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GOMITO A GOMITO CON IL MAR BALTICO

Viaggio in Estonia, Lettonia e Lituania

Estonia - Lettonia - Lituania - Immagini

Il viaggio di quattro settimane nei Paesi Baltici inizia dalla piccola e periferica Estonia, dove un inusuale caldo torrido non frena i nostri eroi dall'esplorazione di foreste e fattorie, musei e mercati, lottando contro un destino avverso che non vuole farli arrivare al mare. Si giunge in Lettonia, dove tutto gira intorno alla splendida Riga: gabbiani e turisti, spiagge baltiche e parchi naturali, chiese ortodosse ed ex prigioni. Infine si entra in Lituania, dove i viaggiatori pedalano senza sosta nell'affascinante penisola di Neringa, sgranano gli occhi presso la collina delle croci, conoscono da vicino la comunità dei caraimi e inaspettatamente apprezzano la cucina locale, così diversa da quella mediterranea. La storia nel tritacarne della modernità non finisce di sorprendere: cimeli sovietici e prigioni trasformate in bed&breakfast, mentre i crocieristi seguono la sagoma di Topolino nella città vecchia di Tallinn. 

Un concetto geografico semplificatorio

Fummo costretti a presentarci uno alla volta ai doganieri. Il mio interrogatorio fu il più lungo; delle nove persone a bordo ero l’unico passeggero. “Che cosa ci fa su questa nave?” mi chiese in inglese uno dei doganieri. “Volevo vedere il Mar Baltico”, risposi assonnato. “Perché, cos’ha di speciale?” “Secondo i marinai è il più bello di tutti.” “Mai notato”. “È la luce a essere speciale. Morbida e calda”. “La luce?” gli uomini si scambiarono un’occhiata. “In autunno s’infiamma.” “Lei che cosa fa di lavoro?” “Lo scrittore.” “Ah!” Un pazzo, ma non pericoloso. Mi sembrò di cogliere una punta di sarcasmo nel modo in cui mi timbrò il passaporto.
(Jan Brokken, "Anime baltiche")

Nell'impresa mi ero cacciata con le mie stesse mani. Quattro settimane gomito a gomito con due leggendarie entità per me quasi del tutto sconosciute: il Mar Baltico e Marcello. Col primo ci avevo avuto a che fare di persona una sola volta, a Travemünde, località balneare nei pressi di Lubecca (location di un tramonto davvero degno di nota). Il secondo invece lo avevo incontrato due volte, tre con quella sera in cui decidemmo di partire insieme, pacchetto completo: Paesi Baltici e Berlino (sapevamo che in mezzo ci fosse la Polonia, ma avevamo inconsapevolmente minimizzato l'estensione del suo affaccio baltico, forse perché entrambi ossessionati dal trattato di Versailles).
L'Estonia, la Lettonia e la Lituania vengono usualmente propinate all'opinione pubblica come un tutt'uno, a causa delle svariate somiglianze che presentano: la collocazione geografica, la ridotta estensione, il territorio pianeggiante, la ricchezza di foreste e di acqua, il pluriennale inglobamento forzato nell'URSS, l'indipendenza ottenuta nel 1991, il recente ingresso nell'UE, l'impetuoso addentrarsi nel luccicante mondo del capitalismo. Tutto questo e molto altro − in particolare la singolare bellezza delle donne e il primato europeo in quanto ad incidenti stradali − ha fatalmente trasformato tre Stati autonomi e differenti tra loro in un concetto geografico semplificatorio: le Repubbliche Baltiche (concetto che abbiamo provato a scardinare il più possibile durante tutto questo peregrinare su autobus-sauna privi di finestre e treni nuovi di zecca acquistati grazie ai fondi europei).

EESTI/ESTONIA

I muri hanno orecchie e le orecchie begli orecchini.
(Paul-Eerik Rummo, poeta estone)
Tartu

Ma iniziamo dal principio. La "piccola Estonia" non gode di eccessiva popolarità: non solo ha una posizione alquanto defilata nella carta europea, ma è così minuscola che sembra quasi che la Finlandia − e anzi la Scandinavia intera − le possa cadere addosso da un momento all'altro distruggendola per sempre. La lingua inoltre è caratterizzata da un vocabolario traboccante di termini ugro-finnici impronunciabili e, come se non bastasse, ci abitano appena un milione e trecentomila abitanti, i quali hanno l'incomprensibile usanza di non emigrare.
Il nostro itinerario è incominciato da Tartu, la seconda città più grande del Paese, nota per la sua università presente sin dal 1632. Il tassista Sergei, ex alcolizzato, ex russo ed ex ballerino (cosa quest'ultima che sembrerebbe incredibile oggi a giudicare dalle dimensioni della sua pancia), ci ragguaglia immediatamente in merito al caldo davvero inusuale che sta imperversando in questo luglio nordico. Non è ancora completamente buio quando alle 23 e trenta ci rechiamo in un pub gotico per mangiare un pancake (nella cui preparazione gli estoni sono degli specialisti), invece alle 2 e mezza circa già comincia vagamente ad albeggiare.
Di giorno (stemperato il tasso alcolico) il centro, nonostante i turisti e gli studenti che affollano i tavolini all'aperto, è tanto placido e silenzioso che si può distintamente sentire il rumore dei tacchi sull'acciottolato, mentre si passeggia tra vasi fioriti, carrelli dei gelatai, targhe che commemorano i trascorsi di teologi e filosofi illustri. Nella piazza principale l'effetto torta nuziale è assicurato dal municipio rosa confetto, dagli stucchi bianchi e dalla fontana scura che rappresenta due fidanzatini che si baciano perennemente sotto un ombrello grondante. La città è attraversata da un fiume, molto ambito in questi giorni di gran caldo nonostante il suo colore rancido, ed è molto piacevole da visitare in bicicletta perché le strade hanno poca pendenza (tranne nell'impervia parte centrale, occupata dalla collina della cattedrale).

