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IL PAESE DI FRONTE E QUELLO CHE NON C'ERA

Tra le montagne dell'Albania e del Kosovo

un paese ricco di avvenire

Situata tra vette scintillanti di nevi e la costa adriatico-ionica, l'Albania è un paese di grande varietà geografica, con grandiosi fiumi, poetici laghi, forre selvagge, pianure e sonnolente lagune costiere, una terra di forti contrasti fra una vita patriarcale e guerriera, che ricorda i tempi omerici, e città animose e progressive, un paese ricco di avvenire e vivamente suggestivo che tiene sempre desto l'interesse di ogni turista.
(Consociazione Turistica Italiana, "Guida d'Italia. Albania" - 1940)

Con colpevole ritardo ho deciso di ricambiare la visita ai nostri dirimpettai albanesi, che da più di vent'anni ci sopportano qui in Puglia. Con questo degno proposito mi reco all'aeroporto di Bari in una soleggiata mattina di agosto: il volo Belle Air Bari-Tirana dura soltanto 50 minuti, le procedure di imbarco sono velocissime e il personale del minuscolo velivolo parla anche italiano.
All'aeroporto prelevo i Lek dal bancomat dell'Intesa San Paolo che, come verificherò in seguito, ha monopolizzato il Paese. L'autobus per il centro è pronto per partire e immediatamente realizzo che spostarsi, in Albania, sarà molto facile: gli altri passeggeri e il conducente trascorrono i venti minuti di tragitto discutendo su dove è meglio accompagnarmi per farmi prendere un mezzo pubblico per Scutari.
A Tirana c'è odore di spezie e kebab turco, venditori ambulanti di sigarette e banchetti di pomodori, rotonde prive di regole e clacson impazziti. Il furgon per Scutari è già pronto per partire, è libero l'ultimo posto in fondo. Mi sembra di non essermi allontanata quasi per niente da casa, eppure ho subito la sensazione di essere stata teletrasportata all'altro capo del mondo.

SCUTARI, LA RISPOSTA ALLA MIA DOMANDA

Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda.
(Italo Calvino, "Le città invisibili")

«Dov'è il centro?», mi chiedo appena arrivata a Scutari (la stessa domanda me la porrò anche in altre località, ma sempre senza risposta). Quello che si avvicina il più possibile al concetto di centro è la "pedonale", una strada piena di bar e ristoranti. Qui consumo il mio primo pasto, apprendendo alcune regole base del mondo della ristorazione albanese: 1) il pane è squisito, 2) il caffè espresso è buono come quello italiano, 3) i prezzi sono così bassi che penso di aver calcolato male il cambio.
Con la bicicletta gratuitamente offerta dalla direzione dell'hotel, parto all'esplorazione della città, che insospettabilmente domina la classifica europea in merito alla percentuale di ciclisti (seconda solo a Copenhagen). Scutari gode di una posizione invidiabilissima, stretta tra il lago più grande dell'Albania e le montagne che segnano il confine con il Montenegro e il Kosovo. Accanto alle chiese ortodosse e cattoliche, numerose moschee si elevano al cielo grazie agli immancabili minareti, gli altoparlanti diffondono la voce dei relativi muezzin, ma in compenso le donne non usano il velo e difficilmente si vede qualcuno che prega.
Pedalo in direzione della fortezza Rosafa, ma non salgo a visitarla; invece, attraverso l'antico ponte e raggiungo la sponda del lago di Scutari. Il paesaggio umano e naturale comprende mucche che brucano l'erba vicino al lago inseguite da anziane col foulard, bambini che giocano tra cumuli di spazzatura e melma, alcuni scheletri di cemento che spiccano sulla riva e altri brutti edifici che ospitano bar e ristoranti, una strada sconnessa frequentata da altri ciclisti e molti uomini che innaffiano la strada. Se decidessi di proseguire, ad un certo punto mi troverei in Montenegro.

Intanto in città è scattata l'ora dello struscio: a parte i giardinieri che innaffiano l'asfalto e quelli che lavano le auto, nei giardini e nelle strade abbondano i giocatori di domino, seduti per terra su pezzi di cartone, le mamme con i passeggini vicino alla fontana, le amiche che spettegolano e i giovanotti che le guardano sgranocchiando semi di zucca. Salgo all'ultimo piano del Grand Hotel Europa, dove si trova il grandioso Red Bar, un immenso ambiente (reso ancora più vasto dall'assenza di altri avventori), arredato con divanetti pitonati incastonati di preziosi, poltrone damascate rosso cardinale, lampadari in cristallo da salone delle feste di Versailles, austeri tendaggi in lamè. Dalla terrazza si vede tutta Scutari: oltre i dozzinali casermoni, spiccano numerosi minareti indorati dal tramonto; più dietro il luccichio del lago e la quinta di montagne sullo sfondo arancione.
Il sole è una palla di fuoco che in poco tempo scomparirà, permettendo alla sera di inghiottire i ciclisti inseguiti dalle auto nelle temibili rotonde e nei caotici incroci, gli allegri vecchi che suonano la fisarmonica e i più giovani che suonano la tastiera, le salsicce alla griglia e i semi di zucca, i burek e la sgraziata statua di Madre Teresa. Non resteranno che i restorant-piceri all'aperto e i maxischermi sulla pedonale, dove i clienti che bevono la birra e quelli che bevono il caffè possono imbambolarsi davanti ai videoclip.

