LA LA HOLY LAND
Israele e Palestina in solitaria
Il gate del mio volo per Tel Aviv è questo, non mi posso sbagliare: ci sono molte kippah, libretti nelle mani e un uomo che prega contro il muro accanto alla toilette. È uno dei primissimi giorni di questa nuova tratta e l’aereo è quasi pieno, ma sono quasi tutti israeliani, anche se siamo all'inizio delle vacanze di Natale e i prezzi dei voli sono infimi.
L’accoglienza ricevuta appena sbarcati in un posto nuovo spesso dà al viaggio quell'impronta insostituibile che avrà. All'aeroporto Ben Gurion i controlli in ingresso sono stati inaspettatamente veloci e appena sono uscita ho scambiato qualche battuta con un tassista che mi ha fatto morire dal ridere. E poi sul sherut per Gerusalemme c'era un logorroico passeggero che ha intrattenuto piacevolmente me e alcuni attempati turisti americani per tutto il viaggio. Sem lavora coi francescani, vive gran parte dell'anno a Città del Messico e parla correntemente ebraico, arabo, spagnolo, inglese e francese. Dopo che tutti gli altri sono scesi alla loro destinazione, l'autista ha aumentato il volume della musica araba e mi ha detto che gli ebrei guidano malissimo perché sono troppo prudenti e hanno paura di tutto. Infine sono scesa anch'io, molto colpita dallo spirito di fratellanza che ho percepito.
Una volta fatto il check-in in ostello, sono uscita a cercare qualcosa da mangiare. Il giovedì in Israele è un po' il nostro venerdì: è pieno di gente in giro. Per le strade o davanti alle case private sono piazzati questi candelabri in vari materiali e dimensioni, con le lampadine parzialmente accese. Io pensavo fosse la famosa menorah, ossia il simbolo più famoso della religione ebraica, invece la menorah ha sette bracci, mentre questo candelabro che vedo ovunque ha due bracci in più e si chiama chanukkiah: viene infatti utilizzato durante la festività di Hanukkah, che è iniziata qualche giorno fa e finirà il 26 dicembre. La cosiddetta festa delle luci ricorda il nuovo altare nel Tempio di Gerusalemme e, pur non essendo una delle principali festività ebraiche, ultimamente ha acquisito più importanza perché cade negli stessi giorni del Natale.
Il dolce tipico della festa è un bombolone che si chiama sufganiyah e che, siccome è fritto, ricorda l'olio consacrato che teneva in vita la luce del Tempio: esso mi viene offerto nel classico pub irlandese, dove conosco un certo Avi che lavora in un concessionario di auto e adora viaggiare in Italia. La sua famiglia proviene dall'Etiopia, come si evince facilmente osservando i suoi lineamenti, ma lui non ha mai pensato di mettere piede nella terra dei suoi antenati. Avi il 31 dicembre poi mi ha invitata al suo compleanno, sempre al pub irlandese, ma io ero a Tel Aviv.
Già dopo la mia prima sera a Gerusalemme ovest mi sono resa facilmente conto dei prezzi esosi di bar e ristoranti, che alla fine costituiranno la fetta più sostanziosa delle mie spese di viaggio. Per quanto riguarda l'alloggio invece, a Gerusalemme ho dormito tre notti in un capsule hotel nel quartiere occidentale, non comodissimo ma molto economico e ben posizionato, e due in una camera singola nella guesthouse della chiesa siriaco ortodossa St Thomas, che costa non molto di più dell’ostello e si trova anch'esso in un punto strategico, vicino alla porta di Damasco.
Shabbat a Gerusalemme
È venerdì mattina a Gerusalemme ovest. Fra poche ore inizierà lo Shabbat e le attività fervono concitate. Al mercato Mahane Yehuda i turisti si mescolano ai locali e c’è una baraonda di gente che sgomitando osserva la merce esposta e fa acquisti, ma anche che mangia e beve ascoltando musica ad alto volume stipata nei tanti minuscoli localini. Fra poche ore il mercato chiuderà e i più religiosi si riposeranno per 24 ore, così come si fermeranno i mezzi pubblici in questa città grande e complicata. Ma adesso è il momento di sbrigarsi a fare tutto in tempo, il traffico è impazzito e i clacson insistenti.
Quando vado al quartiere ultra-ortodosso di Mea She’arim è quasi l’ora di pranzo e sono abbastanza certa di trovarmi sul set di una serie di Netflix. Il dress code è quello tipico di uno shtetl dell'Europa orientale del primo Novecento: gli uomini hanno la barba, abiti d'epoca neri e grandi cappelli, le donne indossano gonne lunghe fino al pavimento e sono accompagnate da molti bambini elegantissimi. Qui la crescita demografica è molto elevata (cosa che giustamente terrorizza una parte della popolazione israeliana) e la lingua più diffusa nelle strade è lo yiddish. Un grande striscione è rabbioso nei confronti di noi visitatori vestiti in modo poco consono, io ad esempio indosso dei pantaloni e anche se non sono per niente attillati sicuramente non sono ben vista dalla popolazione del luogo, anche perché sto usando lo smartphone per orientarmi e ogni tanto ne approfitto per scattare qualche foto a sgamo.
La old city di Gerusalemme misura appena un chilometro quadrato ed è suddivisa in quattro quartieri che attraverserò a piedi con un altro Avi: un ebreo non praticante, naturalmente, altrimenti non avrebbe potuto lavorare in questo pomeriggio nuvoloso di fine dicembre. Siamo in 7 per questo free walking tour e l’appuntamento è alla porta di Jaffa, una delle sei porte fatte costruire da Solimano il Magnifico. Avi ci informa che il percorso attraverso questa porta è fatto a zig zag perché serviva a rallentare la carica di eventuali forze nemiche, mentre l’apertura attraverso la quale passa oggi la strada fu realizzata nel 1898 in occasione della visita del Kaiser Guglielmo II. Song, un ragazzo coreano che era anche lui nel gruppo, poi mi ha fatto notare che queste cose erano scritte nella pagina di Wikipedia.
Il quartiere ebraico lo riconosci dalle menorah e dai candelabri per Hanukkah, di tutte le fogge e dimensioni, e anche dagli abiti della festa e dall'atteggiamento rilassato delle persone, ma di venerdì pomeriggio non c’è molto da visitare poiché tutte le sinagoghe sono chiuse.
Nel quartiere armeno invece è una giornata come le altre e mancano due giorni a Natale. Esso è abitato da solo cinquecento persone e si sviluppa attorno alla cattedrale di San Giacomo che, secondo la tradizione, custodisce la testa di San Giacomo il Maggiore – cosa di cui non posso accertarmi poiché la chiesa apre soltanto la mattina presto, per la messa. Quando arriviamo al monastero di San Marco, Avi annuncia che secondo i cristiani qui sorgeva l'abitazione dell’evangelista Marco, dove en passant avrebbe avuto luogo l'ultima cena, ma non si può entrare perché stanno facendo le prove per la parata dei boy scout.