Il Museo delle prigioni del KGB è situato nella stessa Casa Grigia che negli anni Quaranta e Cinquanta ospitava la filiale estone del Comitato per la sicurezza dello Stato sovietico (che sfortunatamente lavorò con molta solerzia anche da queste parti). Già nel 1940, quando l'URSS occupò l'Estonia per la prima volta, numerosissimi presunti oppositori del regime furono arrestati, o semplicemente sparirono senza lasciare traccia. Poco dopo, i temibili addetti alla "sicurezza" cominciarono a organizzare le deportazioni di massa: nella prima ondata, condotta in tutti i tre Paesi baltici contemporaneamente, più di diecimila persone affrontarono un orribile viaggio in treno verso la Siberia; nella seconda il numero di persone che dovettero lasciare la loro casa raddoppiò. Migliaia di persone persero la vita, mentre i tanti che tornarono in patria non venivano più considerati cittadini a tutti gli effetti.
Il piano seminterrato della Casa Grigia riproduce fedelmente le celle dei prigionieri del periodo sovietico: notiamo un cubicolo ampio meno di un metro quadrato, nel quale dovevano passare la notte i prigionieri da interrogare, realizzato in maniera tale che non si potesse stare comodi né in piedi, né seduti, né sdraiati, mentre alla fine del corridoio un'impressionante guardia carceraria di cera appare appena si esce da una delle celle. Il resto dei locali ospita una mostra permanente: sono esposte numerose fotografie e memorabilia provenienti dai gulag e viene ampiamente trattato il tema della resistenza contro i sovietici, che ebbe luogo nelle foreste estoni dopo la guerra.
Oggi, quasi vent'anni dopo il crollo dell'Unione Sovietica e l'indipendenza del Paese, la situazione è totalmente cambiata. Al mercato vicino alla autobussijaam sono quasi tutti russi i venditori di scarpe, frutti di bosco, patate, cavoli, aneto, fiori, magliette, mutande, carte geografiche, icone di San Nicola. Come lascito del fenomeno di russificazione attuato nei decenni del regime, quasi un quarto degli attuali abitanti dell'Estonia sono russi; ma a quanto pare quella che un tempo era l'élite della società, ora spesso rappresenta la fetta più emarginata della popolazione, quella che svolge i mestieri più umili, che più frequentemente ha problemi di alcolismo e che non riscuote una grande simpatia né da parte della popolazione estone né del governo, il quale difende strenuamente la propria identità di fronte alla pressione culturale dell'ingombrante vicino.

Viitna

Mentre ero in fila per il bagno in un bar di Tartu, una frizzante biondina mi aveva caldamente consigliato di visitare Käsmu, incantevole località di mare in pieno Lahemaa National Park (il parco nazionale più antico dell'ex-Unione Sovietica). Purtroppo la ricerca telematica di un'accommodation, non dico a Käsmu, ma anche nei paraggi, è stata vana, così abbiamo deciso di raggiungere con un bus l'abitato più vicino al parco e lì metterci nelle mani dell'ufficio del turismo.
A Rakvere dunque, dopo la gag in farmacia con simulazione di puntura di zanzara (la farmacista, per quanto non abituata a ridere, si è trattenuta a fatica dallo sbellicarsi), anche l'impiegata del tourist office, inizialmente rigida come una mazza di scopa, si è letteralmente sciolta di fronte all'interpretazione magistrale di Marcello alle prese con un ipotetico orso bruno del parco di Lahemaa e ci ha trovato una stanza a Viitna.
Viitna, tecnicamente, è situata qualche chilometro fuori dal Parco vero e proprio (lontana dunque da Käsmu, che chissà per quanto ancora resterà a me ignota). Le smisurate foreste, i graziosi laghetti, i temporali notturni e le distese di nulla che la circondano le regalano un fascino da Val d'Aosta di pianura. La nostra stanza non è altro che l'enorme camera da letto in legno di abete della padrona di casa, fornita di bambola assassina, balcone con vista sulla campagna a perdita d'occhio e mute fotografie di svariate generazioni incorniciate e appese alla parete.

A sette chilometri vi è il "centro" (quattro case), che abbiamo raggiunto in bicicletta circondati da alberi alti come grattacieli. Il menu dell'ottocentesca taverna propone zuppe di salmone e di funghi selvatici, pelmeni (ravioloni ripieni), mulgipuder (porridge di orzo e patate), carne di maiale, crauti stufati, il tutto ricoperto dal consueto strato di panna acida e dalla generosa spruzzata verde di aneto (condimenti che secondo loro esaltano il gusto di qualunque pietanza), accompagnato da pane scuro e innaffiato dalla birra Saku. Alle 10 e 30 di sera, sotto un cielo metallico, spicca ancora di più il giallo graminaceo mentre pedaliamo verso casa cercando di evitare i temibili cani a guardia delle fattorie.
Dopo una fascinosa, elettrica notte di tempesta bianca, ci aspetta una colazione in stile nonna papera: kefir in cui galleggiano succosi lamponi del giardino, muffin appena sfornati, torta di mele ancora calda, formaggio e prosciutto e marmellata di fragole. La giornata non sfocia mai in pioggia ma la promette di continuo, durante gli innumerevoli chilometri di bici tra fiordalisi blu, cicogne appollaiate sugli enormi nidi in vetta ai comignoli, foreste incontaminate di abeti, betulle, pini sottilissimi che raggiungono altezze inimmaginabili: alcuni sono così flessibili che si piegano al vento; altri scricchiolano seminando il panico in due poveri cittadini poco avvezzi alle bizzarrie della natura; altri si sono spezzati e non cadono per terra solo perché i tronchi vicini gli impediscono di farlo (mutua solidarietà legnosa).
Per fortuna il punto più alto dell'Estonia misura appena 320 metri e per il resto è tutto pianeggiante, e questo è l'unico motivo per cui sono riuscita a pedalare per tutti quei chilometri. La domenica mattina ormai avevamo appeso le biciclette al chiodo e, poiché l'invito alla sauna non è più arrivato (addio cappelli di lana cotta a forma di Teletubbies e rami di betulla con cui frustarsi le spalle), un po' delusi ci siamo fatti accompagnare alla fermata del bus che ci avrebbe consegnato dritto dritto nelle fauci di Tallinn.