THETH, UN MAESTOSO ISOLAMENTO

I think no place where human beings live has given me such an impression of majestic isolation from all the world.
(Edith Durham)

Sono venuta in Albania per trascorrere alcuni giorni senza tempo sulle Alpi Albanesi. A dispetto del nome, queste meravigliose montagne a nord di Scutari si estendono anche nei confinanti territori del Montenegro e del Kosovo. La prima meta è il Parku Kombëtar i Thethit, un parco nazionale dichiarato già nel 1966, che si estende per 2630 ettari lungo il fiume Theth.
Il furgon che va a Theth parte da Scutari intorno alle sette di mattina, accanto all'improvvisato mercato di pecore e capre. Prima di partire però deve andare a raccogliere cose e persone per tutta la città, e anche sulla strada è un continuo di fermate per comprare angurie e meloni; per caricare provviste di cibo, farina, succhi di frutta, birra; per fare benzina.
Le donne con cui viaggio hanno capelli nerissimi che spuntano fuori dal fazzoletto annodato sotto il mento, gonne nere e calze velate; gli uomini indossano con eleganza camicie immacolate, gilet neri e coppole. Uno di loro in grembo porta una radio vetusta che produce per quasi tutto il viaggio musica popolare a volume molto alto, nell'indifferenza generale.

Sembra che poco sia cambiato dai tempi di Edith Durham, viaggiatrice di inizio Novecento affascinata dall'isolamento e della bellezza di queste montagne. Dal villaggio di Boge in poi, infatti, i successivi 25 km di strada non sono ancora asfaltati: solo potenti jeep, oppure questi indistruttibili furgon carichi di mercanzia, riescono nell'impresa di superare il Passo di Buni i Thores (quasi 1800 mt.). Durante i mesi invernali nemmeno loro ce la fanno, e infatti solo pochissime famiglie restano a Theth per tutto l'anno.
A Theth ho alloggiato a casa di M.. Costui in realtà non l'ho quasi mai visto, perché era più dedito a fare il giro dei bar della zona che a occuparsi delle faccende di casa. E anche quando c'era, la sua occupazione principale era bere caffè e acquavite locale (che mi ha offerto anche alle nove di mattina), spaparanzato sotto ai susini selvatici. Le sorti di questa casona, fatta di pietra e legno di pino, sono ovviamente nelle mani delle donne: anche le bambine aiutano nelle pulizie, mentre i loro fratelli e cugini maschi giocano all'aperto. I pasti tradizionali sono preparati con prodotti locali a chilometro zero, come il tè di montagna, il latte appena munto, lo yogurt e il formaggio, le marmellate casalinghe; oppure vengono da Scutari, come i meloni e le angurie che abbiamo caricato sul furgon.

Anche questa casa ha goduto degli sforzi compiuti dall'organizzazione tedesca GTZ per adeguarla agli standard turistici, in nome del turismo ecosostenibile che sta alla base del progetto del “Balkans Peace Park" (il cui obiettivo sarebbe la creazione di un parco transfrontaliero). Io comunque consiglierei a M. di mettere le chiavi alle porte delle camere per evitare che qualcuno (tipo il suo losco fratello) apra la porta mentre sei nudo.
Grazie alla stessa organizzazione di sviluppo, sono stati marcati i sentieri per il trekking ed è stata pubblicata una guida turistica, permettendo un forte incremento dei visitatori (che in questa area sono soprattutto stranieri). In realtà anche solo procurarsi questa guida non è stato facile. Prima di tutto, soltanto quando finalmente scendo in paese scopro che esso si trova cinque chilometri di strada sterrata più in basso. La valle è una conca chiusa, circondata praticamente dalle Dolomiti; alcuni piccoli dettagli, però, mi ricordano che siamo a molti chilometri di distanza dal Trentino: un edificio diroccato, una ruspa che drena il fiume, un cumulo di rifiuti, e intorno la desolazione e un caldo da impazzire. Sono sfinita e demoralizzata, il paese non esiste e sembra che nessuno sappia nemmeno cosa significhi la parola "trekking".

Le attrazioni della vallata le posso ammirare, a costo di grande fatica, i giorni successivi. Proseguendo lungo la vallata si incontrano la chiesetta in pietra e la Kulla − ossia una torre usata come rifugio per scampare alla barbarica usanza della vendetta di sangue. Poi ci sono il mulino, il piccolo museo etnografico, le spettacolari cascate di Grunas e molto più in fondo l'Occhio Blu di Theth (un laghetto dalle acque gelide e dal colore azzurro acceso). Per il resto enormi campi di mais e pascoli verdi, grandiosi boschi di conifere, picchi dolomitici, greti di fiumi secchi, vallate dove ancora è possibile incontrare famiglie di pastori che si dissetano con l'acqua dei ghiacciai e che producono formaggio.