La maggior parte dei visitatori stranieri è concentrata nel quartiere cristiano, dove sono allestiti dei mercatini di Natale, con vin brulé e molti cappelli natalizi. L'attrazione principale è la Basilica del Santo Sepolcro, una delle mete di pellegrinaggio più importanti del mondo (quando i turchi vietarono di andarci scoppiarono le Crociate, per dire). Fu la madre dell’imperatore Costantino a decidere di far costruire la chiesa in questo luogo (che nel quarto secolo era abbandonato e situato fuori dalle mura), poiché secondo la tradizione era qui che Gesù fu crocifisso. Costei (A.K.A. sant'Elena) scoprì una croce lignea che è diventata una reliquia fino ad essere letteralmente smembrata dai pellegrini del passato e infatti oggi non esiste più. La reliquia più prestigiosa è invece ancora presente vicino all'ingresso e si tratta della pietra dell'unzione, che ricorda il posto in cui il corpo di Gesù sarebbe stato preparato per la sepoltura, sulla quale pure i pellegrini odierni versano olio e sfregano un fazzoletto.
Sgomitando tra orde di visitatori, saliamo la scala sulla destra ed entriamo nella Cappella del Calvario, dove si trovano la decima e l’undicesima stazione della Via Crucis, mentre le altre stazioni sono distribuite negli altri ambienti; la più frequentata si trova nella cappella greco-ortodossa e ospita il luogo della crocifissione di Gesù: a quanto pare, è possibile toccare un pezzo di vera e propria roccia del Calvario attraverso un buco realizzato nell'altare soprastante, ma non ho nessuna voglia di fare la fila.
Il quartiere musulmano è quello più grande e popoloso, ma oggi non c'è molto casino perché è venerdì, il giorno di festa islamico che come ogni settimana apre il long weekend delle fedi monoteiste. Passiamo e ripassiamo tra le bancarelle del suq, tra resti di fontane mamelucche, bancarelle di succhi di frutta e grandi immagini della Mecca, fino ad arrivare al checkpoint che conduce all'ingresso dell'area ebraica del Western Wall.
Il cosiddetto Muro del Pianto, o Kotel, è il luogo di devozione preferito dal popolo ebraico e sarebbe in pratica ciò che resta del Secondo Tempio, quello distrutto nel 70 d.C. dai romani. Il venerdì al tramonto, quando inizia lo Shabbat, dicono che sia il momento ideale per andarci. L'area vicina al muro è divisa in due zone: la più piccola è riservata alle donne e la più grande agli uomini. I fedeli recitano versetti, oscillano avanti e indietro sui talloni, chinano la testa, ogni tanto toccano o addirittura baciano queste pietre vecchie due millenni, alcuni cantano o ballano. Molti hanno un libro in mano e più o meno tutti infilano i bigliettini con le preghiere negli spazi tra un blocco di pietra e l'altro. Non mancano i giovanissimi in abiti militari e armi a tracolla, che stanno naturalmente svolgendo il servizio di leva che qua dura minimo due anni e riguarda sia i maschi che le femmine. Forse a qualcuno questa presenza continua e diffusa di ragazzi dotati di mitra potrà dare sicurezza, ma a me non è piaciuta moltissimo.
Avi ci dice che se vediamo altri fotografare possiamo farlo anche noi, altrimenti non è rispettoso nei confronti dei fedeli. Io vedo altri che fotografano e lo faccio anch'io, ma poi vengo redarguita da un controllore e capisco che anche gli altri stavano fotografando pure se non potevano.
Di sabato molti bar e ristoranti restano aperti, ma la maggior parte delle attrazioni storico-culturali di Gerusalemme sono chiuse; è dunque il giorno ideale per visitare l’Israel museum, soprattutto se si tratta di una giornata di pioggia copiosa e continua. Poiché i mezzi pubblici non circolano, per raggiungere il museo devo percorrere una mezz'oretta di cammino. Nelle strade c’è un silenzio inquietante e alcuni gruppi di ebrei ortodossi passeggiano lentamente, alcuni con un libro in mano: in particolare ha colpito la mia attenzione un anziano che contemporaneamente legge e cammina, posizionato esattamente al centro della strada deserta. Nonostante google maps, ho difficoltà a trovare la strada e così mi confronto con un gruppetto di tedeschi: anche loro sembrano perplessi mentre camminano come rabdomanti con lo smartphone in mano. Con uno di loro, che in questo periodo sta studiando all'università di Tel Aviv, scambio qualche riflessione sull'importanza della lettura nella cultura ebraica e su quanto ciò abbia contribuito a sfornare persone di successo: "Lo sai che gli ebrei costituiscono solo lo 0,2% della popolazione mondiale, ma hanno vinto il 27% dei Nobel assegnati per la chimica, la fisica, la medicina e l’economia?"
Il Museo di Israele, finanziato da filantropi ebrei miliardari di tutto il mondo, è uno dei musei più grandi del mondo. Nelle innumerevoli sale al coperto troviamo straordinarie collezioni di reperti archeologici, oggetti rituali ed etnografici ebraici (comprese intere sinagoghe provenienti da varie località del mondo), famosissime opere d'arte moderna e contemporanea. Le mostre temporanee sono pure numerose: "The Burning Sea" di Sigalit Landau, ad esempio, presenta una selezione di sculture incrostate di sale del Mar Morto, "Adornment" è dedicata ai gioielli e alla decorazione del corpo in epoca preistorica, un'altra mostra è dedicata alle bambole "sposa" che preparavano le preadolescenti per il matrimonio, e così via. Infine nel grande giardino panoramico sono disseminate molte statue e opere d'arte (compresi gli alberi di ferro di Ai Weiwei), mentre i Rotoli del Mar Morto sono custoditi nel cosiddetto Santuario del libro, vicino al quale c'è una ricostruzione in miniatura di Gerusalemme all'epoca del Secondo Tempio.
Dopo molte ore trascorse nel museo, mi sono avviata verso la città vecchia e a un certo punto mi sono fermata a stuzzicare qualcosa in un ristorante yemenita. Quando ho provato ad accendermi una sigaretta, uno dei camerieri mi ha comunicato che dovevo aspettare la fine dello Shabbat: "Mancano 4 minuti alle 17:21, se mi aspetti fumiamo insieme".
A quel punto sono tornata al Muro del pianto, dove ora che è finito lo Shabbat l'atmosfera è molto più rilassata, infatti non ci sono più i vigilanti che ti impediscono di fotografare. Inoltre è in corso un concerto di piano (brutto), ma siccome hanno collocato il palco nell'ala maschile, le donne cercano di sbirciare stando sulle punte, nel loro lato. Non è un caso che molti chiedano di farla finita con questa anacronistica divisione di genere nel campo della preghiera.
Alla televisione italiana fra un po' andrà in onda il concerto del Volo in diretta da Gerusalemme, mentre io percorro Via Mamilla, la strada dei negozi, alla ricerca di un nuovo caricatore per la macchina fotografica, pensando che sarei potuta essere in ogni parte del mondo e non avrei notato la differenza.
Anche se è la vigilia di Natale, nessuno se ne avvede al di fuori del quartiere cristiano, così mi mangio un anonimo trancio di pizza e poi assisto a un gradevole concerto rock in un pub per vecchi metallari. Penso a Sem, che sul sherut per Gerusalemme mi aveva detto che i cristiani rappresentano una percentuale sempre più infima della popolazione e se continua così andrà a finire che le chiese diventeranno dei semplici musei.
