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Don't forget Mostar
Via Braće Fejića. Ventun'anni dopo la strage di Srebrenica, un'enorme scritta sul muro grida in bosniaco che non bisogna né dimenticare né perdonare. Il murale rosso e nero è firmato dai Red Army, i supporter della squadra di calcio Velež Mostar, tifoseria multietnica prima della guerra, oggi costituita soprattutto da bosgnacchi. Che non tutti loro siano ancora a loro agio con il concetto di perdono lo dimostrano gli screzi − se non i veri e propri scontri − con i rivali del Zrinjski Mostar, in maggioranza di etnia croata.
Mi incammino senza indugi verso il leggendario ponte. Lungo la strada un pannello steso in orizzontale, al contrario di quanto affermano i Red Army, suggerisce in inglese di non dimenticare ma di perdonare, sempre. Due pietre gemelle, ai due lati del ponte, intimano di non dimenticare, “Don't forget”, e basta, senza sbilanciarsi sulla spinosa questione del perdono. E chi dimentica? Sono qui apposta.
Ed eccolo qui lo Stari most, capolavoro ottomano del sedicesimo secolo. Nel 1992 il ponte era diroccato e trasformato in trincea: si attraversava di corsa, quasi strisciando, per evitare di essere colpiti da una pallottola. Il 9 novembre 1993 venne bombardato dai croato-bosniaci e completamente distrutto: i pezzi della "mezzaluna di pietra" precipitarono nella Neretva, la popolazione lo pianse come se fosse un parente. Nel 1994 al suo posto c'era un ponte tibetano, e intanto i tuffatori continuavano a tuffarsi, anche quando non c'era nessuno ad applaudirli. Anche quando persino il ponte non c'era più.
Oggi il ponte è di nuovo al suo posto; e anche il pubblico c'è, eccome. I turisti camminano con prudenza per non rischiare di scivolare sui lastroni bianchissimi e sui ciottoli, tondi e lisci come grosse biglie, che pavimentano le viuzze limitrofe, mentre il clan dei tuffatori è intento a raccogliere i soldi: al termine della questua apparirà un giovane in mezza muta che si tufferà da più di 20 metri di altezza nella gelida Neretva. Tutti applaudiranno, sia chi sta affacciato sul parapetto, sia chi sta seduto sulla riva, in basso: i turisti venuti da Dubrovnik o da Medjugorje per una gita di un giorno, i viaggiatori di tutti i continenti che passano un giorno a Mostar, uno o due a Sarajevo, e poi proseguono in Croazia o in Montenegro, i visitatori dei Paesi del Golfo con gadget tecnologici di ultima generazione, ma mogli tutte vestite di nero . E poi continueranno a passeggiare in questa piccola Istanbul bosniaca, osservando e magari acquistando nelle botteghe le lampade, le scatole di lokum, le ciotoline di ceramica smaltate identiche a quelle in vendita nel gran Bazar, oppure si siederanno sui cuscini ottomani in uno dei bar e ristoranti del centro storico, dove gli verrà servito il caffè nei servizi di rame e la stucchevole baklava (ma qui, a differenza della Turchia, si può pagare anche in euro: un marco bosniaco vale mezzo euro).
Il ponte affollato si vede anche dalla finestra della torre fortificata di Tara, posta ad una delle due estremità, dove è allestita una mostra di foto in bianco e nero di Wade Goddard a uso e consumo di noi turisti di guerra. Edifici in rovina, donne che trasportano assi di legno, bambini magri, auto distrutte, foulard, scritte sui muri, macerie, soldati, padelle. Quando esco, una zingarella si allontana dalla mamma e viene verso di me con la mano aperta, fa il faccino tenero per rimediare qualche moneta. Il fratellino corre impugnando un mitra giocattolo, ci raggiunge e mi colpisce la mano con l'arma di plastica. Mi vengono in mente tutte le scene viste in foto, ma poi mi guardo intorno e le bancarelle intorno a me continuano ad esporre ordinatamente sacchetti di lavanda e bottiglie di acquavite (al melograno, ai fichi, alle prugne).
Nel tardo pomeriggio i turisti di un solo giorno hanno levato le tende e le stradine acciottolate si sono svuotate. I ristoranti affacciati sul fiume hanno molti tavoli liberi. Mentre aspetto che mi servano uno stufato bosniaco, inizia il concerto dei muezzin. Il sole tramonta sulla Neretva color smeraldo, i palazzi intorno si illuminano contro il cielo ormai nero, il ponte si accende di giallo.
Salendo sul minareto della moschea Koski Mehmed Pasha o della moschea Karadozbeg e girando intorno sul minuscolo balconcino, si può osservare in un unico colpo d'occhio tutta questa città, martoriata e piena di cicatrici, divisa in due dal fiume: a est la parte vecchia con le cupole grigie e i minareti sottili, dall'altra parte il quartiere nuovo costruito dagli Asburgo e da Tito. Qui svetta il brutto campanile della chiesa francescana, ricostruito molto più alto dopo la guerra, mentre in fondo, tra le montagne che circondano tutta la città, c’è la collina Hum, sulla cui sommità si erige una croce bianca alta più di 30 metri.
