitate durante il periodo di persecuzione romana contro i primi cristiani. Per pranzo ci spostiamo nell'Ihlara Valley, in particolare a Belisirma, dove ci sono molti tavoli direttamente sul fiume ma per i turisti del tour è previsto un tavolo non sul fiume, con menu fisso e bevande esose. Il trekking nell'attiguo canyon è molto più breve di quanto ci era stato detto, anche se abbastanza piacevole; durante il cammino la guida mi ha detto che andare da sola a Konya poteva essere pericoloso, visto che è una città molto tradizionalista, e anche che la Turchia è piena di rifugiati siriani, afgani, iraniani eccetera e non se ne può più, senza contare la crisi economica, i prezzi che aumentano in continuazione e gli stipendi che restano bassi e infine il Grande Presidente che continua a togliere i diritti. L'ultima tappa è il bellissimo monastero di Selime, scavato nella roccia, e in particolare la sua cattedrale rupestre. 

A volteggiare sulle decine e decine di agenzie turistiche e di cave hotel, a Göreme c’è sempre un sacco di polvere e infatti certi camion sono deputati ad innaffiare le strade. Il fatto è che qui il gas di città è arrivato solo l’anno scorso e dopo i lavori non hanno ancora asfaltato le strade, mi dice il tizio che fa le spremute d’arancia. Poi ci tiene a informarmi che fa dieci lavori, iniziando alle tre di mattina con il fatto dei baloon. Sono moltissimi gli uomini di queste parti che si svegliano molto presto la mattina: il business delle mongolfiere è infatti molto fiorente.
Quando sono venuti a prendermi alle 3 e mezza era ancora buio. Nel pulmino c'erano due ragazzi di Gibilterra molto contenti che io non solo conoscessi il loro luogo di origine ma ci fossi anche andata. Loro ci avevano già provato il giorno prima a fare il volo, ma all'ultimo lo avevano annullato per motivi di sicurezza (cosa non infrequente). Per questo si erano rivolti al mercato nero e avevano pagato 100 euro più degli altri per il giro odierno.
Alle sei e mezza, dopo aver morbidamente sorvolato questa valle della Cappadocia piena di calanchi, grotte e camini delle fate, dopo aver visto il sole che sorge e dopo aver bevuto un bicchiere di spumante mischiato allo sciroppo di ciliegie, sono tornata a dormire. Se non ci fossero le foto, sarei convinta di averlo solo sognato.

La Cappadocia ha visto susseguirsi le dominazioni di alcune antiche civiltà (come gli assiri, gli ittiti e i persiani) prima di essere annessa come provincia all'Impero romano. Tra il II e il III secolo si assistette dunque alla diffusione del cristianesimo, come testimoniano le tantissime antiche chiese ancora presenti nella regione. Il museo a cielo aperto di Göreme, per esempio, è un complesso di chiese, cappelle e monasteri scavati nella roccia, dove sono presenti antichissimi affreschi biblici che hanno sfidato impavidamente gli effetti del tempo. 
Pasabag è famosa per i cosiddetti "camini delle fate", sorta di funghi di roccia creati dall'erosione del tufo (anche se è più suggestivo credere che siano state le fate a realizzarli). Per entrare nel sito, a differenza di luoghi simili come la Love valley, bisogna pagare un biglietto e attraversare una galleria commerciale, proprio come in autogrill. A quanto pare, San Simeone lo stilita, che normalmente risiedeva in Siria a nord di Aleppo (molti anni fa visitai il sito con i resti della famosa colonna sulla quale passava le sue giornate), si trasferì qui per un periodo imprecisato, vivendo in un piccolo rifugio in cima a una roccia a forma di cono. Probabilmente si era stufato di tutti quelli che andavano da lui a chiedere consigli e miracoli e si prese un periodo di ferie. Di eremiti che vivevano qui (e in altre valli) ce n’erano molti altri e infatti Pasabag viene anche chiamata valle dei monaci.
Pasabag è collegata a Göreme da un servizio di dolmus (minibus) che in realtà (per quanto economici) tanto comodi non sono, perché non si capisce mai a che ora passeranno e poi si fermano in continuazione per caricare e scaricare persone. Inoltre, quando sono uscita dal sito, e dopo un'attesa di circa 40 minuti sotto il sole, uno ne è passato ma non si è fermato, costringendomi a chiedere un passaggio a un sacco di gente non tanto bendisposta, prima di trovare una coppia che – dopo un lungo momento di incertezza – ha acconsentito.
Per concludere il piccolo excursus storico-religioso, dopo l’anno Mille qui arrivarono i selgiuchidi, islamici, che nel tempo spinsero le popolazioni cristiane verso la costa e costruirono numerosi caravanserragli che fornivano alloggio alle carovane che percorrevano la Via della Seta. Nei secoli che seguirono, l'Anatolia fu teatro di conflitti tra i selgiuchidi, i bizantini e i crociati, fino a che nel XV secolo iniziò la lunga epoca dell’Impero ottomano.