Natale a Betlemme
L'autobus 231 segue un itinerario non propriamente lineare e poi mi lascia sulla strada principale di Betlemme, distante solo dieci chilometri da Gerusalemme; qui vengo accolta con entusiasmo da un manipolo di tassisti palestinesi insistenti ma simpaticissimi che vorrebbero accompagnarmi alla chiesa della natività. Ma io sto andando dalla parte opposta, e comunque sono pochi minuti a piedi e preferisco camminare.
Avevo prenotato con molto anticipo un letto al "Walled Off", l'hotel progettato da Banksy, che è un posto meraviglioso dove consiglio di andare anche solo per una visita. Lo stesso street artist lo ha definito "l'hotel con la vista più brutta del mondo" perché sorge di fronte alla barriera di separazione israeliana, che è lunga oltre 700 km ed è stata costruita dal governo israeliano a partire dal 2002, dopo che numerosi attentati compiuti da palestinesi avevano fatto molte vittime negli anni precedenti.
Ci sono 9 stanze, compresi un elegante dormitorio con letti a castello e una suite presidenziale, un ristorante e un piano bar arredato "come un avamposto coloniale di quei giorni inebrianti del 1917 quando la Gran Bretagna occupò la Palestina", per citare il sito web dell'albergo. Ovunque sono disseminate preziose opere d'arte, murales ed installazioni. L’hotel dispone inoltre di una galleria in cui sono esposte opere di artisti palestinesi, sia noti sia emergenti, e di un museo, curato in collaborazione con un professore universitario, dedicato alla pluridecennale storia dell'occupazione: un deposito di storie, manufatti e testimonianze, drammatici e ironici allo stesso tempo.
Quando è arrivato Moh stavo sulla terrazza, chiacchierando piacevolmente con un italiano che lavora a Ramallah in una ONG e con la moglie e i due figli che erano andati a trovarlo per le vacanze. Avevo già visitato il museo e la galleria d’arte, avevo già comprato una maglietta con scritto "Make hummus, don't make walls" e avevo chiacchierato con il tizio che vende il caffè accanto al muro, proprio di fronte ai due angeli di Banksy che fanno il gesto di separare due lastre di cemento: per questo lui e i suoi nipoti si mettono in posa nello stesso gesto degli angeli, facendo autoironia sulla loro condizione di murati fuori.
Moh è una guida turistica che mi porterà un po' in giro per la città. Nel frattempo che arrivassero gli altri partecipanti ci siamo messi a parlare di tanti argomenti e a un certo punto è venuto fuori il tema dei matrimoni gay, che lui, anche se è di mente molto aperta e ogni giorno fa da guida a turisti di tutto il mondo, mi ha chiesto perché mai, secondo me, dovrebbero essere consentiti. "Se a scuola parli dell’omosessualità agli studenti, poi non c’è il rischio che li influenzi?" mi ha poi domandato sinceramente perplesso. La nostra conversazione è stata provvidenzialmente interrotta da Yolanda, una delle ragazze che si erano prenotate per questo free walking tour. Yolanda è spagnola ma vive ad Amman dove lavora con una ONG che si occupa dei rifugiati palestinesi: vivendo in un paese arabo, conosce meglio di me le differenze culturali che a volte rendono la vita complicata per noi europei, ma anche il suo approccio con Israele non è stato idilliaco perché si è trovata subito nella classica conversazione con sionisti, per questo ha abbandonato immediatamente Gerusalemme e se n’è andata a Ramallah, che le è piaciuta da morire.
Quando arrivano tutti i partecipanti, il gruppetto si avvia a piedi per il tour. Costeggiamo il famigerato muro di cemento che oggi è diventato una galleria d'arte a cielo aperto, passiamo vicino all'Ayda Camp e a un certo punto in lontananza Moh vede del fumo e ci propone di cambiare itinerario. Molti palestinesi vivono in campi profughi come questo, in periferia: in genere si tratta di veri e propri quartieri, anche se malandati, che in alcuni casi possiedono anche infrastrutture turistiche. A volte la tensione tra dimostranti e soldati israeliani esplode improvvisamente, l’aria si riempie di lacrimogeni e vengono lanciati sassi e sparati proiettili di gomma. D’altra parte nessuno di noi è coreano e dunque non siamo stati allenati durante il servizio militare a sopportare i gas senza piangere, aggiunge simpaticamente Moh, facendo riferimento al partecipante coreano di un tour precedente. Decidiamo di procedere comunque, ma è meglio non entrare nel campo.
La barriera ha un impatto devastante sulla vita quotidiana di molte persone, non solo perché rende l'accesso a Gerusalemme e a Israele difficile, ma anche a causa delle cosiddette “colonie”, che i governi israeliani da decenni continuano ad espandere e che oggi contano centinaia di migliaia di persone in Cisgiordania e Gerusalemme est, infatti diversi tratti di muro girano intorno a questi insediamenti, separando i palestinesi dalle proprie comunità e dai luoghi di vita e di lavoro. Non a caso, i palestinesi lo chiamano ‘muro dell’apartheid’.
Raggiunto il centro storico con un van, assaggiamo fragole e datteri acquistati alle bancarelle e percorriamo le vie di questa tipica località araba, finché cominciano a comparire stelle comete, decori natalizi e un albero di Natale gigante in lontananza. La piazza principale è affollata di turisti religiosi, su cui da secoli Betlemme fonda la sua economia. Entriamo nella chiesa di Santa Caterina, dove ieri si è celebrata la messa di mezzanotte trasmessa dalle TV di tutto il mondo: essa dura 5 ore ed è così affollata che bisogna prenotare almeno un anno prima. Attraversiamo il chiostro francescano per entrare nella contigua basilica della Natività, fatta costruire dal solito imperatore Costantino ma poi ricostruita molte volte. Il punto esatto in cui, secondo la tradizione cattolica, sarebbe nato Gesù si trova nella grotta ed è indicato da una stella d’argento a 14 punte. Nella grotta pare ci siano anche la cappella della mangiatoia e l’altare dell’adorazione dei magi, ma io non ci sono andata nel seminterrato perché non avevo nessuna voglia di fare la fila. Anche qua come a Gerusalemme la gestione del posto è suddivisa al millimetro tra le varie confessioni cristiane, che nei secoli hanno spesso litigato tra loro. Per uscire usiamo la Porta dell’Umiltà, che si chiama così perché è così piccola che bisogna chinare la testa per passare.
Di fronte alla chiesa della Natività si trova la moschea di Omar, l’unica presente nella città vecchia di Betlemme. I cristiani oggi sono meno di un quinto e continuano a diminuire; anche per loro, come per tutti i palestinesi, la vita non è facile. Sem sul famoso sherut per Gerusalemme lo aveva ripetuto più volte, aggiungendo che non hanno il passaporto blu e dunque non possono partire dall'aeroporto Ben Gurion, ma solo da quello di Amman.
Finito il tour, Moh ci saluta e così resto con Yolanda (la spagnola che vive in Giordania), Ana (una canadese di origine dominicana) e un'americana di cui ho capito solo che ha antenati ebrei. Dopo un'accurata analisi delle sparute possibilità di aperitivo nella città vecchia, torniamo al Walled off hotel per bere della birra locale (in Cisgiordania si producono la Taybeh e la Bet Lehem) e poi a cena in un ristorante nei paraggi, Abu Eli, dove ci ingozziamo di kebab di agnello. Per tutta la sera continua a diluviare, mentre noi, quattro donne di cultura cristiana nate nella parte privilegiata del mondo, confrontiamo le nostre vite così diverse, che si svolgono in quattro posti molto lontani l'uno dall'altro.