Ai tempi di Tito la città era un meraviglioso esempio della convivenza jugoslava: nessuna delle varie etnie prevaleva sulle altre e la percentuale di matrimoni misti era tra le più alte del Paese. Poi la guerra. In un primo tempo, croato-bosniaci e bosgnacchi, uniti, riescono ad avere la meglio sui serbo-bosniaci, ma poi l’alleanza si spezza e i croati iniziano ad attaccare i musulmani: decine di migliaia di costoro si trasferiscono all'estero (molti definitivamente), lasciando i loro appartamenti di Mostar ovest ai profughi croati venuti da fuori, mentre i musulmani rimasti sono costretti a spostarsi nella parte est. Oggi non c'è un gruppo nazionale che costituisce la maggioranza assoluta della popolazione, ma le suddivisioni etniche sono molto più nette: i cattolici per lo più vivono nella parte più recente, i musulmani nel centro storico oggi restaurato, mentre il numero di serbi è crollato. A quanto pare la maggior parte dei giovani croati dell'ovest, nella parte est non ha mai messo piede.
In realtà, non è il fiume a dividere le due Mostar, bensì più esattamente il bulevar Narodne Revolucije, una strada a quattro corsie che all'epoca costituiva la linea del fronte. L'edificio che subito attira l'attenzione è il Ginnasio, un grande palazzo arancione brillante risalente al periodo austroungarico, restaurato di recente. Il Gimnazija ospita lo United World College (una scuola privata per il baccalaureato internazionale, frequentata da studenti di tutto il mondo) e due scuole pubbliche: una per musulmani, l'altra per cattolici. Questo è l’unico edificio della città in cui i ragazzi bosgnacchi e quelli croati studiano sotto lo stesso tetto, benché in classi separate. Uno degli strascichi più pesanti della guerra riguarda infatti proprio l'istruzione: in tutta la Federazione croato-bosniaca la maggior parte degli alunni sono separati per etnie, mentre nella Republika Srpska ci sono solo scuole serbe (come dire "ortodosse"). I lavori di restauro hanno interessato anche l'adiacente Spanski Trg, la piazza di Spagna di Mostar, chiamata così in ricordo dei 22 soldati spagnoli che hanno perso la vita nei vent'anni di impegno militare in questo Paese.
Nonostante le belle parole spese in occasione delle inaugurazioni (incontro, unità, pace), è ancora presto per parlare di un reale collegamento tra le due parti di Mostar. Lungo il Bulevar, sono ancora tanti gli scheletri degli edifici sventrati rimasti tutt'ora come erano vent'anni fa; quello che fa più impressione è la carcassa triangolare a nove piani di quella che era un tempo la Ljubljanska Banka, usata dai cecchini proprio per la sua altezza. Ma i segnali negativi non finiscono qui: di fronte alla piazza c'è una Federazione di caccia che si chiama "Herceg-Bosne", come l'entità autonoma dei croati estremisti di Bosnia esistita di fatto negli anni della guerra, mentre sotto al municipio c’è una stele a forma di giglio in memoria dei combattenti dell’armata di Bosnia-Erzegovina, distrutta da qualche vandalo e in pezzi chissà da quanto. Senza considerare che la croce bianca sulla collina – da cui i croati sparavano con i mortai verso la parte orientale della città – è sempre ben visibile e di notte si illumina.
In questi vent'anni moltissimi edifici sono stati ricostruiti, ma c'è ancora molto lavoro da fare. Non solo gli interi palazzi in rovina fanno una certa impressione al visitatore, ma anche le facciate bucherellate di colpi, gli avvolgibili crivellati, i muri sbrecciati e i cimiteri musulmani, pieni di stele bianche su cui è incisa una mezzaluna dorata e la data di morte che inizia per 199 (ben lugubre prefisso).
La seconda guerra di Mostar è stata particolarmente intensa: dalla parte bosgnacca scarseggiavano armi, munizioni e rifornimenti, mentre il Consiglio di difesa croato (l'HVO) era sostenuto dalla Croazia. Mostar est veniva bombardata giorno e notte e alla fine fu quasi rasa al suolo. «Like Hiroshima», chiosa lapidario Amir mentre mi accompagna al monumento funebre dei tre giornalisti triestini (Ota, D’Angelo e Luchetta) uccisi nel 1994 durante la realizzazione di un servizio sui bambini di Mostar. Amir durante la guerra era nell'esercito: avrei tante domande da fargli ma non so da dove iniziare e sto zitta. «Noi non potevamo scappare da nessuna parte. Non c'erano vie d'uscita e poi... non potevamo fare altro che difendere la nostra città.» Cerca di spiegarmi. «Una mia vicina di casa ha perso due figli. Uno dei due, diciottenne, si è esposto al fuoco per salvare il fratello. Ecco. Questa è una delle cose che non dimenticherò mai.» L'eredità fisica della guerra sono invece i dolori alla schiena che lo fanno soffrire quando fa freddo: «Per me è una benedizione quando ci sono 35 gradi come in questi giorni» mi confessa mentre andiamo a sederci ad un tavolo del suo bar. «Qui nel centro storico abitano dei croati e anche dei serbi, io non odio nessuno, però, insomma, con alcuni non ci prenderei un caffè. Buongiorno e buonasera, ma non siamo real friends.» Brindiamo con una Sarajevsko ghiacciata a un mondo diverso, dove la religione non verrà usata come scusa per mettere le persone una contro l'altra. «Ma ci vorrà molto tempo».
«Sai qual è il soprannome di questo bar?» fa per cambiare discorso. «Wimbledon. Perché quando passano le belle ragazze muoviamo la testa proprio come chi assiste a una partita di tennis.» Se è per questo, caro Amir, tutti i bar di Mostar meriterebbero di essere definiti così.