home17.jpg

KEBAB A COLAZIONE

Da Istanbul al Sud-Est della Turchia

Istanbul - Gaziantep e Kilis - Hatay - ImmaginiPiccolo Me in Turchia - "Pide e tulipani" (2018)

Sono arrivata con imperdonabile ritardo al mio appuntamento con la Turchia, a cui giravo intorno già da un po'. Cinque anni fa non ero troppo lontana mentre in un minibus, a nord di Aleppo, l'autista mi diceva: «Vedi, lì dietro c'è la Turchia» e all'autoradio prendevamo le sue stazioni e ascoltavamo la sua musica. Poi, l'anno dopo, l’ho vista dal vivo; a dire il vero, ne ho visto solo una piccola parte, seppure quella più alta: sulla strada per Yerevan apparve la cima innevata del Monte Ararat e il mio casuale compagno di viaggio ci tenne a farmi sapere che − anche se attualmente la biblica montagna si trova in territorio turco − il lato ben visibile da lì, dall'Armenia, è quello più bello. E poi, ho sentito il suo odore e le sue note a Batumi, sulla spiaggia e nei bar affacciati sul Mar Nero, pure se mi trovavo in Georgia e, a separarmi da lei, c'erano ancora venti chilometri (che io non ho percorso). E infine l’ho pensata in Romania, quando, passeggiando lungo gli ultimi metri di uno dei rami del Danubio, sono giunta al punto in cui sfociava nel Mar Nero e ho pensato che di fronte c'era la Georgia, ma a destra, verso meridione, c'era la Turchia. Condividevamo, di nuovo, lo stesso mare.
Si può immaginare, adesso, l'emozione che provo sull'aereo diretto ad Istanbul. Mi sto godendo ogni momento dell'itinerario, appiccicando il naso il più possibile al finestrino. Lasciata l'Italia e superato l'Adriatico, abbiamo sorvolato l'Albania all'altezza del Parco Nazionale Divjaka-Karavasta, a nord di Valona. Poi sono comparse molte montagne innevate e finalmente siamo entrati nel cielo macedone (il confine tra i due Stati è segnalato dai due enormi laghi di Prespa e Ohrid). Dopo qualche minuto sotto di noi c'era la Grecia, di cui ho riconosciuto solo una grande città costiera (Kavala, nella Tracia). Da lì alla Turchia non mancava molto. È cominciata la cerimonia dell'atterraggio e il mare di Marmara ha fatto capolino, a tratti, tra le nuvole. Ed ecco Istanbul, aeroporto di Atatürk. L'Europa non è ancora finita.

ISTANBUL WAS CONSTANTINOPLE

Non maledire ciò che viene dal cielo. Inclusa la pioggia.
Non importa cosa ti precipiti addosso, non importa quanto violento il nubifragio o gelida la grandine: non rifiutare quello che il cielo ti manda.
(Elif Shafak, “La bastarda di Istanbul”)

Istanbul, l'antica Bisanzio, porta tra Oriente e Occidente, città multiculturale, proiettata nel futuro ma profondamente ancorata alla storia. Istanbul, la meno europea di tutte le città d'Europa, rappresenta una civiltà ultramillenaria piena di contrasti e di mescolamenti tra etnie e civiltà. Istanbul, mi sono un po’ scocciata di sentire sempre le stesse cose.

Io lo devo dire, non la immaginavo così gelida. Non immaginavo i celebri gabbiani urlare come i matti in un vento così umido, né gli altrettanto celebri pescatori intabarrati nell'incerata in fila sul ponte di Galata a zero gradi. E questo nonostante ciò che cantava Piero Pelù negli anni Ottanta e nonostante avessi visto il film “Uzak”. La conoscevo come meta amata dagli orientalisti ottocenteschi e dai cantautori, e come scenario dei registi innamorati del Corno d'Oro; mi sembrava torbida nei bagni turchi frequentati da Alessandro Gassman e nel fumo dei narghilè; la pensavo accogliente coi suoi immaginari divani rossi e i suoi harem peccaminosi. Tutti consigliano di perdersi nelle sue strade: ne capirò la ragione, un giorno (possibilmente in primavera).
Sulla torre di Galata mi si sono gelate le mani, mentre scattavo fotografie al Corno d'oro (estuario preistorico amato dai registi), alle moschee con le cupole cicciottelle e i minareti sottilissimi, ai ponti e ai tetti innevati. Poi uno di quei ponti lo abbiamo attraversato in taxi (mi rivolgo ai tassisti: non è carino derubare i turisti appena arrivati chiedendogli per una corsa il triplo della cifra adeguata.)