Tallinn

L'ostello di Tallin è un po' giovanilistico-alternativo per i nostri gusti (roba di bonghi, piedi nudi e narghilè), ma pulito e vicino al centro storico. Raggiungiamo subito la collina di Toompea, sulla quale sorgono la sede color salmone del parlamento estone (da alcune finestre pare sia possibile sbirciare i deputati nudi in sauna) e la magnifica chiesa ortodossa di Sant'Aleksander Nevskij (è finita la funzione e le donne infazzolettate tirano a lucido i pavimenti).
Nei pressi delle torri medievali ancora in piedi, c'è la piazza dove ogni domenica mattina prendeva corpo la resistenza all'invasore sovietico a colpi di dischi occidentali (e gli stessi resistenti di allora continuano ad incontrarsi lo stesso giorno, alla stessa ora, nello stesso posto, senza aver più niente a cui resistere, se non il passare dell'età).
Dalle balconate si domina la città vecchia, quella che con troppa facilità viene definita una bomboniera e che è l'unico teatro concesso alle frotte di crocieristi obbligati a incolonnarsi dietro ad una bacchetta con la sagoma di Topolino. Restaurato dopo il periodo sovietico, il centro storico appare oggi − sotto l'egida dell'UNESCO − come un affastellarsi di abbaini, tetti, torri medievali, case color pastello e figurine segnavento. Man mano che scendiamo verso la parte bassa, constatiamo che i prezzi sono molto più europei che altrove, ma che, nondimeno, la maggioranza dei turisti stranieri in Estonia è concentrata qui (e in particolare nella piazza del municipio).

E non oso immaginare cosa succederà il prossimo anno, quando Tallinn sarà capitale europea della cultura, sempre che si riesca a restaurare il lungomare, attualmente in condizioni pietose. Intanto se ci si siede sugli scogli si può vedere il podio che fu costruito in occasione delle Olimpiadi di Mosca del 1980 (oggi terreno fertile per i writer) e si possono vedere altri brutti edifici risalenti alla stessa occasione, tra cui il terminal da cui partono i traghetti che collegano la città a Helsinki. Quelle Olimpiadi sono famose perché gli Stati Uniti si rifiutarono di parteciparvi in segno di protesta contro l'invasione dell'Afghanistan da parte dell'Urss, e diversi altri Stati seguirono il loro esempio (permettendo però all'Italia di vincere il più alto numero di medaglie dei Paesi occidentali).
Fuori dalle antiche mura, la città diventa anonima: centri commerciali, ristoranti e bar, piazze e vie, vetrine e panchine, condomini e posti auto. Nel quartiere che circonda la stazione ferroviaria è ancora peggio: block in cemento costruiti durante il periodo sovietico, spazzatura, bruttezza, desolazione. Al flea market vendono fiori, frutta e verdura, pesce, carne, scarpe, scatolette, lapidi, articoli di ferramenta e cartoleria, ma anche cimeli sovietici (la sveglia col faccione di Stalin, la bandiera dell'Estonia socialista, busti di Lenin, medaglie, orologi, spillette).
Nel frattempo, nella piazza del municipio, i maglioni di lana pungente, i cucchiai di legno, i grembiuli di lino, i pupazzetti a forma di elfo, le borse di feltro e i portafogli di cuoio sono venduti in Euro, visto che tanto è questione di pochi mesi e anche per venire in Estonia non dovremo più cambiare i soldi.

Oggi ci sono un bar e una spiaggia in un'ala della prigione Patarei, rimasta in funzione fino a metà degli anni 2000, ma il resto è rimasto così com'era: con il filo spinato ormai spiegazzato, le torrette di guardia arrugginite, le grate alle finestre e i lampioni fulminati. A uno sguardo superficiale, potrebbe sembrare che l'obiettivo sia cancellare rapidamente la memoria storica: i giovani che oggi parlano inglese erano troppo piccoli e quello è un passato lontano; adesso lo sguardo è puntato sul futuro, le aree wifi gratuite si sprecano, l'inventore di Skype è estone e i cittadini votano online. In realtà in tutti i Paesi baltici la memoria dell’occupazione sovietica è invece al centro della costruzione dei nuovi stati democratici indipendenti, che ormai fanno parte dell'Unione Europea, come abbiamo visto nelle prigioni di Tartu, nel museo dell'occupazione e nei due musei relativi al KGB che si trovano qui nella capitale, e come vedremo poi in Lettonia e in Lituania.
Visto che noi fortunatamente non siamo crocieristi con quattro ore a disposizione per conoscere la magia di Tallinn, ci siamo avventurati con piacere fuori dal gioiellino medievale. Ad un paio di chilometri dal centro, ad esempio, sorge il palazzo Kadriorg, costruito come residenza estiva dello zar Pietro il Grande, circondato da un magnifico giardino. Nei paraggi si trova il museo Kumu, dove è possibile ammirare le opere che durante il regime sovietico venivano considerate consone agli alti ideali di progresso e crescita economica.
Dall'altra parte della città invece, si può visitare un museo open air che illustra la vita agreste in Estonia fino alla fine del XIX secolo, con ricostruzioni di case, fattorie, mulini e situazioni di vita quotidiana. Nella taverna all'interno si possono mangiare ottimi mulgipuder e crauti in compagnia degli antichi estoni in pausa pranzo, al cellulare con la moglie. E poi si può fare un giro sull'enorme altalena tradizionale in legno, a sei o più posti, che è una delle passioni degli estoni (tanto è vero che l'altalena acrobatica, insieme alla gara di trasporto delle mogli, è uno degli sport nazionali. Veramente).

Viljandi

Diamo l'addio all'insopportabile australiano che ci provava con insistenza con la biondina oca. Salutiamo per sempre Alberto, il padovano che sta coronando il suo sogno di giungere a Capo Nord con la sua bicicletta (ingozzandosi di Nutella e senza mai guardare nemmeno un museo dell'occupazione o una fattoria estone ricostruita). Facciamo i nostri migliori auguri a Stu, che ha lasciato forse per sempre l'Inghilterra e insieme alla sua ragazza vuole ricostruirsi una vita in Estonia (o altro est). Ci congediamo dai giovani del luogo (Tere, Hüvasti, Take care) e prendiamo un autobus per Viljandi.
Anche qui dentro sudiamo tutti copiosamente, mentre al di là delle inespugnabili finestre siamo circondati da chilometri quadrati di nulla piatto e alberato. Soltanto qualche casona appare di rado, sperduta in lontananza, e queste persone singole che scendono ad una fermata isolata devono raggiungerla a piedi.