Glielo chiedo io alla cognata di M. che cosa aspettano a farsi un sito web della guest house. Lei, come un'indiana, dondola la testa qua e là, con quel gesto che gli occidentali solitamente non riescono a decifrare. Le domando anche come mai non lo vendono pure là da loro quel libro realizzato dai tedeschi con i sentieri del trekking, ci sarebbe stato molto utile, a me e ai francesi. Lei è un po' imbarazzata, scuote nuovamente la testa sinuosamente, ma alla fine sputa il veleno: M. non le dà una lira per il suo lavoro con i turisti, e nemmeno la cognata S. viene pagata per il mazzo che si fa a cucinare per tutti gli ospiti. I soldi se li tengono tutti lui e sua moglie. Suo marito lo giustifica perché è disoccupato e dunque è giusto che tutti gli introiti vadano a lui. Di ribellarsi, ovviamente, nemmeno a parlarne (stiamo pur sempre parlando di una donna che ha fatto un matrimonio combinato dalle famiglie).
Questo mi pare che − per ora − chiuda l'argomento dei parchi transfrontalieri, del turismo ecosostenibile e della lotta allo spopolamento delle aree montane.

UNA GITA INDIMENTICABILE SUL LAGO DI KOMAN

Il Parco Nazionale di Valbonë è adiacente a quello di Theth ed è più giovane di 30 anni, essendo stato dichiarato solo nel 1996. Per andare dall'uno all'altro c'è chi carica i propri bagagli su un cavallo e, scortato da una guida, si inerpica fino ai 1800 del passo. C'è chi invece, come me, torna a Scutari e lo raggiunge attraverso Koman e Bajram Curri, approfittando dell'occasione per compiere la mitica gita nella gola del Lago di Koman, il piatto forte del turismo nord-albanese.
Fino a poco tempo fa, questo percorso in traghetto era l'unico modo per raggiungere Bajram Curri da Scutari. Adesso invece è stata costruita una nuova strada e dunque il traghetto è stato sostituito da un'imbarcazione più snella e creativa (costituita dalla parte superiore di un autobus saldata a una barca), che carica solo persone e biciclette.
I passeggeri dell'imbarcazione sono fondamentalmente di due tipologie: 1) turisti che non si sono fatti convincere a prendere una barca turistica, 2) sparuti abitanti di paeselli sperduti ai quali si può accedere soltanto dalle sponde del lago artificiale di Koman: costoro scendono dalla barca e si incamminano in salita, talvolta accompagnati da un cavallo o un asino adibito al trasporto delle loro masserizie.
Il paesaggio della gola montuosa attraversata dallo stretto lago è davvero mozzafiato e la traversata molto piacevole. Passo il tempo conversando con altri turisti, ma anche con degli ingegneri di Valona che stanno effettuando un controllo di qualità del mezzo − anche se a me sembra che più che lavorare si stiano godendo alla grande la gita, chiacchierando del più e del meno e fumando sigarette. Grazie a loro, comunque, riesco a farmi prenotare un hotel in quel di Valbona: una camera per me ed una per Uwe, questo simpatico spilungone germanico che ho conosciuto sul furgon e che ora non fa altro che ripetere che questa escursione è una delle esperienze più significative della sua vita.

VALBONA, LA FESTA DI BAJRAM

La località turistica di Valbona, nelle Alpi Albanesi, non è altro che una strada di alcuni chilometri, asfaltata da poco, circondata da meravigliose montagne. Lungo la via, a una discreta distanza l'uno dall'altro, sorgono recenti hotel di legno prefabbricati dai tetti molto spioventi, tutti identici. Poiché è più agevole raggiungerla, rispetto a Theth è una meta più gettonata per il turismo locale, persino per gite di un solo giorno.
La giornata del mio arrivo a Valbona era stata piuttosto intensa: dopo una notte da incubo nella fornace di Scutari, alle sei ero già alla ricerca del furgon per Koman, alle otto e mezza ero all'imbarcadero, la pausa pranzo l'ho trascorsa a Bajram Curri dove si crepava di caldo, e infine mi ero smazzata alcuni chilometri sulla famosa e unica strada di Valbona alla ricerca dell'ufficio del turismo. Finalmente mi sono seduta al ristorante e ho ordinato carne di capretto e agnello (la scelta non era molto vasta).

Alla fine della cena è arrivato Uwe, ringalluzzito da una tonificante serata teutonica nella guest house dall'altra parte della strada, di proprietà di una signora tedesca. Purtroppo però il suo momento di gloria è durato poco in quanto ha dovuto assistere all'ennesimo mio incontro con un albanese che vive in Italia, con cui abbiamo finito la serata. Questo verboso avventore seduto al tavolo accanto al nostro, che parlava toscano con l'accento albanese di Tropoje (la città di Sali Berisha) ci ha intrattenuto con una serie di racconti sulle sue esperienze di fanciullezza ai tempi di Hoxha: da pelle d'oca quando ha recitato il discorso che − in veste di "pioniere della rivoluzione" − doveva pronunciare ogni mattina prima dell'inizio delle lezioni: «Ero il più bravo della scuola e invitavo i miei compagni a studiare e impegnarsi» ci ha spiegato in uno scoppiettante alternarsi di “c” aspirate toscane e di “r” da polpetta in bocca tropojane. Sono passati quarant'anni e adesso vive un'altra vita, ma ancora si ricorda come un incubo il fatto che durante il regime era vietato portare pantaloni con le tasche e mettere le serrande alle finestre.
Costui risulterà un personaggio chiave nel mio viaggio, poiché grazie a lui ho scelto la tappa successiva, seguendo le indicazioni che mi ha scritto su un foglietto di carta, tra un sorso di raki e l'altro: Valbona → B. Curri; B. Curri → Gjakovë; Gjakovë → Pejë; Pejë → Bjeshkët e Rugovës.
La mattina dopo, Uwe è partito per un'escursione che lo avrebbe portato in vetta al Maja e Rosit e io me ne sono andata a camminare nella direzione opposta, dove non rischiavo di incontrare grossi dislivelli.