Siamo scesi nell'antica Bisanzio-Costantinopoli, di fronte alla moschea nuova; lì dietro c'era il bazar delle spezie che, per essere uno storico mercato di epoca ottomana, era molto ordinato e perfetto e nessuno gridava. Molti negozi sfoggiavano accanto all'uscio caterve di dolci colorati e sui vassoi ci venivano offerti i lokum, cubetti gommosi che a me non sono piaciuti. Niente a che vedere con gli affollati suq del nord Africa e del Medio Oriente che conoscevo, dove potevi perderti per ore a bere tè e toccare tutti gli oggetti pieni di polvere e annusare tutti gli odori accatastati senza logica.
Sono molto delusa: non ho visto nessun epocale tramonto sullo stretto, anzi non ho visto proprio alcun tramonto (le nuvole e la pioggia non lo hanno permesso). Ma all'improvviso si sono accese le luci e un ponte ha cominciato a colorarsi di fucsia, di blu, di verde (meglio di niente).
Attraversato il Corno d'oro, abbiamo fatto ritorno nel quartiere genovese di Galata. Un vento gelido ci ha sferzato tutto il tempo sull'elegante İstiklal Caddesi, il Viale dell'Indipendenza, fino a piazza Taksim. Non era un caso che tutti i poliziotti stazionassero dalla stessa parte del Monumento della Repubblica, ossia nel lato opposto rispetto alle statue di Atatürk, dei suoi sodali e dei leader della Rivoluzione d'Ottobre (indomiti, a favore di vento). A parte questo, la piazza era deserta (nessuno ha il coraggio di manifestare in inverno, mi aveva detto il receptionist dell'hotel).
Abbiamo allora invertito la marcia fino a un budello di vie dove sono comparsi dei bar tutti uguali, piccoli e bui e pieni di fumo. In ognuno di loro un piccolo palco ospitava un chitarrista che probabilmente proponeva lo stesso repertorio ovunque (ci siamo seduti ad uno dei tavolini, ma non ci siamo riscaldati). A cena, in un ristorante che sono sicura di aver visto nel già citato film “Uzak”, abbiamo ordinato diversi meze, che conoscevo per averli mangiati in Siria. Erano piatti tipo salsa allo yogurt, hummus, involtini di foglia di vite, polpette, melanzane al sugo, calamari fritti (noi le chiameremmo semplicemente “antipasti”).

La mattina per fortuna non nevicava, diluviava soltanto. Abbiamo raggiunto in taxi la moschea del Sultano Ahmet, detta Moschea Blu a causa delle migliaia di piastrelle di ceramica turchese che decorano le pareti e la cupola. Togliersi le scarpe prima di entrare non è stato un piacere, ma per fortuna il pavimento era costituito da un gigantesco e morbido tappeto decorato a fiori, sul quale mi sono sdraiata per ammirare i grandi lampadari e i soffitti decorati.
Reinfilate le scarpe, proprio di fronte, nella foschia e dietro gli alberi spogli, si è materializzata la basilica di Santa Sofia (che io pensavo fosse una santa, invece ho capito che significa “Divina Sapienza”). Quando l'imperatore Giustiniano la fece riedificare sui resti di altre chiese incendiate, era la più grande chiesa del mondo di allora, come si addiceva alla sede del patriarca di Costantinopoli. Nei secoli ha subito gli esiti nefasti di terremoti, attacchi di iconoclastia, incendi, saccheggi, profanazioni ecc., finché in epoca ottomana fu trasformata in moschea. Pulita, intonacata e riqualificata varie volte, aggiunti minareti, supporti, mausolei, mezzelune, gallerie, minbar, è quindi diventata un museo (grazie al solito Atatürk). Insomma, visitare questo edificio è un po' come ripassare l’intera storia della città.