A Viljandi avremmo voluto andarci il week end precedente per assistere al folk festival, ma c'era il pienone. Adesso al contrario c'è il vuoto, ma il vuoto vero. Perfino la guest house prenotata è inizialmente, e per lungo tempo, deserta. Passeggiando verso il lago, si scopre che l'incantevole Viljandi non ha un centro. Sulla graziosa collinetta campeggiano le rovine del castello; poi, attraversato un ponticello sospeso circondato da mastodontici alberi, si raggiunge il viale dei filosofi (il tutto senza mai entrare in una piazza o in qualcosa che le rassomigli).
Un po' di movimento c'è presso questo circolo dove un gruppo di giovani ci racconta del loro lavoro di volontariato al mulino ad acqua. Due ragazzi sardi ci chiedono con apprensione che diavolo ci facciamo proprio in questo angolo sperduto di mondo, per nostra scelta. La leader è laureata in archeologia e ci racconta di quando ha visto per la prima volta una banana, da bambina; il gestore del bar invece di quando ha visto i carri armati vicino Tartu. E comunque i nostri intervistati non hanno mai più di 25 anni e dunque fatichiamo parecchio ad ottenere testimonianze dirette sulla storia recente.
Al mattino, mentre cerchiamo di comporre un qualcosa che assomigli ad una colazione, leggendo il giornale locale meditiamo sull'opportunità di acquistare a Viljandi una bella casa con giardino di 190 mq a soli 70mila euro, oppure un delizioso bivani di 46 mq all'incredibile prezzo di 3.800 euro. Poi, girellando per il paese, visitiamo l'interessante mostra del pittore naïf Paul Kondas (specializzato in fragole) e quindi ci rechiamo al lago dove, approfittando degli sprazzi di sole tra una nuvola e l'altra, facciamo vita da spiaggia.
Intanto Marcello era impegnato nella progettazione di una carta speculativa del pensiero occidentale: vette metafisiche e pianure empiriste si alternavano nel fervido sforzo ricognitivo che lo ha tenuto occupato durante gli infiniti chilometri percorsi per circumnavigare Viljandi. Per cena, insieme alla zuppa di carote rosse, ci aspetta un acquazzone biblico.

E questa era l'ultima meta dell'Estonia. Un viaggio è fatto di scelte contingenti, casualità, ispirazioni. («Io ho le mie sensazioni, a volte sono sbagliate ma io mi fido di loro», avrebbe detto a questo punto il tassista Sergei). Ebbene, l'Estonia possiede 3.794 km di costa baltica segnati da baie e stretti, mille e cinquecento isole e isolotti, scogliere calcaree dalle quali sgorgano numerose cascate, spiagge con sabbia bianca nascoste in dense foreste di pini. Sembra impossibile, ma siamo riusciti a non vedere niente di tutto ciò.
A Pärnu non c'era posto in ostello e abbiamo dovuto cambiare rotta per l'entroterra di Tartu; a Käsmu stessa cosa, fully booked, con conseguente pernottamento nella periferica Viitna; a Tallinn, quando avevamo già il costume da bagno per recarci alla spiaggia di Pirita, il cielo si era annuvolato; al ritorno verso sud abbiamo dovuto rinunciare all'isola di Saaremaa perché obbligati a tornare a Tartu per recuperare la mia maledetta penna USB dimenticata. Insomma, se escludiamo il lungomare di Tallinn al tramonto (che abbiamo già detto che è un posto sgarrupatissimo), sembrerebbe che questo Paese abbia deliberatamente voluto darci l'impressione di essere uno Stato privo di sbocco sul mare.

LATVIJA/LETTONIA

Così, l’eroe arriva alla stazione, dalla stazione va in albergo. Si cambia e, in uno stato d’animo benevolo, si incammina per la prima passeggiata. Il caffè con la panna è buono, le ragazze hanno gli occhi chiari. Sempre più gli piace questa città, dove il comfort è diffuso, come dall’aerosol, per le piazzette non troppo alte del centro e il viaggiatore libero trascorre il tempo con spensierata limpidezza.
(Sergej Timofeev, poeta lettone)
Tutti in Riga

Urla di gabbiani e coperte offerte dalla direzione dei bar all'aperto: la sera del nostro arrivo, su Riga incombe un cielo gonfio di pioggia. Ma è solo una breve parentesi rinfrescante dentro ad un'estate afosa, parentesi che non basta a far scendere la temperatura all'interno del Central hostel, progettato per mantenere costante il tepore. Legno e inserti colorati rendono l'alloggio confortevole e accogliente, tanto da farci scegliere di trascorrere qui quasi tutte le notti della Lettonia.
Presso l'angolo fumatori situato nel giardino, si alternano vari visitatori. Ad esempio Lorena e Victor, spagnoli della Catalogna (lei è votata alla causa indipendentista, lui lancia sguardi di sottecchi alle lettoni bionde in short); o quelle due olandesi che a tarda ora, illuminate dalla luce ballonzolante di una candela, ci hanno coinvolto in un'impegnativa discussione di carattere teologico. Non mancano nemmeno gli italiani, come questo giovanotto taciturno che gira l'Europa dell'est in vespa, o quei due amici torinesi alle prese con il tour delle capitali baltiche.
Riga, situata sulla foce del fiume Daugava, è la città più grande delle Repubbliche Baltiche ed è la più ariosa e parigina delle tre capitali. Se l'Estonia è il Paese meno religioso al mondo (soltanto il 16% della popolazione si professa credente), in Lettonia la percentuale di atei scende al 60% e la religione prevalente è luterana. Il centro storico, Vecriga, è ricco di luoghi di culto, come ad esempio il Duomo medievale in mattoncini, la gotica Chiesa di San Pietro, la Cattedrale Cattolica di San Giacomo, la sinagoga, la chiesa anglicana.

All'interno della vecchia Riga è inizialmente facile fare confusione tra le tre piazze che di giorno sono suggestive da osservare, mentre nelle sere di luglio sono affollate di gente che mangia e beve ai tavolini, di coppie che ballano, di italiani che cercano di abbordare le avvenenti lettoni, spesso allietati dalla musica dal vivo. Passeggiando poi ci si imbatte, in ordine sparso, nei "Tre Fratelli" (tre edifici costruiti in epoche differenti, i quali, come noi, convivono gomito a gomito), nel palazzo neorinascimentale del parlamento, nella pittoresca Porta Svedese, nella torre delle polveri (l’unica ancora in piedi delle 18 torri del vecchio muro di cinta).
Giunti nei pressi del municipio, spicca l'edificio simbolo di Riga, dal colore rosa acceso: la Casa delle teste nere. In realtà quello che era il ritrovo dei mercanti celibi capeggiati dal nordafricano San Maurizio fu completamente distrutto dalla guerra e dunque oggi vediamo soltanto una ricostruzione, stupefacente ma finta.