Per tornare a Gerusalemme ho preso l'autobus 234, che è molto più vicino all'hotel. Entrando in Israele bisogna mostrare il passaporto al checkpoint, che in questo caso passo a piedi visto che l'autobus mi aspetta dall'altra parte: a dispetto di quanto mi ero immaginata, non c'è per niente fila. Me la prendo comoda perché anche stamattina diluvia e così andrà avanti tutto il giorno. Per questo, una volta tornata a Gerusalemme, vado a visitare l'altro museo imperdibile della città, lo Yad-Vashem, il museo dell'olocausto più importante del mondo, che se avessi letto tutte le didascalie e visto tutte le interviste e i filmati proposti ci sarei rimasta almeno tre giorni. Il museo è gratuito ma bisogna obbligatoriamente prenotare online, pure se ormai stai di persona davanti all'impiegato della biglietteria. Dopo aver passato 24 ore ad ascoltare e vedere con i miei occhi le storie dell'occupazione israeliana, appare sconcertante pensare che si tratti dello stesso popolo che ha subito le persecuzioni naziste.
Il sole splende sul Monte del Tempio
Finalmente l'ultima giornata a Gerusalemme è limpida e assolata. Verso le nove di mattina dunque attraverso il suq e mi dirigo piena di entusiasmo alla spianata delle moschee, uno dei luoghi più contesi del mondo. Essa infatti ospita due degli edifici più sacri dell’Islam, ma è venerata anche dagli ebrei e dai cristiani perché qui sorgevano il Primo e il Secondo Tempio, dove si svolsero anche vari episodi della vita pubblica di Gesù. Dal 1994 la spianata (come tutti i siti musulmani di Gerusalemme) è gestita dalla Giordania, ma Israele continua a occuparsi della sua sicurezza: l’accesso ai palestinesi, ad esempio, è consentito solo in occasione delle festività islamiche. Pochi giorni dopo la mia visita, ha deciso di andarci anche un ministro del governo israeliano, con un atto talmente provocatorio che la scorsa volta che accadde un episodio simile scoppiò la seconda intifada.
Sapendo che è visitabile soltanto poche ore al giorno, ero pronta a fare una lunga fila, ma stranamente non c’è nessuno ad attraversare il ponte di legno situato accanto al Muro del Pianto. Per prima appare la Moschea Al Aqsa, un enorme luogo di culto che sorge nel punto in cui secondo i crociati si trovava il Primo Tempio: per questo all'epoca è stata prima la residenza dei re di Gerusalemme e poi dei Cavalieri Templari, che da qui prendono il nome. Subito dopo sono pronta per lo spettacolo degli spettacoli: la Cupola della Roccia, una calotta dorata che spicca sull'azzurro del cielo, che sormonta una base ottagonale decorata con tutte le sfumature del turchese. Sulla roccia che si trova dentro l'edificio accadde più di un evento sorprendente: secondo gli ebrei Abramo stava per sacrificare il figlio Isacco quando un provvidenziale angelo mandato da Dio lo bloccò dandogli un ariete sostitutivo, mentre per i musulmani Maometto vi lasciò un’impronta col piede quando salì al cielo. Riconvertita per breve tempo in chiesa ai tempi delle Crociate, tornò a essere una moschea nel XII secolo sotto Saladino, mentre oggi è un santuario in cui nessuno può entrare. Accanto c'è la Cupola della Catena, dagli stessi colori della sorella maggiore, dove secondo la leggenda il re Salomone fece appendere una catena che fungeva da macchina della verità, visto che chi avesse mentito mentre la impugnava sarebbe stato colpito da un fulmine. Poco distante ci sono il Sabil di Qaitbay, una struttura a tre piani costruita dagli egiziani, e le Bilance delle Anime, archi in pietra chiamati così perché i musulmani credono che qui verranno pesate le anime dei morti. Esco dalla Porta dei Mercanti di Cotone e attraverso il mercato risalente all'epoca dei Mamelucchi per tornare al punto di partenza: armi giocattolo sono in vendita accanto al classico soldato israeliano armato.
Toccata e fuga a Ramallah
Quando io e Song, il ragazzo coreano che avevo conosciuto a Gerusalemme, siamo arrivati alla stazione degli autobus e stavamo per salire su quello diretto a Ramallah, ci hanno detto che il mezzo eccezionalmente si sarebbe fermato al checkpoint, senza arrivare in città. Alcuni passeggeri sono saliti lo stesso, altri invece erano titubanti: sembrava che ci fossero delle proteste in città e che la situazione non fosse tanto tranquilla. Anche questo bresciano vestito da emiro con la kefiah e la tunica bianca ha rinunciato, nonostante avesse un amico a Ramallah che lo aspettava. Poi però Song ha insistito così tanto, e anch'io non avevo alcun piano B per la giornata, fatto sta che siamo saliti sull'autobus successivo.
Quello di Qalandia è il principale checkpoint delle forze di difesa israeliane tra la Cisgiordania settentrionale e Gerusalemme; anche qui naturalmente per entrare in Palestina non ci sono controlli, ma bisogna attraversare a piedi questa lunga e inquietante passerella sopraelevata in cemento. Giunti in Cisgiordania bisogna prendere un servis (taxi condiviso) per andare in città. Dal finestrino assisto a una marcia funebre in onore di un palestinese che è morto in carcere: così ci era stato detto e questo credo che possa costituire almeno in parte la motivazione per cui l'autobus non fa il solito servizio oggi. A Ramallah c'è molto traffico, venditori ambulanti, veli sulla testa. Song è raggiante perché finalmente può mangiare un cheeseburger, cosa che in Israele è difficile perché nella cucina kasher non si possono mischiare carne e latticini.
Il Museo di Yasser Arafat è allestito nel palazzo presidenziale in cui il leader palestinese trascorse i suoi ultimi anni sotto assedio israeliano. Prima dell'ingresso si trova la sua tomba (che molti sperano di poter un giorno trasferire a Gerusalemme), mentre il museo è diviso in due parti: la prima è un'esposizione che ripercorre la sua vita e la storia dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, che Arafat guidò per 35 anni, e dell’Autorità Nazionale Palestinese, di cui fu il primo presidente. La seconda sezione consiste nei locali in cui trascorse i suoi ultimi anni durante la seconda intifada, quando i carri armati israeliani circondarono e in parte demolirono il suo quartier generale. Vediamo le camere da letto delle guardie e del defunto presidente; nell'armadio sono tuttora appese le sue uniformi color kaki e stanno impilate le celebri kefiah. Infine, l'ultima parte della mostra è dedicata ai referti tossicologici che corroborano la tesi secondo cui Arafat potrebbe essere stato avvelenato.
Purtroppo la visita del museo la dobbiamo effettuare molto rapidamente perché nel frattempo ci aveva raggiunto Mohammed, un'altra guida Guruwalk che avevo contattato. Poiché avevamo perso un sacco di tempo per l'indecisione e il fatto del checkpoint, avevamo dei tempi molto risicati. Mohammed ci ha portato un po' a zonzo nella città, che è piena di bandiere di ANP e graffiti sui muri dedicati alle numerose vittime palestinesi, martiri della libertà per loro, terroristi per gli israeliani. In questa vera e propria guerra, negli ultimi tempi ormai c'è quasi un morto al giorno e soprattutto l'età media delle vittime è molto bassa, se consideriamo che più di un terzo dei palestinesi ha meno di 15 anni. Mohammed non sa bene il motivo per cui l'autobus oggi non arriva in città, ma accenna a una scelta polemica da parte del servizio di trasporto.
Per tornare al checkpoint prendiamo un altro servis, ma c'è un ingorgo inestricabile per cui ci fanno scendere dalla vettura e salire su un'altra che si ingorga quanto e più di prima. Quando giungiamo sul viale principale che porta fuori città, un leggero panico prende me e Song quando, contemporaneamente, scendono tutti gli altri passeggeri e da lontano intravediamo dei fumogeni e delle piccole barricate sulla strada, il tutto con la musica araba sparata a massimo volume. Per fortuna arriviamo sani e salvi al checkpoint, dove ci apprestiamo a fare la fila per il controllo dei passaporti.
Israele del Nord
Per spostarmi a settentrione, dalla stazione centrale di Gerusalemme prendo un autobus diretto per Tiberiade. Finora non avevo ancora potuto usare questa comodissima applicazione che si chiama Moovit, con la quale si possono comprare i biglietti per tutti i mezzi di trasporto israeliani scansionando direttamente il QRcode, e che inoltre applica degli sconti molto vantaggiosi.
Tiberiade sorge sull'omonimo lago (noto anche come Mare di Galilea) ed è una delle mete turistiche più frequentate del paese nella stagione estiva. Per secoli fu la più grande città ebraica della Galilea, ma ebbe un grande sviluppo anche durante il primo periodo islamico. A partire dalla fine dell'Ottocento, quando iniziò il movimento sionista, sempre più ebrei sono andati a viverci, mentre la comunità araba, ancora molto presente all'inizio del dominio britannico, fu poi completamente evacuata, soprattutto dopo la proclamazione dello Stato d'Israele e la guerra arabo-israeliana (i palestinesi definiscono questa deportazione con la parola "nakba", ossia "catastrofe"). Anche in seguito un gran numero di immigrati ebrei si stabilì a Tiberiade, tanto che oggi la città ha una popolazione quasi esclusivamente ebraica.
"Peace land travel" sta scritto, presumo non ironicamente, su un autobus turistico che incrociamo mentre stiamo entrando a Tiberiade. Inizialmente non avevo inserito questa località nel mio programma di viaggio, ma poi Song mi aveva allettato con il fatto che grazie al lago il clima sarebbe stato assai mite. Una volta finito di questionare con la receptionist che voleva farmi pagare la camera più di quanto costava su booking, io e Song ci organizziamo per visitare i luoghi legati alla predicazione di Gesù, non prima di aver preso un gelato al Mc Donald's, per cui Song nutre una vera e propria venerazione.
Con l'autobus di linea andiamo a Tagba, dove secondo la tradizione cristiana si svolsero due episodi dei Vangeli, a ricordo dei quali sono state erette due chiese: la chiesa della Moltiplicazione dei pani è una chiesa benedettina senza infamia e senza lode costruita da monaci tedeschi pochi decenni fa nel posto in cui Gesù moltiplicò i celebri cinque pani e due pesci che sfamarono circa cinquemila suoi fan, mentre la chiesa del Primato di Pietro ricorda sia un'apericena con gli apostoli, sia un fantomatico incontro tra i discepoli e Gesù risorto. Song non è cattolico, ma è molto interessato a tutte le religioni perché sostiene che se hanno tanto seguito un motivo ci sarà. Dunque sta a me introdurlo nel magico mondo dei miracoli di Cristo che, tra l'altro, proprio a pochi passi da qui camminò sulle acque del lago di Tiberiade e pronunciò il discorso della montagna sul monte delle Beatitudini.
I panini acquistati a Tiberiade non si sono moltiplicati e ce li mangiamo in riva al lago, dove in estate si possono fare i bagni. E poi andiamo a Cafarnao, uno dei luoghi più citati nei Vangeli, che oggi è un sito archeologico molto frequentato gestito dai francescani. Qui Gesù avrebbe guarito diversi malati e assunto alcuni pescatori locali in qualità di discepoli, ma soprattutto avrebbe predicato nella sinagoga: la ricostruzione odierna fu edificata verso la fine del IV secolo sopra le fondamenta della cosiddetta sinagoga di Gesù, che per motivi di marketing si chiama così pure se è posteriore di almeno un secolo rispetto alla crocifissione. Le messe invece vengono celebrate in una chiesa degli anni Novanta, sospesa sulle rovine di una precedente chiesa del V secolo che inglobano la casa di San Pietro, dove si mormora che abbia abitato per un periodo anche Gesù.
Dopo aver atteso invano un autobus per tornare a Tiberiade, ci mettiamo a fare l'autostop. Il commerciante di frutta che ci dà un passaggio è morbosamente curioso di conoscere tutti i dettagli del nostro viaggio, inoltre si lamenta perché Israele sta diventando davvero troppo religioso: effettivamente la popolazione di ebrei ultra-ortodossi è in costante aumento visto che il loro tasso di crescita è il doppio di quello nazionale.
Per cena mi hanno consigliato un elegante ristorante che si rivolge in particolare alla clientela russa e infatti il piatto più ricercato è il granchio reale. Trascorro il resto della serata sul rooftop dell'ostello, dove è allestito un piccolo bar che vende le Goldstar a prezzo competitivo. Della compagnia fanno parte due russi freschi freschi di fuga dal loro Paese a causa della chiamata alle armi: uno di loro inizia oggi il suo lavoro di volontariato presso l'ostello stesso in cambio di vitto e alloggio, l'altro mi mostra orgoglioso il suo passaporto israeliano nuovo di zecca, ricevuto in tempi record grazie al suo certificato di nascita che lo etichetta come ebreo. Inoltre chiacchiero a lungo con Vladi, uno dei tanti bielorussi in fuga dal regime di Lukashenko; Vladi ammira Israele perché accoglie chi lascia questi paesi e rispetta i diritti civili, mentre secondo lui nell'ANP litigano e si ammazzano fra loro: "il terrorismo fa schifo e alla fine il più debole soccombe come sempre è stato".
Nel corso del 2022 in Israele sono arrivati moltissimi rifugiati da Russia, Bielorussia e Ucraina, ma l'immigrazione dall'Unione Sovietica, e in seguito dalla Russia e dai paesi confinanti, è stata sempre massiccia, tanto che oggi il russo è la lingua madre di quasi un quinto della popolazione.
Le sorgenti termali di Tiberiade erano note da prima dell'epoca cristiana e nella zona meridionale della città hanno dato vita a diversi centri termali (non a caso Tiberiade è gemellata con Montecatini). Prima di proseguire con il viaggio, il mattino seguente, passiamo un'oretta e mezza all'Hamat Tiberias National Park, a mollo in una delle tre piscine calde all'aperto; io e Song siamo entrambi molto amanti delle hot springs, ma restiamo un po' delusi perché non ci aspettavamo delle piscine poco più grandi di una vasca da bagno.
A questo punto raggiungiamo Nazareth, la città dove Gesù trascorse la sua giovinezza. Quando attraversiamo la città di Cana racconto a Song il suo primo miracolo, quando il Nostro fu invitato a un matrimonio e trasformò l'acqua in vino. Song ridacchia come al solito ma non mostra particolare entusiasmo visto che è astemio. Proseguo la lezione di catechismo informandolo che secondo il Nuovo Testamento Maria viveva a Nazareth quando l'arcangelo Gabriele le comunicò che era incinta di Gesù. Dopo essere scesi dall'autobus e aver impietosito la cameriera di un caffè affinché ci tenesse gli zaini, siamo andati appunto a visitare la chiesa dell'Annunciazione, una basilica cattolica in stile modernista, realizzata negli anni Sessanta nel luogo in cui, secondo molte confessioni cristiane, si trovava la casa di Maria. Poco dopo scopriamo che per gli ortodossi l’Annunciazione non sarebbe avvenuta mentre Maria era a casa, bensì nel momento in cui stava prendendo l'acqua alla fontana; essi commemorano questo evento con un'altra chiesa, decorata da un gran numero di affreschi, che sorge sopra a una cripta risalente all'epoca di Costantino in cui c'è l’unica sorgente di Nazareth da cui sgorga acqua tutto l’anno. Tra gli altri luoghi del Nuovo Testamento visitiamo anche la chiesa francescana costruita nel 1914 nel luogo in cui all'epoca c'era la bottega di falegname di san Giuseppe; a Song avevo anche detto che non era il vero padre di Gesù, ma questo già lo sapeva.
Nazareth è considerata uno dei centri culinari più rinomati del paese, ma visto che i prezzi per mangiare qualcosa in città sono straordinariamente alti a causa della grande presenza di folte comitive di turisti religiosi, mi faccio convincere da Song a mangiare un panino da KFC che è - come dice il nome stesso del fast food - farcito con pollo fritto.
Nazareth oggi è una grande città quasi totalmente araba e infatti avrebbe dovuto far parte della Palestina, ma invece fu occupata e annessa dallo Stato d’Israele. Da allora i cristiani si sono dimezzati e oggi rappresentano circa il 30% della popolazione araba, mentre i due terzi sono islamici.
Quando si parla della complessa situazione politica e sociale di Israele, raramente si menziona il fatto che più di un quinto degli israeliani sia di etnia araba e di religione non ebraica. Tra arabi ed ebrei ci sono evidenti disparità socio-economiche, ad esempio gli ebrei fanno meno figli (tranne gli ultra-ortodossi naturalmente) e vivono più a lungo, mentre gli arabi sono più poveri e sono più frequentemente disoccupati. Benché abbiano di fatto gli stessi diritti di tutti gli israeliani, molti di loro si sentono discriminati, poiché in molti ambiti i governi hanno destinato più risorse al miglioramento degli standard di vita degli ebrei. Inoltre, anche se detengono alcuni seggi in Parlamento, nessun partito arabo ha mai preso parte a un governo di coalizione.
Secondo alcuni, Israele si impegna parecchio per integrare i cittadini arabi nello Stato, per questo sempre più persone non ebree (specialmente se hanno una buona situazione economica) non fanno fatica a definirsi israeliani e considerano positive le relazioni tra la popolazione ebraica e quella araba. Per altri, invece, la distanza tra i due popoli si è accentuata, come dimostra il fatto che nel maggio 2021 moltissimi arabi israeliani si sono uniti ai palestinesi nello sciopero generale per protestare (in alcuni casi in modo violento) contro le politiche del governo di destra di Netanyahu, soprattutto dopo la legge del 2018 che definiva Israele uno stato esclusivamente ebraico. Le proteste hanno unito due comunità che negli ultimi decenni erano state spesso divise tra loro e per una volta hanno preso di mira anche le annose vessazioni contro i palestinesi, come i bombardamenti sulla Striscia di Gaza e l’espropriazione sistematica delle case e dei terreni a Gerusalemme est e in Cisgiordania.
Un altro autobus procede lentamente nel traffico alla volta di Akko (Acri), affascinante città crociata, patrimonio UNESCO da più di vent'anni, situata in una posizione invidiabile su un basso promontorio. Ciò che colpisce subito appena arrivati nel centro storico, sono le mura e i bastioni affacciati sul mare, su cui si può camminare ammirando un panorama spettacolare, soprattutto all'ora del tramonto.
La storia di Akko è iniziata durante l'Età del Bronzo ed è proseguita con poche interruzioni fino ad oggi. Nell'antichità ha avuto a che fare con diversi dominatori fino all'arrivo dei crociati, che la conquistarono facendone il loro porto principale. A quell'epoca risalgono la fortezza dell'Ordine degli Ospedalieri, religiosi dediti alla cura dei pellegrini che in passato visitavano la Terra Santa, e il Tunnel dei Templari, un passaggio sotterraneo (scoperto per caso nel 1994) costruito dai cavalieri Templari per collegare la loro fortezza principale al porto turistico e che serviva a trasportare l'oro. Purtroppo non sono riuscita a visitare nessuno dei due monumenti perché alle 5:30 avevano già chiuso.
Tra il Medioevo e l'Età moderna, dopo essere stata distrutta dai mamelucchi, Akko attraversò un periodo buio, mentre la sua rinascita fu merito di un militare ottomano di origine bosniaca, tale Ahmad al-Jazzār, che dal 1775 ne diventò il governatore. Pochi anni dopo Napoleone tentò di conquistarla nell'ambito della sua Campagna d'Egitto, ma Al Jazzar con l’aiuto della flotta inglese la difese in modo molto efficace. Ad Al Jazzar si deve anche la progettazione della Moschea di Al Jazzar (la più grande d'Israele, realizzata in pietra e maioliche verdi nel luogo in cui sorgeva un’antica cattedrale costruita dai crociati), e la realizzazione dell'Hammam Al Pasha, rimasto in uso fino agli anni ’40 e oggi visitabile. Inoltre al periodo ottomano risale il bazar turco, ancora oggi molto interessante e pieno di gatti.
Durante le tre ore passate ad Akko, il sole prima ha colorato di giallo le imponenti mura, poi si è spento nel mare di fronte al porto turistico e infine ha reso il cielo sempre più rosa. Lasciamo uno dei posti più belli di tutto il viaggio e con il treno raggiungiamo Haifa, dove passeremo la notte.
Con l'inizio del mandato inglese, mentre la cittadella di Acri perse importanza, la dirimpettaia Haifa diventò il porto principale della Palestina. Nonostante l'ostilità degli arabi nei confronti degli immigrati ebrei che nel frattempo arrivavano a migliaia, quando nacque lo Stato di Israele entrambe le città furono facilmente conquistate dalle forze armate ebraiche e anche da qui decine di migliaia di arabi furono costretti ad andarsene.
Oggi sono entrambe città miste e in particolare Haifa rivendica con orgoglio il fatto di essere un modello di convivenza per gli arabi e gli ebrei, infatti nelle rotonde troviamo simbolicamente affiancati l'albero di Natale, la mezzaluna e la menorah. La comunità araba rappresenta circa un decimo della popolazione e professa per la maggior parte la fede cristiana, infatti qui ci sono più addobbi natalizi di quanti io ne abbia visti in tutta la settimana precedente nel resto del paese.