Sempre a Giustiniano si deve la Cisterna-Basilica, un grande spazio sotterraneo dove anticamente si raccoglievano le acque. Tutte le colonne, illuminate fiocamente di giallo e organizzate in ordinate file, si specchiano nell'acqua. In un angolo ci stanno due enormi teste di Medusa in pietra, riusate come basi di colonne; nell'altro il bar; nel terzo angolo le scale; nel quarto ci hanno invitato a farci fotografare, a soli 5 euro, su un elegante divano rosso d'antan travestiti da odalische o giannizzeri.
Prima di lasciare Istanbul, ho mangiato un kebab (senza sapere che mi sarebbe stato servito a pranzo e a cena praticamente per i successivi cinque giorni), ho visto spaccare un orcio di terracotta in mezzo al ristorante versando poi il cibo residuo dentro al piatto del cliente, ho visitato il Gran Bazar pieno di spezie, lampade, venditori di tè, bandiere rosse con la mezzaluna e la stella (e ciononostante, mi sembrava di stare a Stoccolma), mi sono chiesta come mai i manichini di abiti per bambini avessero la barba e i baffi disegnati col pennarello e infine ho vissuto quel momento che sicuramente mi verrà sempre in mente quando sentirò pronunciare il nome di Istanbul. La scena non la so descrivere bene, posso però elencarne gli attori: gabbiani, giacche a vento, bar galleggianti, carretti di castagne e pannocchie, cappelli, traghetti, minareti veri, freddo, minareti finti, mezzelune, tavolini bassi, panini al pesce, foulard, nuvole, canne da pesca, vento e un ponte.

LA TERRA DEI PISTACCHI

La Turchia ci tiene parecchio ad entrare nell'Unione Europea, ma quelli che contano in Europa ancora non la vogliono perché dicono che non sta rigando sempre dritto. In ogni caso le è permesso già di partecipare ai progetti europei ed è per questo motivo che noi siamo venuti qui.
Istanbul, effettivamente, non era la meta principale di questo viaggio: è stata solo un fugace scalo sulla via che ci portava nell'Anatolia sudorientale, a più di mille chilometri di distanza. Atterrati a tarda ora a Gaziantep, ancora 60 km ci separavano da Kilis. Ivi giunti, abbiamo scoperto con raccapriccio che in città era vietato bere alcolici in pubblico e dunque che nessun bar o ristorante, nemmeno quello dell'hotel, poteva vendere nemmeno una birra.

Il giorno dopo, nel centro storico di Kilis, grossi stormi di uccelli neri solcavano le nuvole grigie mentre ammiravamo le antiche moschee ottomane giallastre, i bovindi e le finestre in legno intarsiato e il cinquecentesco hamam, in fase di restauro. In un locale tipico abbiamo fumato il narghilè e bevuto il tè e il caffè seduti su quei loro cuscinoni imbottiti colorati, mentre allo schermo televisivo di ultima generazione trasmettevano a loop il video di un fuoco acceso; sul tavolino basso vennero poggiate bellissime tazzine e zuccheriere di rame. Ma la maggior parte del tempo lo abbiamo trascorso al ristorante: prima di attaccare l'immancabile kebab locale, bisogna farsi servire almeno dieci piatti diversi di meze accompagnati dal classico pane piatto, squisito. Per finire arriva un dolce che − indipendentemente dalla forma e dall'aspetto − è costituito da pistacchio, miele e pasta Kataifi.
Dopo due giorni di kebab a pranzo e a cena, l'intero mio corpo trasudava effluvi ovini. Per fortuna una provvidenziale gastroenterite è giunta in mio soccorso. Tutto iniziò mentre tornavamo da Gaziantep, a tarda notte. Avevamo trascorso la serata all'ultimo piano di un hotel, in una saletta privata dove dopo quasi 48 ore di astinenza da alcol ci eravamo sentiti in dovere di pareggiare i conti, tracannando ingenti quantità di raki. Nel momento in cui ho cominciato a vomitare nessuno se n'è accorto, tutti dormivano profondamente. Nemmeno l'autista ha mostrato di accorgersi del fatto che ho trascorso metà viaggio con la testa fuori dal finestrino dello scassato minibus, disseminando pezzi di kebab mischiati a raki nell'arida terra dei pistacchi.
Nonostante le apparenze, la causa del mio malore andava cercata fondamentalmente nel freddo umido di Istanbul e solo marginalmente nello straordinario consumo di vettovaglie, seppure anche a pranzo non ci fossimo limitati (non a caso Gaziantep è famosa in tutta la Turchia per i suoi piatti tipici che mostrano influenze arabe, armene e curde).