Lo squallido edificio nero che sorge alle spalle della Piazza dei Fucilieri ospita il Museo dell'occupazione della Lettonia. Prima di tutto, ripercorriamo gli eventi della prima occupazione sovietica, che prese l'avvio dallo scellerato patto Molotov-Ribbentrop (con il quale l'URSS e la Germania Nazista si spartirono l'Europa orientale), la causa madre di tutte le catastrofi novecentesche vissute dai Paesi Baltici, nonché una delle pietre angolari della memoria pubblica e dell’immaginario storico nazionale. Poi ci dedichiamo all'occupazione nazista e alla devastazione della Seconda Guerra Mondiale, durante la quale nel vicino campo di concentramento di Riga-Kaiserwald (Mežaparks) furono imprigionate circa ventimila persone. Infine, cercando di ascoltare senza essere notati una guida che non avevamo pagato, ci addentriamo nelle varie fasi della seconda occupazione sovietica, che è terminata meno di vent'anni fa. Tra le altre cose entriamo nella baracca di un gulag della Siberia riprodotta a grandezza naturale (occupandoci a lungo del secchio dove facevano i bisogni) e ci interessiamo alle testimonianze degli anni in cui il popolo lettone cominciò a ribellarsi al regime che da decenni lo privava della libertà.
"Le tre occupazioni smantellarono lo stato lettone, contaminarono la terra, e, nel giro di mezzo secolo, portarono la nazione [nata nel novembre del 1918] sull’orlo dell’estinzione" – affermano i curatori del museo, aggiungendo che si tratta di "una storia sull'oppressione, sul terrore e sulla violenza; sulla sfida, sulla resistenza e sull'eroismo; ma anche sull’impotenza, sulla paura e sul tradimento. Soprattutto, però, questa è la storia della resistenza e della forza spirituale che hanno permesso alla nazione di rinnovare lo Stato lettone e di unirsi nuovamente alla comunità mondiale dei paesi indipendenti." In Lettonia dunque, come in tutta l’area baltica post-sovietica, il ricordo della comune sofferenza collettiva causata dall'occupazione, serve fondamentalmente a rafforzare il sentimento di unità nazionale.

Allontanandosi dal centro storico, Riga vanta una quantità di edifici in stile Art Nouveau senza paragoni, la maggior parte collocati nel centro moderno. Uno degli architetti a cui si deve tutto questo rigoglioso fiorire è Mikhail Ejzenštejn, padre del regista del film culto "La corazzata Potemkin". Nei pressi, all'inizio del più lungo dei Boulevard cittadini, il Brivibas, sorge il Monumento alla libertà: una colonna che sorregge la statua di una donna (chiamata affettuosamente Milda dai lettoni), la quale regge tra le mani tre stelle che rappresentano le tre regioni storiche della Lettonia: Kurzeme, Vidzeme e Latgale; durante il periodo sovietico si poteva rischiare l'arresto e la deportazione solo portando dei fiori a Milda.
Procedendo più avanti spicca la sagoma dell'edificio più alto di Riga, l'Hotel Latvija, oggi gestito dal gruppo Radisson. Imperdibile la gita sull'ascensore panoramico di sera, fino a raggiungere lo Skyline Bar al 26esimo piano, da cui la vista è straordinaria.
Nel quartiere "russo" invece si respira tutt'altra aria. Vicino alla stazione degli autobus si snoda il mercato coperto, suddiviso ordinatamente in vari settori, che occupa l'interno degli enormi Hangar dove, ai tempi della Grande Guerra, venivano costruiti i dirigibili Zeppelin. Gli ex capannoni industriali dismessi oggi accolgono anche club e negozi, come avviene in tutte le città del mondo. Nelle vicinanze risalta un tipico esempio di architettura sovietica: l'edificio di mattoni marroni conosciuto come "La torta di compleanno di Stalin".

Rompiamo le righe

Da Riga, con un tragitto di circa mezz'ora in un treno nuovo di zecca, si può raggiungere la più grande e rinomata spiaggia baltica, per tanti anni punto di ritrovo degli apparati sovietici: Jūrmala. Seguendo tutti gli altri bagnanti che scendono alla stazione, ci ritroviamo incanalati in questo lunghissimo viale standard accessoriato di bar, ristoranti, negozi e bancarelle di souvenir. Presa la deviazione verso il mare, costeggiamo la pineta, le Spa, i centri termali e le case di legno per cui questa cittadina è famosa.
Arriviamo in questa agognata spiaggia baltica lunga più di trenta chilometri, dalla sabbia bianca e finissima, col mare apparentemente blu come la bandiera, la gente ordinatamente stesa ad abbronzarsi e la musica vacanziera internazionale giustamente sparata a volume anch'esso vacanziero dai chioschi sulla sabbia. Marcello raggiunge immediatamente il mare a passo di corsa, urlando al mondo baltico la sua soddisfazione incontenibile di immergersi in quell'acqua, giallognola sì, ma situata a moltissimi chilometri dall'Adriatico. Il mare, sorprendentemente privo di sale, ci arriva alle caviglie per diverse centinaia di metri.

Sempre rimanendo in Livonia, per esplorare l'area del Parco Nazionale del Gauja, siamo stati qualche ora in dubbio se trascorrere una giornata a Sigulda oppure a Cēsis, entrambe raggiungibili comodamente dalla capitale. Per fortuna alla fine, forse più per motivi logistici che altro, optiamo per Cēsis. Lì infatti, come tutti i sabato e domenica di luglio, è in corso la festa del paese. Per tutto il centro storico sono posizionate le bancarelle di oggetti di legno, dolci, gioielli, miele, mentre nelle piazzette principali sono distribuiti i tavoli dove poter ingozzarsi liberamente di salsicce, patate, crauti e birra alla spina. La festa è allietata dalle lezioni di tiro con l'arco e di percussioni medievali, e da altre trovate in tema, il tutto nelle rovine visitabili del Castello. Sul palco della piazza centrale invece si alternano concerti di musica tradizionale, spettacoli di comici locali grotteschi e gare di cucina.
Piuttosto alticci per il consumo di birra alla spina e soprattutto storditi dal consumo del cementizio pane fritto all'aglio, facciamo ritorno alla capitale in serata, viaggiando in un autobus che ignora sconsideratamente i limiti di velocità.