Con il solito dolmus lentissimo che tutto il giorno fa la spola da una parte all’altra, mi reco ad Avanos (piacevole e tranquilla cittadina situata sulle rive del fiume Kizilirmak, poco turistica), e ad Ürgüp, molto più frequentata: essa sorge ai piedi di una scenografica collina, è dotata di molti hotel, negozietti e ristorantini, in uno dei quali mi fermo a mangiare una çorba. Il cameriere mi dice “italians fashion” a significare che ci riconosce subito noi italiani perché ci vestiamo molto bene. Inoltre mi informa che in Cappadocia non c’è il pienone di turisti perché con queste vacanze la gente ha preferito recarsi nelle località di mare della costa occidentale e meridionale. Qui il mio proposito di arrivare ad affacciarmi sul Mediterraneo perde quella poca consistenza che ancora gli restava.
All'ora del tramonto tutti si arrampicano fino al sunset point di Göreme e una volta lo faccio anch'io, nonostante abbia poco fiato e ci sia un vento piuttosto fastidioso. Oltre alla splendida vista sul fiabesco paesaggio, in questa stagione ci sono numerosi campi di lavanda in fiore, molto viola e profumati.
Quindi, per un caso fortuito, la sera mi ritrovo a festeggiare Osman, che compie 33 anni, si sposa fra 16 giorni ed è preoccupato per la sua prima notte di nozze. A parte me ci sono tre suoi amici e tutti bevono raki accompagnato da pezzi di melone, cetriolo, noccioline e cose così. Oltre alle sigarette si fuma pure la shisha, a giro. La musica che ascoltiamo da una cassa bluetooth è ovviamente turca e quando chiedo di mettere qualcosa di più allegro dicono che no, con il raki si ascolta musica malinconica. Uno degli amici di Osman più beve e più si avvilisce, dice che non sa mai con il raki come reagisce. A un certo punto, Osman urta con il gomito la shisha, che è di vetro ed è alta mezzo metro, la quale gli cade addosso: dei pezzi di carbone gli ustionano la coscia e lui non si capisce perché si strappa un pezzo di pantaloncino e se lo lega a mo' di fasciatura. Questo avviene subito dopo che lo stesso festeggiato aveva pronunciato le seguenti parole: "Do you believe in covid? I don't believe". Comunque a quel punto barcollando si avviano verso la macchina, ridendo al pensiero di come giustificare il tutto se fossero stati fermati dalla Polis. I festeggiamenti possono ritenersi conclusi.

Nonostante le mie precarie condizioni di salute, alla fine sono riuscita a vedere le attrazioni principali della Cappadocia, anche se ho dovuto rinunciare del tutto ai trekking. Mi mancava soltanto il fiabesco villaggio di Uçhisar, che però ho visto di sera, mentre V. mi accompagnava alla famigerata Turkish night. “Qui ci sono solo hotel per blogger o ricchissimi, non per noi!” commenta il mio autista di fronte ai miei oh di meraviglia.
Poco dopo il nostro arrivo a destinazione, è giunto un autobus da cui sono scese almeno quaranta donne e sporadici uomini. Sfoggiano un’eleganza d’altri tempi, fondata sul religioso principio del colore pastello. Sono georgiani. Altri autobus hanno sfornato comitive di provenienza molto simile, apparentemente, alla prima (ma anche, mi sembra, dell'estremo oriente), le quali si sono man mano accomodate ai tanti tavoli apparecchiati in questa grande grotta della Cappadocia. Immediatamente si sono materializzati dei camerieri che portavano una bottiglia di vino, una di raki e una di vodka, tra cui scegliere. Le danze sono iniziate subito, mentre cercavo – nei piattini presenti sul mio tavolo – qualcosa che non contenesse aglio, cipolla, cetriolo e peperoncino. Questa dozzina di ballerini, metà donne e metà uomini, che si presta alla messinscena, non fanno altro che cambiarsi d’abito a seconda della danza in programma, che potrebbe essere legata alla guerra come all’amore. A un certo punto, dopo l’apparizione di una presunta sposa a cavallo, siamo invitati a seguire in fila indiana uno di loro che ci porta in un cortile dove era stato acceso un falò, la musica continua e quando torniamo dentro ci aspetta uno striminzito spezzatino che alla fine sarà praticamente l’unico piatto della cena oltre gli immangiabili antipasti. Poi appare un derviscio 2.0 che ha la gonna che si illumina mentre gira. E infine il momento tanto atteso: la danzatrice del ventre, che scende dal soffitto dentro a un tubo di vetro. Dopo aver ballato per una decina di minuti, la tipa sceglie cinque maschi promettenti presenti in sala e li utilizza a fini, diciamo così, comici, costringendoli a fare alcune mosse di "belly dance".
Verso le undici V. e sua moglie vengono a prendermi, beviamo un ultimo bicchiere di vino e facciamo due chiacchiere. Le comitive arrivate con i pullman sicuramente si sono divertite, io non tanto. Lei è un’australiana bionda e mi capisce benissimo; non è stato facile sposare un turco che proviene da una famiglia abbastanza tradizionalista, con la mamma e la sorella che indossano il velo (per fortuna, anche se non hanno approvato la scelta, la rispettano). E comunque, la presenza di V. e di sua moglie, che gestiscono la “pansion” fricchettona dove ho alloggiato, ha contribuito non poco al mio benessere durante il soggiorno in Cappadocia.

15 temmuz a Konya

La breve sosta a Konya l’ho prevista fondamentalmente perché è la città dei dervisci rotanti, infatti il fondatore di questo ordine (il poeta sufi persiano Gialal al-Din Rumi) visse qui ed è sepolto nel mausoleo di Mevlana. Ancora oggi i dervisci si esibiscono nella cosiddetta “sama”, che è un vero evento spirituale – e non un balletto turistico come potrebbe capitare in altre città turche – a cui speravo di poter assistere.
Come prima cosa vado ad omaggiare la tomba di Rumi presso quello che – oltre ad essere sede dell'ordine dei dervisci – da circa un secolo è diventato un museo che attira torme di visitatori. Ci mettiamo i copriscarpe da piscina per entrare nella piccola stanza decorata con preziose calligrafie ottomane: qui, oltre al sarcofago di Mevlana, che si trova sotto una cupola verde ed è coperto con un drappo in broccato ricamato d’oro, ce ne sono molti altri, sia di suoi parenti, sia di dervisci.
Del complesso fanno parte altri locali, come la cucina, le celle dei dervisci, una piccola moschea e la sala rituale, dove veniva celebrata la "sama" – stanza che oggi contiene gli strumenti musicali tradizionalmente usati in quell’occasione.
Purtroppo la bellissima cupola conica di ceramica turchese (ispirata all'architettura delle chiese armene) è in fase di restauro e non è visibile.

Nella piazza principale di Konya, non lontano dalle gigantografie del Grande Presidente e di Atatürk (separati da una bandiera nazionale), è stato allestito un palco enorme dove dei chitarristi classici stanno eseguendo il sound check in vista del concerto di stasera. In realtà, ho capito man mano che passeggiavo per la città, l’evento non è un semplice concerto, bensì fa parte della solenne celebrazione della “Giornata della democrazia e dell’unità nazionale”, questa festa nazionale proclamata già nel 2017 per commemorare il fallito colpo di stato di un anno prima. Nelle piazze delle città turche sono allestite delle gallerie fotografiche che celebrano l’epopea del 15 luglio, ricordando gli eventi di quella notte epica: persone comuni scese in piazza per fermare con i propri corpi i carri armati, bandiere che sventolano, gente che festeggia, martiri per la democrazia... insomma una narrazione nuova di zecca che segna una nuova pagina di storia nazionale, scandita dai seguenti slogan: “Türkiye Aşkına” (per amore della Turchia), “bayrak uğruna” (in nome della bandiera) e “demokrasi uğruna” (in nome della democrazia).
Quando mi fermo a mangiare una pita in un bar, il Grande Presidente, nel televisore a parete, sta affermando che il tentativo di colpo di stato è stato uno degli attacchi più vili effettuati contro la nazione, ma che quella notte i turchi hanno eroicamente difeso la repubblica, la democrazia e tutte le conquiste, a costo della vita. Aggiunge che la Turchia attualmente è nel mirino di forze che cercano di distruggerla, ma che supereranno per primi l’inflazione e insomma la Turchia non sarà mai messa in ginocchio da nessuno. In giro ci sono ancora più bandiere del solito, cosa che sembrerebbe impossibile, ma tant’è.

Verso le nove la piazza è gremita: c’è chi è in piedi e sventola la bandiera, moltissimi sono seduti sulle scale della moschea (che è aperta e illuminata), altri siedono per terra mangiando e bevendo bibite analcoliche. Tutti fanno foto e video con lo smartphone. A un certo punto il muezzin si è sovrapposto alle parole dei politici presenti sul palco, le cui immagini sono proiettate sui maxischermi (il primo contributo video, però, era del Grande Presidente). La parola “demokrasi” viene ripetuta in continuazione, le bottigliette d’acqua sono gratis, tra un discorso e l’altro viene sparata musica motivazionale ad alto volume, molti indossano magliette o recano in mano palloncini rossi con la mezzaluna nazionale. Un drone ronzante riprende tutto dall'alto.
In fin dei conti, anche se sono dispiaciuta di non aver potuto assistere alla “sama” (che oggi non ha avuto luogo), è stato molto istruttivo partecipare a questa celebrazione.

Durante la colazione il grande televisore è sintonizzato su un canale di news: il Grande Presidente è andato in visita ufficiale in Iran e Arabia Saudita. Segue una notizia sulla Siria di cui capisco solo la parola “terrorism”, ripetuta di continuo.
Prima di ripartire visito il piccolo museo archeologico e la moschea di Sahib-i Ata, di fronte alla quale c’è un hamam tra i migliori mai provati in Turchia. Per sole 120 lire (7 euro) una donna dedica almeno un’ora e mezza allo scrub (kese) e al masaj, prima di lavarmi i capelli. Per inciso, lo stato di salute fisica e psichica di quando si esce da un buon hamam dovrebbe far parte del patrimonio immateriale dell'umanità. E comunque, per avere un’idea dei prezzi turchi, basta dire che nel ristorante (lokantasi) di fronte al museo una çorba (ammetto che era tremenda, costituita da una specie di yogurt, fagioli giganti, peperoncino ed enormi pozze di olio) servita con insalata di pomodori, pane e una bottiglietta di acqua, costa appena 25 lire (un euro e mezzo). A parte il venditore di tappeti, quello felice di rivedere un turista occidentale nella sua città, l’unica altra persona con cui ho realmente dialogato nelle 24 ore passate a Konya è stato il cugino del barista dove ho preso una Pepsi, il quale conosce un po’ di inglese perché ha lavorato due anni in Cappadocia, ma che sono costretta a salutare dopo poco perché ha iniziato a insistere per venire con me a Bursa.

La verde Bursa

La scelta di andare a Bursa non è stata felicissima. Pamukkale o Efeso sarebbero valse decisamente più la pena, ma il fatto è che Pamukkale si trova a circa sei ore di autobus da Konya e da lì ce ne vogliono minimo nove per andare a Istanbul (Efeso peggio ancora, non ne parliamo proprio). Inoltre le vacanze turche non erano ancora finite e i voli erano tutti pieni o carissimi; e poi mi restavano solo tre giorni prima del rientro e, soprattutto, ero stanca morta. Insomma, Bursa mi era sembrata semplicemente la città più di strada di tutte, tra l’altro situata in una posizione invidiabile, tra il mar di Marmara e il monte Uludağ (l’Olimpo della Misia). Per arrivarci erano necessarie ben otto ore di autobus, ma ero contenta perché sarebbe stato l'ultimo sforzo.

Prima di tutto, ho cannato clamorosamente l’hotel, andando a finire in una zona collinare distantissima e mal collegata con il centro, forse allettata dalla parola “thermal” nel nome dell’hotel (le terme di Bursa sono famose sin dall'età romana), per cui al mio risveglio mi sono detta: Che ci faccio io qui? (In realtà me lo sono domandato pure dopo essermi trasferita in centro).
Anche a Bursa non ho la possibilità di acquistare il biglietto del traghetto online né di capire come raggiungere il molo dei ferry di Mudanya (che è comunque distante un’oretta), inoltre non riesco a prendere nemmeno un mezzo pubblico perché serve una tessera che però non so come procurarmi visto che nessuno parla inglese, non riesco a trovare nemmeno un ufficio del turismo (le numerosissime travel agency pubblicizzate al primo piano dei palazzi sono tutte chiuse) e, dulcis in fundo, è la prima giornata afosa del viaggio. Insomma, provo un grande senso di frustrazione. In questi momenti comincio a mettere in discussione un po’ tutto, penso che forse avrei dovuto pianificare il viaggio prima di partire, invece di assecondare la mia mania per l’improvvisazione… ma poi mi dico: che ne sapevo io del Bajram? Come potevo prevedere di prendere l’influenza? Mi chiedo anche se non sarebbe stato meglio partire in gruppo, accettando anche i relativi compromessi, ma poi penso con orrore a tali relativi compromessi e mi dico che comunque è meglio stare da sola, pure se stanca e frustrata.

Nonostante il mio umore abbastanza sottotono, ho comunque visitato le principali attrazioni di Bursa: la grande moschea (Ulu Cami) costruita nel XIV secolo e l’attiguo gran bazar, la Yesil Cami, creata quando la città era già capitale ottomana, la “green tomb” (il mausoleo del quinto sultano ottomano, Mehmed I, rivestito con le piastrelle verde-blu che gli danno il nome), il delizioso museo di arte turca e islamica e il bazar coperto. Ho anche appreso che i locali vanno molto fieri del loro “İskender kebap” e anche delle castagne caramellate (kestane şekeri), che però non ho assaggiato.
A un certo punto ho avuto persino la malsana idea di prendere la teleferik che conduce al Monte Uludağ (la più importante stazione di sport invernali turca, a più di 1600 metri di altitudine), nell’ultimo tratto oscillando pericolosamente a causa del forte vento. Oltre al fatto che ero quasi certa di morire, non mi ero portata dietro nemmeno una maglia supplementare perché appunto in città si crepava di caldo e non avevo previsto di arrivare a quell’altitudine dove invece faceva decisamente freddo. Comunque una volta raggiunta la stazione della teleferik la gente va in bici o sui quad, passeggia, si dedica ai percorsi avventura e soprattutto arrostisce un sacco di carne.

Se a Konya avevo dato per scontato che sarebbe stato impossibile bere una birretta al bar, vista la sua reputazione di città tra le più religiose e conservatrici del Paese, a Bursa pensavo di trovare un contesto più aperto. La "Verde Bursa" è nota per i tanti parchi e giardini che ci sono in città, per le foreste e il clima fresco dell’area circostante e per le sue sorgenti di acqua potabile e termale: se tutto ciò (oltre alla vicinanza del mare) potrebbe apparentemente costituirne un valore aggiunto, in realtà – essendo questo un paese islamico – non è per niente una buona notizia, infatti tutto ciò attira molti arabi dei paesi del golfo, la cui sola presenza mi inquieta molto, oltre a rappresentare una delle cause del maggior rigore attuato qui.
Di posti dove vengono serviti alcolici due o tre ne ho visti, ma sono tutti di una tristezza incredibile, segnalati già da fuori come luoghi di peccato grazie a una speciale insegna con dei ghirigori (su fondo giallo o blu) e poi in qualche modo separati dall’esterno. Gli avventori sono quasi tutti maschi, la maggior parte soli, e il cibo è immangiabile; in quello dove sono entrata io c’erano due schermi che mostravano la stessa identica spiaggia tropicale con l’acqua del mare che scorreva per sempre sul bagnasciuga. Roba da farti passare la voglia di bere birra per sempre. Non che i normali ristoranti o cafè siano molto più allegri comunque: quello che più mi ha colpito a Konya e a Bursa è stata la penuria di sorrisi e di tentativi di socializzazione. Soprattutto, mi sono abbattuta nel vedere tutte queste donne vestite di nero, tristi e rassegnate, come d’altra parte gli uomini.

Istanbul, Avrupa

Il giorno dopo – abbandonata per sfinimento l’idea di tornare in traghetto – mi sono fatta portare alla otogar, dove ho preso il primo autobus per “Istanbul Avrupa”, che si ferma in due stazioni della parte appunto europea della città. Poco speranzosa, ho tentato di comunicare ad un membro dell'equipaggio che la mia destinazione finale fosse Taksim. Inaspettatamente, quando siamo entrati nella stazione di Alibeyköy, costui è venuto a chiamarmi per dirmi che se fossi scesa lì avrei trovato un “tramway to Taksim”. In un battibaleno ho racimolato le mie cose e sono scesa. Purtroppo, e per molti minuti, questo fantomatico “tramway to Taksim” non l’ho trovato e anzi tutti quelli a cui chiedevo mi dicevano di prendere un taxi, tra l’altro con un’aria di derisione. Finché ho chiesto a due individui sui quali contavo meno di zero, uno dei quali mi ha comunicato in perfetto inglese dove dovevo andare a prendere il bus gratuito che mi avrebbe portata a Taksim, servizio che mi spettava di diritto visto che viaggiavo con la compagnia Metro (a dire di tutti, la migliore del paese).
Nonostante quest’ultimo piccolo colpo di scena, i miei pensieri erano molto cupi in quel momento. Per fortuna come unica passeggera del mio stesso minibus c’era una donna che parlava benissimo inglese, un’insegnante dell’Università di Ankara che in un certo senso – dopo che le avevo sinteticamente raccontato le mie avventure – mi ha rincuorata dicendomi che lei non andrebbe mai né a Konya né a Bursa. Tra le altre cose, e con un umore abbastanza afflitto, mi ha confessato che si vergogna di quello che è diventata la Turchia negli ultimi tre anni e che sta meditando di trasferirsi in Germania dove vivono i suoi, anche se si è sempre rifiutata di farlo poiché ama con tutto il cuore il suo Paese.

Quando passo davanti alla nuovissima moschea di Taksim, penso a ciò che mi ha detto l’insegnante di Ankara: Che poi pure Istanbul non è più la stessa. Be’, almeno qui sono circondata da persone di provenienza un po’ più varia e lungo il viale Istiklal ci sono un sacco di concertini.
L’ultimo giorno sono andata al Miniatürk, ossia il parco della Turchia in miniatura (molto carino e di cui non sapevo nulla), mentre il pomeriggio sono entrata in un centro estetico e mi sono fatta fare la pedicure, la più lunga e minuziosa della mia vita. La mamma e la figlia, entrambe con delle appariscenti ciglia finte e il seno prosperoso sottolineato da magliette scollate, si sono alternate nel lavoro con una perizia da amanuensi. La mamma nel frattempo ha cercato di comunicare con me. “Me, Iran… One year Turkey.” ha iniziato. “Iran: no hair, no drink, no money. Want go Almanya, but visa is problem.” In pratica la Turchia è molto meglio dell'Iran sia a livello economico, sia rispetto alle libertà (indossare il velo, non bere alcolici), ma se lei potesse si trasferirebbe immediatamente in Germania. Poi ha messo la canzone di Toto Cutugno sul cellulare e abbiamo cantato insieme: “Un italiano vero!”
La sera sono tornata in uno di quei locali tipici di Galata dove c’è sempre un chitarrista che fa le cover di brani turchi che tutti conoscono, la specialità sono le birre accompagnate da tipo 6 cicchetti di tequila e dentro c’è un’aria condizionata criminale, ma almeno si può fumare. La birra, però, questa volta l’ho trovata indigesta.

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