Al ritorno in hotel, ho incontrato nuovamente suor G. e suor A., che avevo già conosciuto a colazione. In vent'anni di permanenza in Albania ne hanno viste di cose, non posso nemmeno immaginare a quanti cambiamenti hanno assistito. «Qui per esempio» mi avevano detto la mattina davanti al cappuccino «tre anni fa c'era questo unico albergo, ed era anche più piccolo.» Adesso hanno appena finito di pranzare e mi offrono una fetta di anguria ben fresca. «Oggi è Bajram, la festa del sacrificio» mi annunciano « e si prevede grande affluenza di turisti.» E infatti molti tavoli sono occupati da famiglie alle prese con ossa di capretto e agnello da spolpare. «Noi ci siamo tolte il velo e loro se lo mettono» mi sussurrano divertite osservando alcune donne e ragazze con un fazzoletto in testa. «Devi sapere che la religione in Albania è stata crudelmente schiacciata» mi spiegano pazientemente «e gli albanesi erano terrorizzati: il regime è stato veramente il più feroce di tutto l'Est. Era vietata la propaganda religiosa, gli edifici di culto furono confiscati e usati per altri scopi, addirittura i villaggi con nomi di santi furono rinominati. Tutti avevano paura, per una parola di troppo si finiva ai lavori forzati nelle paludi vicino a Valona. E se uno scappava, tutta la famiglia pagava.»
Anche il tizio di ieri sera mi aveva parlato della crudeltà di Hoxha, che addirittura fece ammazzare persino i dirigenti di partito e i membri del suo stesso governo. Poi finalmente morì, di leucemia, e il suo delfino Ramiz Alia prudentemente propose delle riforme, che però purtroppo non bastarono a scongiurare la catastrofe.
Penso che oggi è l'8 agosto e che, esattamente ventidue anni fa, circa ventimila loro connazionali sbarcarono al porto di Bari, con la speranza di cambiare vita. La nave requisita dai disperati tornava da Cuba e non c'era stato il tempo di trasferire tutto il carico di zucchero che essa trasportava: per molti quello zucchero tenne viva la speranza in tutto il viaggio. La scena della nave carica come un formicaio nessuno la può dimenticare, soprattutto dopo che quell'evento è diventato emblematico, trasformando l'Italia da Paese di emigranti a terra promessa per gli immigrati. Da allora, a Bari si usa dire: «Vai vestito come un albanese.»

KOSOVO, IL PAESE CHE NON C'ERA

Noi siamo a Decani, nella terra dove è nata l’ortodossia serba e poi s’è incendiata la Jugoslavia: il Kosovo, detonatore dello scontro tra slavi e albanesi. Decani, la Cluny dei Balcani, paradiso blindato, protetto dagli italiani sotto bandiera Onu. Oltre il porticato vedo le loro sigarette accese nella foresta; son lì a pattugliare la strada. Senza di loro Decani non esisterebbe: nel 2004, centodieci luoghi santi sono stati incendiati o dinamitati per ritorsione, dopo i massacri serbi del ‘99. Ho visto, arrivando qui, le loro terribili macerie.
(Paolo Rumiz, “Gerusalemme perduta”)

Per raggiungere Peja bisognerà cambiare un po' di mezzi. Il primo van ci porta da Valbona a Bajram Curri e parte alle sette di mattina. A Bajram Curri siamo subito presi su da un altro furgon, che deve prima ovviamente sbrigare alcuni servizi di carico e scarico gente e mercanzia in città e poi può partire alla volta del confine. Alla dogana le procedure sono molto sbrigative, visto che siamo soltanto in tre: oltre me e Uwe, c'è soltanto un vecchio dalla faccia di pergamena e il cappello tradizionale di lana cotta bianca poggiato sulle orecchie piegate.
L'Albania è finita, entriamo in un nuovo territorio, fatto di palazzi ricostruiti dopo la guerra (la maggior parte non ancora finiti, col mattone vivo senza intonaco), bar affollati, hotel pieni, aria di vacanza, cartelli stradali in serbo, albanese e inglese. A Gjakova, sceso il vecchio con il cappello a forma di uovo, il conducente deve prima trovare una sistemazione conveniente a Uwe e poi accompagna me alla stazione degli autobus.