Curlandia

Prima di spostarci in Lituania, l'ultima tappa lettone è la Curlandia (in lettone Kurzeme). In particolare la nostra destinazione è Liepaja, affacciata sul Baltico: anche qui raggiungiamo subito a passo di corsa la spiaggia, che si presenta sì bianchissima, ma anche fredda e umida; e, come se non bastasse, all'unico chiosco propongono la musica degli Aventura, che non si è capito se è sempre la stessa canzone oppure è un intero album.
Nel pomeriggio raggiungiamo il quartiere di Karosta, dove il degrado è grigio, le strade sterrate e le panchine vuote. I palazzi di cemento sono tanti cubi messi insieme, con le finestre verdi; certi hanno ingentilito il balcone incassato con una pletora di fiorellini colorati. Nella chiesa ortodossa di San Nicola è l'ora della messa e quando entriamo il pope ha già aperto la porta: le donne hanno tutte il fazzoletto in testa e si fanno il segno della croce in continuazione.

In realtà siamo venuti qui appositamente per visitare la ex prigione di Karosta. Durante il tour guidato ti fanno vedere le celle, quanta gente ci stava dentro, l'ufficio del capo con il busto di Lenin, il ritratto di Stalin accanto alla frasca di betulla secca, il telefono dell'epoca con i tasti di smistamento, insomma tutte le normali caratteristiche delle carceri comuniste trasformate in museo. Vengono offerti inoltre, per gruppi di minimo 10 persone, spettacoli dell'orrore con l'interazione dei visitatori, intitolati “Dietro le sbarre”. La cosa veramente agghiacciante però è che questa prigione funge anche da bed and breakfast: ciò significa che esiste qualcuno al mondo che paga per dormire nel letto di ferro di una cella lurida e per mangiare il vero rancio dei carcerati.
Zuppa di salmone e pankuka con carne per l'ultima cena in questo Paese: è con un po' di malinconia, molti ringraziamenti (paldies) e tante aspettative in merito al futuro, che lasciamo la Lettonia, questo Paese dove è proibito bere bevande alcoliche e fumare in ogni luogo pubblico (anche all'aperto), dove le strade sono linde e immacolate e i semafori diffondono dei suoni sconcertanti alla Space Invaders. Dove è pieno di vespe e dove in estate devi dormire con le finestre chiuse nonostante il caldo, sia perché entrano le zanzare, sia perché alle tre di notte è già tutto illuminato.

LIETUVA/LITUANIA

Tutti hanno il diritto di vivere lungo il fiume Vilna, e il fiume Vilna ha il diritto di scorrere lungo ciascuno.
(Costituzione della Repubblica di Uzupis, Vilnius - Art. 15)
Una sottile striscia di terra

L'arrivo a Klaipeda non è indimenticabile. A parte che Marcello mi tiene il muso dalla mattina per motivazioni solo a lui note, la guest house prenotata non fa un'ottima figura alle 10 e 30 di una sera piovosa, situata com'è in uno dei centinaia di casermoni di cemento orrendi, distante chilometri da qualsiasi cosa.
L'accoglienza riservataci da Norman Bates e da sua mamma (che parlano solo in lituano e tedesco, lingue a noi sconosciute) non è delle più festose. Andiamo a letto senza cena sognando la squisita colazione che ci avrebbero servito direttamente nel mini appartamento l'indomani mattina di buon'ora. Purtroppo l'immangiabile "colazione" (caffè con mezzo chilo di posa e pancake cristallizzati intrisi di olio di pessima qualità) è rimasta intonsa nel vassoio, in compagnia di un inguardabile gatto di ceramica.

Dunque, schivati i lavori in corso, ci precipitiamo verso il centro e lì, tramite l'ufficio del turismo, conosciamo Irena. Questa donna piena di energia è proprietaria di due appartamenti. In uno ci vive lei, l'altro − enorme e centralissimo − lo affitta a noi. Di fronte c'è un bar dove alle 11, affamatissimi, divoriamo crêpe con i funghi e birra e dove, nonostante l'antipatia della cameriera, torneremo più volte.
La giornata non prende nessuna direzione, o ne prende diverse senza senso, seguendo con ansia i nuvoloni in viaggio. Procediamo fino al parco delle sculture, visitiamo la chiesa ortodossa e il caratteristico edificio della posta in mattoncini; poi, al Museo della Lituania Minore, apprendiamo che Memel (il vecchio nome di Klaipeda) ha fatto parte della Prussia per molto tempo, e ciò giustifica l'abbondanza di case a graticcio.
Nel tardo pomeriggio scoppia un acquazzone biblico che scioglie la pesante cappa che ci perseguitava dal mattino: non possiamo far altro che rifugiarci in un ristorante ad assaggiare ravioloni, barbabietole, pesci impanati e altri piatti tipici, scoprendo che lo sport nazionale degli anziani è scroccare sigarette.

Per fortuna il giorno dopo il sole splende con convinzione e possiamo raggiungere in traghetto la sognata Penisola di Neringa. Nella graziosa cittadina di Nida noleggiamo le bici: dopo aver costeggiato il mare e la villa di Thomas Mann, ci inoltriamo nella foresta; in seguito raggiungiamo, dalla parte opposta, le montagne di sabbia, fino al confine con Kaliningrad (quel pezzo di Russia con l'affaccio al mare che è separata da tutta l'altra Russia). Le case sono rosse e blu e tutte restaurate con effetto Lego, i giravento a forma di trenini sembrano giocattoli, i turisti numerosissimi, i ristoranti di pesce affumicato molto affollati.
La spiaggia per nudisti, seppure ventilatissima, è davvero appetibile, ma purtroppo non ci hanno dato la catena per bloccare le biciclette e dunque non possiamo scendere gli scalini per raggiungerla. Lo spettacolo che si gode sulle altissime dune e sul mare è straordinario, la sabbia è finissima, il profumo dei pini intenso. Mica fessi gli alti papaveri dell’ex regime che avevano qui le loro dacie. Mica fesso Thomas Mann (e nemmeno Sartre).