Ovviamente a Gaziantep non avevamo solo mangiato. Avevamo visitato prima lo zoo e poi il centro storico, sovrastato dalla cittadella, fondata dai romani e poi restaurata da Giustiniano (statue dorate di soldati a difesa della kale ci puntavano il fucile dall'alto). Avevamo trascorso del tempo nel bazar, osservando i fabbri ramai e i calzolai al lavoro e ammirando le piramidi di spezie, i secchi di pistacchi, le ghirlande di peperoncini secchi e le straordinarie pile di simit al sesamo portate in equilibrio sulla testa dai venditori ambulanti.
Nel Museo Zeugma, nuovo di zecca, sono esposti i mosaici rinvenuti e tempestivamente messi in salvo a Belkıs-Zeugma, prima che fosse sommersa per sempre dalla diga di Birecik. Percorrendo le apposite passerelle e affacciandoci dal secondo piano, abbiamo potuto ammirare i resti dei mosaici, delle statue, delle colonne, dei muri perimetrali che appartenevano alle sofisticate ville di questa ricca città romana, fondata sulle rive dell'Eufrate da un generale di Alessandro Magno e in seguito ultimo avamposto dell'Impero (al di là del fiume iniziava il deserto dei Parti, barbari d'Oriente). Coppie di sposi si aggiravano spaesati, mano nella mano, in questo inusuale set fotografico, in pose poco naturali tra mozziconi di colonne, antichi gabinetti e grandiose immagini di aridi panorami montani. Oltre ad Oceano e Teti, Icaro, Dioniso sul carro trainato da leopardi, il pezzo forte della collezione di mosaici è la cosiddetta "Giovane zingara", famosa per lo sguardo penetrante ed enigmatico (talmente enigmatico che secondo alcuni apparterrebbe ad Alessandro Magno).

Al confine con la Siria

La Turchia, sono già 4000 anni che è abitata: è stata governata dagli hurriti, dagli assiri, dagli ittiti, dai persiani, dai macedoni, dai romani (poi bizantini) e finalmente dagli ottomani.
Kilis, prima di entrare nel suo territorio alla fine della prima guerra mondiale, faceva parte della provincia di Aleppo, da cui oggi dista solo 70 km. Nel 2010 aveva circa ottantamila abitanti, mentre all'epoca della mia visita ne aveva almeno centomila in più, tutti provenienti dalla Siria come rifugiati. Il più vicino posto di frontiera, Öncüpınar (in questo periodo chiuso al transito), si trova a soli 5 chilometri dalla città.
Eravamo dunque sui margini del confine con un Paese in guerra e a centocinquanta chilometri da Kobane, la “roccaforte” del popolo curdo, come si erano affrettati a scrivere i giornali pochi giorni prima, quando la città era stata strappata ai militanti del cosiddetto ISIS. Il Ministero degli Esteri effettivamente sconsigliava i viaggi non strettamente necessari qui, “soprattutto nelle aree a ridosso del confine con la Siria, dove oltre al possibile verificarsi di attentati terroristici permane altresì il rischio di sequestri”. Tuttavia, la nostra iniziale decisione di annullare il viaggio aveva fatto imbestialire il nostro anfitrione locale, che aveva iniziato sobriamente (com'è suo costume) a inveire contro la Farnesina, il British Council e in pratica contro l'intero sistema dei governi e dei mass-media occidentali imperialisti, sostanzialmente intimandoci di partire.

Una parte dei rifugiati siriani vive nel campo profughi collocato vicino alla frontiera, uno dei 25 centri di accoglienza allestiti dal governo turco lungo il confine. Qui bambini e ragazzi frequentano le scuole prefabbricate nuove di zecca, mentre le mamme eseguono lavori di tessitura di tappeti, di composizione di mosaici eccetera. Ci siamo andati di persona, al campo profughi, entrando nelle aule dove bambine e ragazzine col velo ci hanno fatto dei sorrisi straordinari sotto gli occhi troppo grandi. Queste scuole sono molto più nuove e fornite delle normali scuole pubbliche turche (e anche italiane, se è per questo) e non tutti accolgono con favore la spesa di soldi pubblici per mantenere un numero così elevato di ospiti, nonostante le belle parole di cui sindaci e prefetti si sono riempiti la bocca nei vari incontri formali con la nostra delegazione.
In ogni caso, la maggior parte dei rifugiati non vive nei campi e dunque i loro bambini a scuola non ci vanno proprio. I profughi infatti si trovano in una condizione di asilo temporaneo che ostacola di fatto la loro integrazione sociale: l’assenza dello status di rifugiato gli impedisce di inoltrare domanda di asilo politico, così chi vive nei campi di accoglienza non sa quando potrà uscire, mentre chi vive fuori spesso non può accedere ai servizi loro offerti a causa della burocrazia e dell’ostacolo linguistico. Infatti, quando fondò la Repubblica turca, Atatürk purtroppo decise di adottare l'alfabeto latino invece di quello arabo. Va comunque detto che in cambio Atatürk abolì il califfato, riconobbe la parità dei sessi, istituì il suffragio universale, introdusse la domenica come giorno festivo, il calendario gregoriano, il sistema metrico decimale e proibì l'uso del fez, del turbante, della barba per i funzionari pubblici e dei baffi alla turca per i militari.

LA CODA DELLA TURCHIA

Appena scollino sopra Iskenderun, l’aria stagnante finisce e compare, mille metri più in basso, una terra nuova, la valle dell’Oronte, il fiume di Antiochia. Praterie, vento, campi di grano e greggi di capre bionde. Mosé dovette vedere qualcosa di simile affacciandosi sul Giordano al ritorno dall’Egitto. C’è, nell’aria, la stessa dolce rilassatezza di Mardin. È il mondo arabo che si avvicina. [...] Anche i minareti sono diversi, privi del loro allarmante profilo missilistico. Sono più larghi, paciosi. Dicono che è per via dei terremoti, qui frequentissimi. Ma forse non è solo per questo.
(Paolo Rumiz, “Gerusalemme perduta”)

Per andare ad Antakya, la capitale amministrativa dell'Hatay, dobbiamo fare il giro largo, costeggiando il confine siriano in parte segnato dal fiume Karasu Cayi. La provincia dell'Hatay è una specie di coda che fuoriesce in direzione sud al centro del rettangolo turco; a ovest si affaccia sul Mediterraneo, mentre il versante sud orientale confina con la Siria, di cui ha sempre fatto parte − geograficamente e storicamente − fino al 1939. Quell'anno, dopo essere stata inclusa nel mandato che la Francia aveva ottenuto su Siria e Libano al termine della prima guerra mondiale, grazie ad un referendum popolare passò alla Turchia, ma la Siria continua a rivendicarne la sovranità.

L'Hatay è sempre stato specializzato nell'accoglienza: se oggi vi trovano rifugio i siriani in fuga dalla guerra, nel primo secolo ospitava le prime comunità di cristiani, perseguitati dopo la condanna a morte di Gesù. E infatti alla periferia di Antakya, ricavata in una grotta naturale sulla montagna della Croce, si trova la chiesa più antica del mondo, fondata niente di meno che da San Pietro. Qui in pratica, ai tempi in cui Antiochia era la capitale della provincia romana della Siria, Paolo di Tarso e l'apostolo Pietro celebravano le più antiche eucaristie del mondo e predicavano di fronte ai primi cristiani, magari seduti sullo stesso trono di pietra che possiamo toccare oggi.
Antiochia era una delle città più grandi e importanti del mondo sin dall'antichità (se non ho capito male fu un generale di Alessandro Magno a darle il nome in onore di suo padre Antioco), ma purtroppo a causa di numerosi terremoti e incendi non sono rimaste molte tracce dei monumenti e dei templi con cui fu abbellita nel suo periodo d'oro. Ha però un museo archeologico fondato durante il mandato francese e famoso per la vasta raccolta di mosaici di epoca romana e bizantina e per l'enorme quantità di reperti (alcuni risalenti al paleolitico), che provengono ─ oltre che da Antiochia ─ dalle antiche città di Daphne, Tarso e Seleucia Pieria.

Oggi ad Antakya, oltre alle numerose moschee, ci sono una chiesa ortodossa, una chiesa cattolica, una sinagoga e una chiesa protestante: ci vivono infatti persone appartenenti a diverse fedi religiose (sunniti, aleviti, cristiani ortodossi) e non è un caso se i suoi abitanti la chiamano "città della pace". Dopo un rapido giro del centro storico, siamo saliti al primo piano di una pasticceria per assaporare il tanto decantato künefe, un dolce a base di formaggio di capra racchiuso tra due strati di pasta Kataifi impregnata di burro, il tutto ricoperto da uno sciroppo di acqua e zucchero e da pistacchi tritati. Mentre cedevo il mio immangiabile manicaretto ad un altro commensale, dalla finestra ho inaspettatamente ritrovato una mia vecchia conoscenza: il fiume Oronte, circondato da imponenti montagne. In realtà qui lo chiamano Asi Nehri, ma non è altro che quel fiume che faceva girare le norie di Hama, in Siria, situata circa 200 km più a sud. Il suo nome vuol dire “fiume ribelle” perché nella sua marcia dal Libano procede sempre verso nord, ma, arrivato ad Antiochia, fa un'inversione a U e ridiscende verso sud per poi buttarsi nel mar Mediterraneo in territorio turco. Mi fa una certa impressione trovarmi nella stessa regione che visitai pochi anni fa, la regione degli stiliti e dei resti archeologici romani, di Apamea e di Latakia, e pensare che oggi sono zone irraggiungibili.
Da Antiochia ci siamo spostati verso Hidirbey, dove troneggia un acero di circa 1500 anni con una circonferenza di 20 metri, chiamato l'albero di Mosè perché − secondo la leggenda − venne fuori da un bastone puntato per terra da Mosè in persona: dentro al suo tronco c'è una cavità così grande che può ospitare anche cinque esseri umani adulti. La tappa successiva sarebbe Vakıflı Köyü, l'unico villaggio armeno in Turchia, situato sul pendio del Monte di Mosè. I 130 abitanti, ci hanno detto, discendono da quegli armeni che resistettero alle deportazioni e ai massacri del 1915. Qua però abbiamo dovuto constatare che il guardiano della chiesa ci ha fatto il bidone e dunque ci hanno fatto ripiegare su Harbiye, senza visitare né Seleucia di Pieria né il tunnel di Tito, né la spiaggia di Samandağ né il Tempio di Giove presso Kapısuyu.
E infine eccoci ad Harbiye, la vecchia Daphne, dove secondo la mitologia Apollo aveva cercato di sedurre quella ninfa che preferì trasformarsi in alloro piuttosto che cedere alle sue voglie. Sin dall'antichità la città era un sobborgo di campagna dove si andava a cercare pace e frescura; oggi ci sono ben poche vestigia dell'epoca, ma restano piacevoli foreste di lauri e bucoliche cascatelle. Qui abbiamo trascorso la maggior parte del tempo a farci derubare in un negozio di tessuti e di saponi all'alloro (ben diversi da quelli famosi di Aleppo) e a cercare di dire no all'ultimo kebab.

E questa è stata dunque l'ultima tappa del nostro viaggio. Lasciare la Turchia, però, non è stato semplice: lo sciopero dell'ENAC si è fatalmente intrecciato con l'imponente nevicata, costringendoci a trascorrere un'altra notte nella bella Istanbul. Questa volta purtroppo siamo rimasti nei paraggi dell'aeroporto, che avremmo dovuto raggiungere il giorno dopo all'alba. Per fortuna anche qui l'hotel era dotato della provvidenziale accoppiata hamam più sauna, grazie ai quali abbiamo potuto sciogliere le inevitabili tensioni causate dai cambi di programma e scaldare le membra infreddolite dal gelo di febbraio.

(febbraio 2015)

Gallerie fotografiche

Istanbul

Kilis e Gaziantep

Hatay