Il mezzo per Peja non è né un furgon né un grosso pullman scassato stile albanese, ma è nuovo di zecca e ha l'aspetto molto più europeo: i passeggeri sono silenziosi, si ascolta un programma radiofonico kosovaro e alle pareti sono affissi manifesti pubblicitari di corsi di formazione o offerte di lavoro in Svizzera. Per le strade, circolano numerose auto di grande cilindrata o SUV targati CH oppure D: sono felice per Uwe che si prenderà la rivincita dal punto di vista linguistico.
Uno dei pochi passeggeri che parla italiano si siede vicino a me e mi racconta della sua vita di ex-emigrato in Italia, quindi si offre di aiutarmi a raggiungere le famose montagne di Rugova, l'ultima meta scritta sul foglietto (anche se io temo che il suo piano prevedesse l'accordo col tassista per farmi pagare la corsa il doppio del dovuto). In ogni caso, il tassista mi conduce attraverso una spettacolare gola dalle pareti di roccia: la strada si inerpica tra tornanti e strettoie, entra in gallerie naturali e costeggia il fiume Lumbardhi, che scorre più in basso. Alla fine mi lascia in questo camp, praticamente identico agli hotel di Valbona, dove a pranzo le famiglie accorrono per mangiare le trote allevate nei vasconi sotto alle palafitte.

La valle di Rugova

Dopo Theth e Valbona ho raggiunto la terza e ultima destinazione attraverso le Alpi albanesi: la Valle di Rugova, una delle mete turistiche più note del Paese fin dai tempi della Jugoslavia. Durante il Medioevo, da questa strada passava la via carovaniera che collegava Peja con Ragusa, sulla costa dalmata. In tempi più recenti invece, nelle foreste di Rugova si nascondevano i guerriglieri armati dell'esercito di liberazione kosovaro, mentre i contrabbandieri l'attraversavano per entrare e uscire indisturbatamente dal Montenegro. Qui è possibile effettuare attività come sci, trekking, mountain bike, arrampicata, rafting, ma anche assaporare i prodotti della terra o semplicemente godersi la natura in pieno relax.
Al progetto “Peaks of the Balkans”, trekking transfrontaliero tra Kosovo, Albania e Montenegro, è stato recentemente assegnato il Tourism for Tomorrow - Destination Stewardship Award, un riconoscimento internazionale in materia di turismo sostenibile. L'Associazione Trentino con i Balcani ha messo a disposizione le proprie competenze sia per la realizzazione dei sentieri di trekking (come si deduce dai familiari cartelli di legno incisi) sia per la creazione della rete di accoglienza, nell'ambito di un progetto di cooperazione coordinato dalla Regione Toscana e finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano.

La strada che attraversa la valle oggi è asfaltata per una ventina di chilometri circa, ci sono diverse guest house, ristoranti e alcuni edifici in costruzione e tutto sembra idilliaco (fino a che non inciampi in una montagna di spazzatura puzzolente mentre raccogli i mirtilli). Tra le attrazioni si segnalano cascate e laghi, grotte e picchi alti più di 2000 metri, inoltre nell'area sono sparsi tredici piccoli villaggi: a Boge, l'ultimo alla fine della valle, la gola si allarga in pascoli, boschi e valli secondarie; ci sono gli impianti di risalita e le baite in stile valdostano, mentre l'Austria ha fornito i capitali per costruire questo albergo a svariate stelle.
Purtroppo, anche se la valle di Rugova dista pochissimi chilometri dal Montenegro, non sono riuscita a portare a termine il mio personalissimo progetto transfrontaliero dei “Picchi dei Balcani” per due ragioni: 1) dopo le escursioni nelle Alpi albanesi le gambe erano inutilizzabili (non a caso vengono definite "montagne maledette"); 2) la famiglia kosovara, automunita, con cui ho trascorso questi pochi giorni non ne voleva proprio sapere di attraversare il confine, perché al di là della frontiera vivono i serbi che hanno abbandonato il Kosovo. Alla faccia del Tourism for Tomorrow e del Balkans Peace Park.

Peja

A Peja è giorno di bazar: a parte i formaggi e le verdure, gli oggetti in legno e i vestiti tradizionali, il resto è paccottiglia inguardabile. In giro è un trionfo di paillettes, perline, tessuti color oro e argento, chiassosi abiti acrilici lunghi fino ai piedi, lucidi e pieni di balze e volant, indossati da manichini storti e pieni di ferite, con finti capelli arruffati, a volte privi di arti. Il target di riferimento penso che sia costituito al 99% dai kosovari immigrati in Svizzera e Germania che tornano per le vacanze e come minimo saranno invitati a un paio di matrimoni.
È molto triste constatare che una buona parte delle rimesse dei kosovari all'estero (che costituiscono il grosso dell'economia del Paese), vengano sprecate in matrimoni da più di 20mila euro. L'altra categoria commerciale più presente in città (non a caso) sembra dunque quella dei regali di nozze, e poi vengono le rivendite di qebab (che saturano l'aria di fumo profumato) e quelle di cd, perché pare ci sia tutto un mondo di musica kosovara che io non conoscevo.

Tra le moschee e le chiese cristiane, e anche fuori città, tra una cascata e un cartellone di promozione turistica, molte lapidi di marmo grigio o nero commemorano ex combattenti dell'UCK, l'Esercito di Liberazione del Kosovo, eroi per qualcuno, spietati terroristi per molti altri. L'attuale primo ministro kosovaro, Hashim Thaçi detto "serpente", ne era uno dei leader, prima di assumere il governo del Paese e condurlo all'indipendenza − prima anche di essere accusato di una serie di nefandezze, come il traffico di droga e armi, l'estorsione, lo sfruttamento della prostituzione. Dovunque sventolano le bandiere con l'aquila bicipite nera su sfondo rosso, solo a volte affiancate dalla bandiera ufficiale del Kosovo: uno sputo giallo su sfondo blu più sei stelline bianche.
Sono passati 14 anni dai bombardamenti della NATO e 5 anni e mezzo dalla proclamazione, unilaterale, dell'indipendenza, ma la Cina e la Russia, la Spagna, la Romania e molti altri Paesi (tra i quali, naturalmente, la Serbia) continuano a non riconoscere l'esistenza di questo piccolo Stato. Per le strade di Peja ne incontro tante di camionette e jeep con la bandiera italiana, ma anche austriaca e slovena: sono i contingenti del KFOR, la forza militare internazionale guidata dalla NATO che dalla fine della guerra presidia il territorio (alcuni di loro proteggono i due monasteri ortodossi dell'area: il patriarcato di Peja e il monastero di Decani). Mi faccio una passeggiata fino alla base italiana di Belo Polje (il “Villaggio Italia”), quartier generale del Multinational Battle Group West, attraversando la campagna costellata di cimiteri ed edifici abbandonati, ma anche villette con giardino, sotto un cielo sempre più livido e un'umidità insopportabile.

Continuo a girarci intorno

M. nel frattempo mi ha comprato un regalo: un quadro in velluto rosso su cui campeggiano l'aquila e lo sputo, affiancati, entrambi realizzati con minuscole pietroline. Voleva che mi restasse un bel ricordo del popolo kosovaro. Vedere la bandiera albanese e quella kosovara sempre appaiate mi fa credere che la nascita di un unico Stato sia il sogno di tutti, ma mi sbaglio.
Mentre mangiamo l'anguria, tagliata a fettine sottili dal personale del ristorante, D. mi racconta cosa successe nel '91. «Ero in Italia già da tre anni. All'epoca gli stranieri erano pochi e di lavoro ce n'era quanto ne volevi. Avevo sempre detto a tutti di essere albanese: che ne sapevano loro del Kosovo? E poi non volevo star lì a spiegare. Poi arrivò lo sbarco degli albanesi in Italia e cominciai a dire che ero kosovaro: sai, non volevo mischiarmi con quei teroni lì. I miei concittadini allora si meravigliarono: − Ma fino a ieri non eri albanese? − Mi dicevano». E giù a ridere col succo dell'anguria che cola. «In Italia mi ero trasferito prima che tutto iniziasse, per incontrare uno che mi doveva portare in America. Avevo 15 anni. Al luogo dell'appuntamento quel signore non si vide, lo aspettai per ore, finché si avvicinò un veneto che mi propose un lavoro».

L. andava ancora a scuola quando lui è partito. Mentre mangiamo i peperoni arrosto, mi racconta della sciagura che seguì alla decisione di Milosevic di togliere l'autonomia al Kosovo. «La scuola fu serbizzata e noi ci rifiutammo di frequentarla: ci riunivamo in case private e facevamo lezione nelle cantine e nei sottoscala, sempre con la paura che qualcuno ci scoprisse». Per fortuna tutto è andato per il meglio: lei e tutto il resto della famiglia lo hanno raggiunto in Italia e adesso hanno quattro figli che studiano a scuola, senza contare che possono permettersi di tornare nella loro terra per le vacanze, approfittando dei prezzi bassi per curarsi i denti, fare scorte di derrate alimentari e strafogarsi di qebap.
Sembra che io continui a girarci intorno a questa ex Jugoslavia. Prima qualche puntata nella Slovenia di confine e in Istria, un Natale di qualche anno fa. Poi alle Porte di Ferro, in Romania, dove della Serbia sentivo solo l'odore. E ora in Kosovo, capitata per caso grazie a un foglietto scritto da un albanese che vive in Toscana. E anche adesso che sono qua, qualcosa mi dice che sto continuando a girarci intorno.

TIRANA, UNA MODERNA METROPOLI

Recenti avvenimenti storici, che hanno definitivamente unite le sorti dell'Albania a quelle dell'Italia, rendono doverosa per ogni italiano la conoscenza di questo paese amico per antichi rapporti e del suo popolo leale e valoroso.
(Consociazione Turistica Italiana," Guida d'Italia. Albania" - 1940)

Esiste un autobus diretto che collega Pristina, la capitale del Kosovo, con Tirana; io vado a prenderlo a Prizren, ed è un peccato non essermi fermata a visitarla. Il paesaggio dal finestrino è molto bello, specialmente quando rientriamo in Albania e passiamo da Kukes, dove il Drin bianco (che nasce a nord, in Kosovo) e quello nero (che nasce a sud, in Macedonia) si incontrano e, a causa degli sbarramenti, danno vita al lago di Fierza. L'autostrada è disseminata di cartelli di indicazioni dal familiare colore verde, i quali mi fanno sospettare lo zampino dell'Italia, paese amico per antichi rapporti.

Scendo nel cuore di Tirana, ossia nella gigantesca piazza Giorgio Castriota Scanderbeg, intitolata all'onnipresente eroe nazionale che tenne valorosamente i turchi a lungo lontani dal paese. La piazza fu ampliata durante l'occupazione italiana e poi divenne un grande palcoscenico ai tempi del regime comunista (le foto dell'epoca la mostrano priva di automobili). Edifici di varie epoche si fronteggiano, come il Palazzo della Cultura (donato dal popolo sovietico), la torre dell'orologio, il museo storico nazionale, la moschea, l'hotel Tirana International.
Da qui, percorrendo l'ampio Bulevardi Deshmoret e Kombit, si giunge al lungofiume (sempre che il Lana si possa tecnicamente definire fiume) oltre il quale spicca uno dei pezzi forti della capitale albanese: la famosa Piramide, un orrendo edificio in marmo e vetro, nato come museo dedicato ad Enver Hoxha e oggi diventato centro culturale e discoteca (anche se a me sembra che giaccia in condizioni di abbandono). Se percorso fino in fondo, il Bulevardi ti conduce fino a piazza Madre Teresa e all'Università e, con una piccola deviazione, allo stadio Qemal Stafa.

Il museo di storia nazionale di Tirana contiene migliaia di reperti del patrimonio culturale albanese che ripercorrono tutta la storia del Paese, dalle origini illiriche fino ai crimini di Hoxha. L'edificio necessiterebbe di un bel restauro, non soltanto dal punto di vista puramente estetico, ma anche da quello più squisitamente funzionale: ad esempio non c'è l'aria condizionata e si suda copiosamente. I visitatori, nella maggior parte dei casi, sono coppie o famiglie miste, in cui almeno uno dei componenti parla albanese, motivo per il quale nessuno si è preso la briga di tradurre in inglese la maggioranza delle didascalie.
Quando esco, vengo fermata da un'impiegata del comune che sta svolgendo un'indagine sul turismo a Tirana. Mi fa tenerezza questo sforzo tiranese di creare un itinerario turistico praticamente sul nulla, dunque rispondo pazientemente a tutte le domande. Nazionalità? Italiana. Motivo della visita? Turismo. È per la prima volta in questa località turistica? Sì. Monumenti che conosci oppure hai visitato/hai intenzione di visitare: statua di Skanderbeg (Sì), Torre dell’Orologio (Sì: sta accanto alla statua di Skanderbeg), Moschea Et'hem Bey (Sì: sta accanto alla statua di Skanderbeg e alla Torre dell’Orologio), Galleria d’Arte (Sì: in tutto eravamo 5 visitatori), Fortezza di Giustiniano (Sì: è quel pezzettino di muraglia bizantina che ho intravisto ieri sera al buio), Monumento al partigiano ignoto (Sì: è una statua dalle caratteristiche estetiche tipicamente socialiste). A tutto il resto (musei, chiese, tombe, ponti e giardini) ho risposto no.

In serata percorro i grandi viali, stando ben attenta agli automobilisti (per i quali le strisce pedonali, semplicemente, non esistono), e raggiungo per l'ora di cena il quartiere Blloku. Un tempo riservato alla nomenklatura comunista e vietato ai comuni mortali, oggi è la zona trendy della città, piena di locali, ristoranti, negozi alla moda, banche, hotel, frequentati dal popolo leale e valoroso della Tirana bene (uno di quei classici quartieri nei quali, una volta entrato e bevuti un paio di drink, non ti ricordi più nemmeno in quale nazione ti trovi).

LA LEGGENDA DI BERAT

Il progetto iniziale di questa spedizione in Albania consisteva in un itinerario "mare e monti": una settimana sulle montagne a nord e una sulle coste ioniche meridionali. Poi, si sa come vanno queste faccende, una cosa tira l'altra finché, quando sono riuscita a fare ritorno a Tirana, ormai mi rimanevano soltanto due striminzite giornate prima del volo di ritorno. Non mi restava altro che ripiegare sul sito UNESCO più vicino alla capitale: Berat, la città dalle mille finestre.
A prima vista (forse anche alla seconda) questa tappa potrebbe sembrare totalmente folle e inutile. La triste periferia di Tirana l'avevo già guardata per due volte (compresi i condomini di cemento pitturati a colori vivaci) e non era veramente necessario attraversarla per la terza e nemmeno per la quarta volta. La deviazione a Durazzo non ha fatto altro che confermare lo scempio edilizio e la bruttezza architettonica che sospettavo. E comunque ci vogliono veramente troppe ore, la strada non è molto agevole, il paesaggio è monotono. L'unico passatempo è contare i bunker, questi fungoni di cemento indistruttibili che Hoxha fece realizzare a decine di migliaia, e che rimarranno a perenne ricordo di questo insano dittatore che voleva far credere che l'Albania fosse così bella che tutti se ne volessero appropriare.
Berat è una cittadina deliziosa, con tre agglomerati di case ottomane bianche dai tetti di tegole marroni e le mille finestre che le danno il soprannome. È collocata tra il monte Tomor e il monte Shpirag e attraversata dal fiume Osum.
Mentre pranzo in un bellissimo hotel-ristorante ospitato in una tipica casa ottomana, apprendo la leggenda di Berat. C'era una volta una splendida fanciulla amata da due fratelli, i giganti Tomor e Shpirag, i quali per contendersi il suo cuore si affrontano in una lotta sanguinosa. Tomor colpisce Shpirag con la spada, Shpirag reagisce massacrando il fratello a randellate. Infine Dio si vendica (che non sono modi questi) e trasforma Tomor in una montagna che reca ancora i drammatici segni inflitti dal randello e Shpirag in un'altra montagna, tagliuzzata dai colpi di spada ricevuti. La povera Berat (colpevole solo di troppa bellezza e di troppo amore) invece viene trasformata in una collina, in cima alla quale sorse questo castello che ancora oggi domina la cittadina; tutte le lacrime da lei versate hanno dato vita al fiume Osum, a dimostrazione eterna della sua pena.

Siccome nel ristorante c'è un bel venticello, trovo tutte le scuse per far durare il pranzo (invero molto leggero) un'eternità. Appena metto il naso fuori mi passa tutta la voglia di esplorare il paese e vado a rifugiarmi in camera, con l'aria condizionata. Solo nel tardo pomeriggio mi faccio forza e raggiungo a piedi il quartiere di Gorica, che sorge al di là del fiume.
Quando calano le tenebre, vado alla ricerca di questo ristorante trovato su Trip Advisor; la strada per raggiungerlo è accidentata e scivolosa, al buio non si vede dove metti i piedi e l'umidità è spaventosa. Solo alla fine scopro che si trova esattamente dentro la fortezza, dove mi ero rifiutata di salire sin dall'inizio. Se aggiungiamo che sono arrivata tutta sudata, che ho mangiato da schifo e che il proprietario era più untuoso delle sue portate riscaldate, è facile capire perché ho immediatamente deciso di andarmene da lì l'indomani di buon'ora.
Torno al bellissimo hotel-ristorante, unica gioia di Berat, ad affogare il mio livore nel raki. Qui chiacchiero a lungo con il cameriere, che si mostra altrettanto livoroso, anche se l'obiettivo dei suoi strali non è un paesino ottomano umido e afoso dotato di un ristorante penoso, bensì è un altro: gli albanesi del nord. I quali non solo parlano con una scarpa in bocca, non solo sono così rissosi che arrivano alle mani soltanto se uno li guarda, ma che oltretutto sono retrogradi e primitivi (basta pensare alle faide che ancora oggi sono il loro pane quotidiano e a quella barbara legge del Kanun). Rasserenata dallo spirito di fraternità e di amore di patria che si respira qui, nella tradizionale casa ottomana restaurata, me ne vado a dormire.

Alle nove di mattina sto bevendo l'ultimo caffè di Berat; i bagagli sono già sull'autobus che tra massimo una mezz'ora partirà per Tirana. Non vedo l'ora di andarmene. Il caldo e l'umidità sono già insopportabili, pure all'ombra. Quando scorgo un cappellino ballonzolante a quasi due metri di altezza, sotto al quale luccicano degli occhiali, inizialmente penso che ci siano tutte le condizioni per incappare in un'allucinazione; ma poi, più in basso, appare la nota camicia scozzese, seguita dai soliti calzoncini beige con le tasche e dagli enormi scarponi da trekking. È proprio Uwe, con cui avevo condiviso la gita sul lago di Koman e il soggiorno a Valbona! I primi minuti ancora stento a credere che con tutta l'Albania che ci sta da visitare, ci siamo ritrovati proprio qui. Non solo: Uwe ha comprato un biglietto per lo stesso autobus che prenderò io.
Al solito è entusiasta di questa località che io odio con tutto il cuore: ha visitato tutte le chiese e i monumenti e ovviamente la fortezza; ha pure trascorso una piacevole giornata in montagna e ha conosciuto delle persone interessantissime. Nonostante i suoi problemi intestinali, acuiti dal clima torrido, non vede l'ora di mettermi a parte di una serie di considerazioni antropologiche e riflessioni socio-economiche, le quali − alla fine − danno un senso anche a quest'ultima tappa, solo apparentemente folle e inutile.

Così lontano così vicino

Mi accompagna all'aeroporto il nipote del receptionist dell'hotel. È l'alba e sono ancora un po' assonnata. Si stupisce quando scopre che parlo italiano, come se l'italiano fosse lui e io la straniera. E in effetti lui italiano si sente: vive a Cremona da vent'anni. Mi racconta che è di passaggio qui a Tirana e non certo per svago: suo padre ha avuto un infarto ed è stato operato giusto il giorno prima. Per fortuna loro hanno potuto pagare i settemila euro necessari per l'operazione nell'ospedale tedesco.
Quando mi saluta lo immagino che guida velocissimamente in direzione dell'ospedale tedesco. Io avrei voluto chiedergli il numero di telefono e chiamarlo, arrivata in Italia, per sapere se l'operazione è andata a buon fine, se il papà ce l'ha fatta ed è salvo. Ma ovviamente non lo faccio.
Ancora adesso, ogni tanto, penso al papà del finto tassista, chiedendomi se settemila euro lo avranno salvato. E mi vengono in mente le parole dell'uomo, mentre guidava un finto taxi in una brumosa alba di agosto, nella periferia di Tirana: «Qua è peggio dell'America. Se non hai i soldi muori».

(agosto 2013)

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