L'inquietante collina delle croci

In Lituania va molto di moda sposarsi, incidere i nomi degli sposi su un lucchetto, ed andare ad appenderlo sulla ringhiera di un ponte, buttando la chiave nel fiume. Poiché è però anche il Paese europeo con il più alto numero di divorzi, dovrebbe anche essere dotato di squadre di sommozzatori che si immergano nelle infide acque per recuperare la relativa chiave (o di fabbri che risolvano il problema in maniera più sbrigativa).
Un'altra usanza è quella di piantare delle croci su un'altura che si chiama Collina delle croci. Questo impressionante luogo di pellegrinaggio nella seconda metà del Novecento ha rappresentato il simbolo dell'identità lituania, inscrivendosi dentro al cerchio della resistenza anti-sovietica: durante il periodo di occupazione, infatti, le ruspe russe più volte hanno spianato la Collina, ma ogni volta la gente ha piantato le croci di nuovo, cocciutamente. Papa Wojtyła la inserì nel suo tour lituano del 1993, donando un crocifisso che oggi è situato ai piedi della collina.
Per visitare la Collina delle croci, dovete prima raggiungere Šiauliai, la quarta città della Lituania; poi un bus vi lascerà a quei doverosi due chilometri che solitamente separano la fermata del bus dal sito di interesse, che vi dovrete smazzare in una trance da incombente cielo plumbeo e sconfinato piattume graminaceo. Quindi troverete un lieve innalzamento del terreno letteralmente ricoperto di centinaia di migliaia di croci di ogni misura e materiale (legno, ferro, ambra, plastica...), rosari, statue di Gesù e Madonne. Attraverserete l'inquietante foresta sacra come in preda all'ubriachezza e, prima di andarvene, scoprirete che vendono le croci, come i cinesi vendono i lucchetti a ponte Milvio.
A Šiauliai − la città meno cara della Lituania − dormo fino a tardi in un ostello della gioventù che ricorda molto da vicino un ospedale, vado dal parrucchiere riuscendo (non senza difficoltà) a farmi tagliare i capelli, incrocio molte donne fuori moda e un discreto numero di russi che si baciano sulla bocca.

Vilnius

Vilnius, come Roma, sorge su sette colli, in un’area ricoperta da foreste di pini. Anche la sua parte vecchia è annoverata nell’elenco del patrimonio artistico mondiale dell’UNESCO: possiede la bellezza di 20 chiese ortodosse e 30 chiese cattoliche, un'antica università e palazzi in svariati stili architettonici, ma in prevalenza barocchi. Il Duca Gedimino, che la fondò nel 1323, ha dato il nome al castello medievale, alla torre, alla collina, al viale più importante della città e a chissà quanti altri luoghi.
Il nostro temporaneo alloggio è un tristo ostello allocato nei paraggi della stazione, nel quale fervono rumorosi lavori di ampliamento e dove tutta la notte fiorisce un continuo, ambiguo smercio di alcolici. La stanza è una minuscola cella dove un ventilatore formato casa di bambole fa ben poco per mitigare l'afa opprimente che in questi giorni rende davvero arduo visitare la città.
La nostra prima meta è la Repubblica di Užupis, il quartiere bohémien situato al di là del fiume Vilnia: uno stato utopico con un vero presidente, con la sua bislacca Costituzione incisa in otto lingue diverse sui pannelli a lato della strada, con gli atelier degli artisti, con i murales colorati, con i negozi di oggetti in ferro battuto, con l'angelo di bronzo che, suonando la tromba, ti dà il benvenuto nel mondo della libertà artistica, e con le ripide salite che conducono, ad esempio, alla taverna dove ho bevuto la birra artigianale più buona che c'è.
Il sabato mattina la città è piena di sposi. Prima di andare a serrare i già citati lucchetti, si fanno fotografare in location più o meno amene e lanciano colombe vive nel libero cielo (dopo essersi sposati in chiesa, voglio dire; sono in maggioranza cattolici qui). Altra gente, noncurante della loro felicità, affolla il mercato delle pulci dove i rubli sovietici, le armi, i francobolli, i 33 giri di Albano e Romina, i samovar e i colbacchi si affastellano sui marciapiedi, pieni di polvere.

Superata la piazza della Cattedrale, da cui partì la spettacolare catena umana lunga 600 chilometri che nel 1989 unì Vilnius a Tallin per protestare contro l'occupazione sovietica, si entra nel centro moderno. Percorso un pezzo del Gedimino Prospektas (fitto di caffetterie americane e negozi europei) si giunge al Museo delle vittime del genocidio [che dal 2018 ha preso il nome Museo delle Occupazioni e delle lotte per la libertà], allocato nell'enorme palazzo che per cinquant'anni ha ospitato il quartier generale del Kgb (Nkvd/Mgb) lituano. Specialmente nei primi anni dell'occupazione (ossia fino alla morte di Stalin), circa duecentomila cittadini ebbero la sfortuna di passare per queste carceri, alcuni prima di raggiungere i campi in Siberia, altri lasciandoci le penne a causa delle torture subite in cella.
Nei sotterranei freddi e umidi possiamo appunto vedere le prigioni con le pesanti porte metalliche, le pareti imbottite, le stanze della tortura, l'ufficio del personale con la centralina di spionaggio, il tavolo degli interrogatori e poi la camera di esecuzione, dove sono ancora visibili i fori dei proiettili, e la macabra esposizione delle ossa ritrovate. Al primo piano invece c'è una meno morbosa esposizione permanente, dedicata alle attività degli eroici partigiani della resistenza (i celebri “fratelli della foresta”) contro le truppe regolari russe. Questo disperato tentativo di resistenza fu combattuto dai sovietici uccidendo e deportando nei gulag siberiani migliaia di persone, e definitivamente stroncato all'inizio degli anni '50, grazie al lavoro di intelligence da parte dell'armata rossa.
In un'altra sezione dell'edificio vengono illustrati i metodi di spionaggio messi in atto dal KGB fino al crollo dell'URSS. Migliaia di cittadini lituani sospetti venivano schedati e controllati dalla polizia segreta, che provvedeva poi ad arrestarli e ad internarli. Intellettuali, ecclesiastici, studenti e funzionari furono fatti sparire perché sospettati di anticomunismo, et voilà: l'élite dirigente lituana viene decimata. Anche qui, come in Lettonia e in Estonia, resta dominante la narrazione della nazione risorta dall’oppressione straniera.