Haifa è ancora oggi una grande città portuale ed è adagiata sulle pendici del Monte Carmelo, come scopro una volta arrivata, quando decido di raggiungere a piedi la stanza che avevo prenotato e arrivo stremata dalla salita.
"In Corea dicono che un giorno senza uovo non è un giorno", dice Song mentre facciamo colazione nel suo ostello. Siamo nella cosiddetta Colonia Tedesca, una delle colonie fondate in Palestina negli ultimi decenni dell'Ottocento da questi protestanti tedeschi che si facevano chiamare templari, un nome che potrebbe generare molta confusione. Essi tra l'altro costruirono queste belle case dai tetti spioventi che tanto affascinarono Baha’ullah, il fondatore della religione baha’i. Ecco perché qui ad Haifa sorge la sede internazionale di questo culto: sollevando lo sguardo verso la sommità del Monte Carmelo si vedono le spettacolari Terrazze Baha'i, che costituiscono la più grande attrattiva della regione. L'ingresso è situato nella parte alta della città e ci sono moltissimi turisti in attesa di partecipare alla visita guidata. I giardini furono realizzati poco più di vent'anni fa e sono davvero curatissimi e coloratissimi, senza contare che si estendono su diciannove terrazze digradanti che si stagliano sullo sfondo blu intenso della baia di Haifa. Alla fine del giro possiamo entrare nel mausoleo a rendere omaggio ai resti mortali del Báb, un uomo di origine persiana che a metà dell'Ottocento dichiarò di essere la Porta (Báb) attraverso cui sarebbero state rivelate le profezie. Lui fu accusato di eresia e fucilato, ma nel frattempo aveva lasciato numerosi seguaci, tra cui il nostro Baha’ullah: anche lui non fu accolto favorevolmente in Persia, ma almeno non fu ucciso bensì solo esiliato in vari posti, tra cui la colonia penale ottomana di Akko. Qui elaborò le basi della nuova fede monoteista: l’unità di tutte le religioni, l’uguaglianza tra uomini e donne, la pace nel mondo, l’istruzione obbligatoria per tutti, eccetera. Nel mondo ci sono tra i cinque e i sei milioni di seguaci del bahaismo: la tradizione vuole che chi può si rechi almeno una volta nella vita in pellegrinaggio alla cella di Baha’ullah ad Akko e qui, ai giardini di Haifa. A parte tutti i princìpi molto condivisibili di questa religione, la guida spiega che ogni fedele è tenuto a devolvere dei soldi alla chiesa, in proporzione a quanto possiede.
Tra Haifa e Tel Aviv sorgono i resti dell'antica Cesarea, uno dei più importanti siti archeologici romani del Medio Oriente, suggestivi vicino alla spiaggia. Purtroppo però devo rinunciare perché un altro Shabbat sta per iniziare e se non arriviamo in tempo a Tel Aviv rischiamo di non trovare più treni.
Fine anno a Tel Aviv
A Tel Aviv avevo prenotato un letto in un ostello situato in una posizione magnifica di fronte alla spiaggia. Si tratta di una struttura innovativa costituita da microstanze dotate di uno o due letti e uno spazio veramente angusto, ma dotato di tutti i comfort; per entrare nelle camere e nella struttura invece di usare la chiave bisogna cliccare un pulsante sulla app.
Al piano di sopra c'è una bella terrazza sempre popolata da viaggiatori, dove ho conosciuto subito Daniel. Figlio di un musulmano ceceno morto nel 2021 e di un'ebrea di Odessa che si erano conosciuti a Netanya, vive a Londra e, anche se i genitori gli hanno sempre ripetuto di non venire in Israele, lui è qua che cazzeggia dalla mattina alla sera bevendo una birra dopo l'altra e facendo discorsi strampalati ma non privi di interesse. Un impiegato dell'ostello in ciabatte e capelli lunghi spettinati mi dà il benvenuto e anche lui come prima cosa mi dice che lo Stato sta diventando sempre più religioso, criticando il nuovo governo Netanyahu che proprio oggi si è insediato. Ancora non sanno che, poche settimane dopo, a Tel Aviv si svolgerà una lunghissima serie di manifestazioni contro la riforma giudiziaria decisa dal governo.
Nel pomeriggio l'atmosfera è molto vacanziera su questo lunghissimo lido cittadino. All'ora dell'aperitivo alcuni stabilimenti propongono la musica del dj, ad esempio qui ad Alma Beach, dove la gente sorseggia birra Goldstar direttamente sulla sabbia o sugli appositi tavolini del bar. Guardando il mare, sulla sinistra spicca il promontorio di Old Jaffa, che raggiungo dopo il tramonto quando tutte le luci si sono accese.
All'ora di cena mi dirigo nel centro di Tel Aviv, dalle parti di Rothschild Blvd, dove si trovano quelli che sono considerati tra i migliori ristoranti e locali del Medio Oriente. Al Beer shop mi siedo insieme a un gruppo di amici sui quarant'anni che stanno parlando di cosa faranno domani sera, l'ultimo dell'anno: una di loro racconta le abitudini della sua famiglia, di origine russa, l'altra delle usanze che hanno loro che provengono dal Cile. Accanto siede un americano con la camicia a scacchi e un altro amico dai lineamenti etiopi. "È il bello dell'Aliyah (l'immigrazione degli ebrei in Israele)," mi dice la cilena "grazie all'ebraico riusciamo a comunicare con persone di tutto il mondo".
Ceno in un ristorante pretenzioso dal nome italiano che fa molto glamour, dove c'è una lunghissima fila, mi siedo al bancone e un piatto di pasta al nero di seppia e frutti di mare costa 25 euro. Credo che i ristoranti di Tel Aviv siano i più cari del mondo.
Sabato mattina mi incammino verso Giaffa percorrendo il lungomare gremito di gente che cammina e fa sport. L'appuntamento del free walking tour è alla Torre dell’Orologio, costruita in tarda epoca ottomana. Giaffa ha una storia molto antica e una popolazione a maggioranza araba che la rendono molto diversa da Tel Aviv: fu infatti per almeno tre millenni uno dei porti più grandi del Mediterraneo. Qui a Ioppe veniva sbarcato il cedro del Libano che servì per fabbricare il primo Tempio, e in seguito giungevano i pellegrini europei diretti in Terra Santa attraverso le galee affittate dai veneziani. Inoltre, secondo la tradizione cristiana, da Giaffa il profeta Giona salpò verso Tarsis e su questa medesima spiaggia fu rigettato dal pesce che lo aveva ingoiato durante la tempesta (evento ricordato con una bella fontana a forma di balena), mentre l’apostolo Pietro, nel periodo in cui fu ospite di Simone il conciatore, resuscitò una donna di nome Tabità: questi eventi sono commemorati nella chiesa francescana di S. Pietro, costruita sulle rovine di una cittadella crociata.
Di fronte alla massa blu del mar Mediterraneo la guida ci racconta il mito di Andromeda, la principessa d'Etiopia incatenata dalla madre a una roccia proprio qui davanti e salvata dall'eroe Perseo, che uccise il mostro e poi se la sposò. Subito dopo srotola un lunghissimo papello in cui sono elencati tutti i popoli che nei secoli conquistarono Giaffa: dopo il lungo periodo arabo passò ai crociati, che la governarono per più di un secolo prima dell'arrivo degli Ottomani. Anche Giaffa fu sottoposta all'assedio delle truppe napoleoniche, ma a differenza di Akko la città fu espugnata e alla conquista fece seguito un massacro di migliaia di prigionieri. Nell'epidemia che seguì molti soldati napoleonici furono curati nel monastero armeno che sorge sul lungomare e molti persero la vita. Pochi anni dopo Napoleone commissionò a Antoine-Jean Gros il dipinto che, con il titolo "Bonaparte visita gli appestati di Jaffa", è oggi esposto al Louvre e ci viene mostrato dalla guida, pure se non si ricorda il nome del pittore: l'episodio non si sa se sia avvenuto realmente, però è palese l'intento celebrativo del generale rappresentato come un salvatore, nel momento in cui la stampa inglese si sbizzarriva con la propaganda antinapoleonica.
Quando arriviamo al vecchio porto, che oggi è diventato un'area ricreativa sempre affollata, la guida ci parla dell'arancia di Giaffa, una varietà molto famosa. Questi frutti furono per secoli la principale produzione della Palestina e fino a qualche decennio fa venivano immagazzinati ed esportati in tutto il mondo da questo porto, ma con l’arrivo dei sionisti il business passò nelle mani degli ebrei: le loro tecniche infatti garantivano una qualità ed un raccolto superiori rispetto a quelli palestinesi.
All'inizio dell'Ottocento Giaffa era ridotta a un piccolo villaggio, ma poco dopo iniziò la sua ricostruzione, mentre anche qui sbarcavano sempre più ebrei, soprattutto con l'inizio del mandato britannico e poi durante gli anni Trenta, a causa delle persecuzioni naziste. Poiché gli arabi non apprezzavano moltissimo i nuovi arrivati, spesso boicottavano le navi ebraiche, così nel 1936 fu costruito il nuovo porto di Tel Aviv (che a sua volta è caduto in disgrazia negli anni ’60, dopo la costruzione dello scalo di Ashdod).
Quando gli inglesi stavano per lasciare la Palestina crebbero le tensioni, con i cecchini arabi che sparavano sugli ebrei dal minareto della Moschea Hassan Bek, che è ancora qui, ben conservata, ma non è aperta al pubblico. Giaffa fu dunque conquistata dalle forze ebraiche e dopo l'indipendenza fu riunita in un unico comune con Tel Aviv; gli arabi furono cacciati e le loro case vennero occupate da immigrati ebrei. Negli anni ’50, la città vecchia fu nuovamente abbandonata a se stessa, mentre negli ultimi anni sono stati compiuti importanti sforzi per darle un aspetto attraente per i turisti: il borgo è stato restaurato, sono nati bar, ristoranti, negozi, gallerie d'arte e musei. Il tour termina nei giardini HaPisgah, situati su una graziosa collinetta verde panoramica.
Attraversata la colonia americana-tedesca, raggiungo Florentin, il quartiere artistico della città, per un pranzo messicano. Le strade decorate con murales sono fiancheggiate da gallerie d'arte, caffè bohémien e bar con birra artigianale e musica dal vivo. Attraverso una linea ferroviaria ottocentesca in disuso oggi trasformata in un parco e mi reco al Museo Nachum Gutman, che espone le opere dell’artista israeliano che divenne uno dei pittori e illustratori di libri per bambini più famosi di tutto il paese. Mi trovo a Neve Tzedek, la zona più antica di Tel Aviv (se si può considerare antico un quartiere della seconda metà dell'Ottocento), e imbocco il prestigioso Rothschild Boulevard, punteggiato di esclusivi grattacieli appena costruiti. Qui sorge l'Independence Hall, dove David Ben-Gurion dichiarò la nascita dello Stato di Israele nel maggio del 1948. L'edificio era la casa di Meir Dizengoff, uno dei primi esponenti del movimento sionista e primo sindaco della città. Fu lui a guidare quelle famiglie ebree provenienti da Kishinev e da Odessa che acquistarono un vasto terreno desertico a nord della città, poi divisero l'area in lotti e li assegnarono tramite una lotteria. Era il 1909 e la nuova città fu chiamata Tel Aviv, Collina di Primavera.
Lungo Rothschild Blvd e nelle vie trasversali si trovano numerose strutture Bauhaus, lo stile portato dagli architetti ebrei di origine tedesca fuggiti dalle persecuzioni naziste. In tutta la città pare ci siano circa 4000 edifici caratterizzati da linee orizzontali, tetti piatti, pareti bianche, balconi arrotondati, che costituiscono il più vasto insieme di edifici Bauhaus del mondo, tanto che sono stati inseriti nel 2003 nel Patrimonio UNESCO.
Habima square mette fine al lungo Boulevard, per cui svolto a destra diretta al Mercato di Sarona, una nuova struttura coperta che punta sull'eccellenza alimentare con negozi, locali di street food e ristoranti. Anche Sarona (fondata dai soliti templari tedeschi) ha subito moltissimi interventi di restauro negli ultimi anni, come la Vecchia Stazione Ferroviaria e altri quartieri della città, mentre molte nuove infrastrutture sono ancora in fase di realizzazione, visto che oggi Tel Aviv conta molto sulla sua crescente fama di città tra le più trendy del mondo. In realtà il food market l'ho visto solo dall'esterno, perché mancava pochissimo all'ora del tramonto, che volevo guardare dalla spiaggia. Per arrivare in tempo devo prendere un autobus, infatti pure se è Shabbat un limitatissimo numero di mezzi circolano lo stesso, ma non si paga il biglietto. Passiamo dalla piazza più grande della città, Rabin Square (dove fu assassinato l'ex primo ministro), che oggi si presenta come un cantiere. Scendo dall'autobus nei pressi dell'Hilton beach, che prende il nome dall’omonimo albergo che spicca nella sua alta bruttezza a due passi dal mare.
Quando l'ultimo pezzo di sole affoga nel mare, intraprendo la lunga passeggiata verso sud, attraversando tutte le spiagge che si susseguono con i loro aperitivi e la loro musica: gli uccelli svolazzano in stormi, le palme ondeggiano al vento, molti moderni grattacieli si stanno illuminando.
Torno in centro per l'ultima cena: è il 31 dicembre, ristoranti e club sono affollati, ma a quanto apre ben pochi festeggiano l'ultimo dell'anno. A mezzanotte dalla mia microstanzetta sento in lontananza gli scoppi di pochi, brevissimi fuochi d'artificio. La mattina dopo ho il volo ad un orario abbastanza comodo, ma tutti mi hanno consigliato di arrivare in aeroporto almeno tre ore prima. Nel mio caso non ce n'era motivo, perché i controlli sono stati rapidissimi come in qualunque aeroporto europeo.
Dopo dieci giorni di esplorazione di questo Paese così complesso, in cui la religione rappresenta ancora l'elemento più divisivo della società, sono molto sorpresa nell'apprendere che Israele è uno dei Paesi meno religiosi del mondo. Ma soprattutto mi rendo conto che ho le idee ancora più confuse di quando ero partita.
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