Nel periodo di occupazione nazista l'edificio ospitò gli uffici della Gestapo, ma nel museo non si fa riferimento alle crudeltà perpetrate dai tedeschi (in quegli anni accolti positivamente dalla maggioranza dei lituani che così speravano di cacciare i sovietici), né vengono citate le centinaia di ebrei uccisi e deportati a Vilnius. [La piccola mostra sull'occupazione nazista e sull'olocausto infatti è stata creata solo nel 2011 e si trova nella terza cella dell'ex prigione, dove sui muri sono ancora visibili i segni realizzati dai prigionieri della Gestapo nel 1942-1944]. Nel passato a Vilnius risiedeva una delle maggiori comunità ebraiche europee (al punto che la capitale lituana viene soprannominata Gerusalemme dell’Est), ma per informarsi su questa parte di storia bisogna andare alla ricerca del piccolo Museo dell’Olocausto o del museo della Storia ebraica, oppure visitare la sinagoga e ciò che resta del ghetto.
I lituani non sembrano passarsela proprio benissimo: dopo un breve periodo di boom economico, adesso i tassi di disoccupazione sono altissimi e il PIL è in caduta libera, così la gente emigra in massa per cercare lavoro all’estero. Visto che le donne, visibilmente più numerose, sono smaniose di sistemarsi, gli uomini − già di per sé non proprio pieni di joie de vivre − tendono a darsi un sacco di arie. Non c'è da stupirsi che gli italiani, con il loro modo di fare galante e paraculo possano riscuotere un certo successo (quando non sono sbeffeggiati, chiaramente). Questo ce lo racconta Egle, che fa la guida turistica ai tedeschi attempati e che è molto felice di trascorrere una serata nel locale di tendenza Invino, dove l'atmosfera romantica e il riferimento culturale italiano hanno un appeal molto forte per gli abitanti giovani e vitazzuoli di Vilnius.

Trakai

Per conoscere da vicino la piccola comunità dei Caraimi, un gruppo etnico originario della Crimea, si può effettuare una piacevole gita a Trakai, un'amena località a pochi chilometri dalla capitale. La cittadina sorge su un lago, al centro del quale è piazzato un castello medievale rosso mattone, molto fotogenico grazie anche alle barche colorate in primo piano.
Le poche centinaia di Caraimi (discendenti dei soldati che il granduca di Lituania volle nel suo esercito nel 1400) risiedono ancora oggi in case di legno che presentano tutte rigorosamente tre finestre sulla facciata: una per Dio, una per la famiglia, una (appunto) per il granduca Vytautas. Nonostante siano di religione giudaica, essi furono catalogati come turchi (e non come ebrei) dai tedeschi occupanti e ciò li ha messi al riparo sia dalla Shoah sia, in seguito, dalla deportazione di massa che colpì altre minoranze etniche dell'Urss. Al ristorante caraita possiamo gustare il piatto tipico della loro cucina, ossia i kibinai, una specie di panzerotti ripieni di carne o verdura.

Kaunas

L'ultima tappa dell'itinerario baltico si estende lungo le rive del Nemunas, a sud del Paese. Kaunas, oltre ad essere una città universitaria, è uno snodo fondamentale sia nel trasporto su gomma sia in quello aereo, specialmente da quando hanno inserito la città nelle rotte della Ryanair. La conferma me la dà questo giovanissimo pilota piemontese che, non avendo santi in paradiso, è stato assegnato, dalla nota compagnia aerea low cost, a questa remota località. Lui e il suo amico si sorprendono moltissimo del fatto che abbiamo scelto la noiosissima Kaunas come tappa del nostro viaggio, ma Marcello fa di tutto per convincerli del contrario. Certo, penso io, l'avvenenza delle donne può essere una motivazione valida, ma non al punto da non accorgersi della guida molesta e dell'ubriachezza inconsulta degli studenti in orario notturno.
Ciononostante, Kaunas è una città piena di verde e musei, dove passeggiare serenamente nei parchi, ammirare chiese più o meno restaurate e resti di castelli, fare un giro in mongolfiera e stazionare nei caffè. Tutto ciò a meno che non ci capiti in concomitanza di una terribile tempesta come quella che − due giorni prima del nostro arrivo − ha divelto decine di gigantesche querce, ha ucciso due campeggiatori e ha gettato nel panico l'intera cittadinanza. I cadaveri dei mastodontici alberi, sdraiati per terra nei boschi, possiamo ammirarli con tristezza durante il free walking tour, un giro turistico gratuito organizzato in diverse città baltiche da giovani spiritosi e carismatici. Come sempre conosciamo altri viaggiatori, apprendiamo interessanti aneddoti e inoltre ci sbafiamo ciambelle e pan brioche lituani.

Anche a Kaunas non possiamo perderci la visita a un museo storico, quello situato dentro al Nono Forte, costruito all'inizio del Novecento per completare la cintura difensiva della città e poi usato come prigione. Per raggiungerlo bisogna prendere un bus che attraversa il quartiere dell'ex ghetto ebraico e poi ci fa scendere in mezzo alla tangenziale. Approdati in qualche maniera al sito, scopriamo che anche qui durante l'occupazione sovietica furono internati i prigionieri destinati ai gulag siberiani, mentre durante l'occupazione nazista furono sterminati, tra gli altri, ebrei di Kaunas, ebrei francesi, austriaci e tedeschi e prigionieri sovietici.
Il primo nucleo del museo fu creato già dal 1958 per raccontare i crimini compiuti dai nazisti in Lituania. Soltanto dopo il crollo del regime sovietico, naturalmente, furono aggiunte le sezioni relative alle atrocità comuniste. Visitiamo anche i noiosissimi sotterranei e, alla fine di un lungo tunnel freddo e umido, raggiungiamo la porta attraverso la quale nel '43, sessantaquattro prigionieri tentarono di scappare: un'impresa solidamente architettata, che finì ovviamente nel sangue.
E finalmente qui troviamo qualcuno che se lo ricorda il periodo sovietico. Si ricorda della radio americana ascoltata clandestinamente in famiglia, dove venivano riportate notizie che il regime non voleva divulgare (come ad esempio la catastrofe di Cernobyl). Si ricorda che a scuola certi argomenti non si potevano affrontare e che c'era una sola TV per famiglia. Si ricorda che si mangiavano sempre gli stessi cibi e che i vestiti occidentali non erano in vendita. Si ricorda che gli agenti segreti del KGB controllavano tutti, sempre e dovunque. E si ricorda Romas Kalanta, quello studente che, all'inizio degli anni Settanta, si diede fuoco pubblicamente per protestare contro il regime.
Compiuta finalmente la nostra missione, dopo quattro settimane, possiamo terminare il tour delle tre repubbliche baltiche: non più un'entità indistinta ma tre Paesi, ciascuno con una personalità propria e inconfondibile. Un comodo autobus notturno della Ecolines ci consegnerà al mattino presto a Danzica. E che bello − dopo tanti musi baltici − farsi finalmente una risata con gli autisti polacchi!

Gallerie fotografiche

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Lituania: