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Sarajevo: times of misfortune

Sarajevo si sviluppa oblunga e compatta nella valle del fiume Miljacka ed è circondata interamente da rilievi. Dentro questo catino – come cantava Giovanni Lindo Ferretti – ci sono case dai tetti rossi, minareti alti e sottili, campanili, alberi, tram colorati, muri rattoppati, palazzi di vetro, condomini di cemento, ampi viali austroungarici, centinaia di caffè, immensi cimiteri musulmani bianchi di lapidi. Oltre il fumo dei ćevapčići, il cielo è opaco.
Presso il bastione bianco, uno dei punti panoramici più belli della città, un ex poliziotto, oggi riconvertito in guida turistica, ci illustra chiaramente – come su una carta geografica – la situazione della città durante i quattro anni di assedio. «Sarajevo era completamente isolata. Le strade erano interrotte, i rifornimenti di viveri e medicine bloccati. Acqua, elettricità, telefono e riscaldamento tagliati. I soldati delle forze serbo-bosniache circondavano la città e la bombardavano dai bunker situati nelle montagne.»
Ad essere colpiti dalle granate o dai proiettili dei cecchini, e a patire il freddo e la fame, erano cittadini di tutte le etnie (tra i circa 12.000 morti, secondo qualcuno, almeno un quarto era serbo o aveva parenti serbi). Dopo la guerra il numero di residenti serbi e croati è crollato e circa l'ottanta per cento della popolazione oggi è costituita da bosgnacchi, ma il pacifico miscuglio di popoli per cui Sarajevo è stata sempre famosa non è del tutto scomparso: il condominio dell'ex poliziotto ne è un esempio, visto che sullo stesso pianerottolo ci abita una famiglia serba, una croata e una bosgnacca.
La visita guidata "Times of misfortune" prosegue in direzione centro città. «Alla vostra destra Pijaca Markale, dove avvennero due terribili stragi durante l'assedio. Qui, nel Veliki park, potete notare il monumento in ricordo dei bambini scomparsi durante la guerra. Laggiù sul marciapiede fiorisce una delle cosiddette "rose di Sarajevo": come vedete, l'impronta lasciata da una granata è stata dipinta di rosso.» Anche qui una delle strade principali si chiama Maršala Tita. «C'è ancora chi rimpiange il vecchio Josip Broz?» «Beh, quello che vi posso dire è che ai tempi di Tito c'era una classe media, oggi non più. Pensate che lo stipendio medio ammonta a 300 euro, il doppio per gli impiegati pubblici.»
L'ex poliziotto ci porta dunque a Koševo. Il simbolo delle Olimpiadi Invernali del 1984 è ancora in cima a una vecchia torre di cemento, arancione con i cinque cerchi colorati, ma sterminati cimiteri hanno invaso tutta la zona. In fondo svetta la silhouette della torre della televisione, arrugginita. «Era la prima volta che i giochi olimpici invernali si tenevano in un paese comunista e tra le motivazioni della scelta ci fu – ironia della sorte – la multietnicità della città. In quel periodo stavamo vivendo un momento di grande sviluppo, e invece sappiamo com'è andata a finire: sulle montagne dove si svolsero le gare, durante l'assedio stavano appostati i cecchini serbi.»
Attraversiamo la galleria e sbuchiamo su via Zmaja od Bosne (un tempo chiamata "Sniper Alley"), che attraversa tutta la città. Passiamo davanti ai due musei più importanti di Sarajevo (ennesimi manichini ottomani e mobilio fisso nelle case turche ricostruite, fotografie e oggetti di Sarajevo sotto l'assedio), dirimpettai dell'inconfondibile sagoma gialla dell'hotel Holiday Inn («Uno dei pochi alberghi al mondo in cui le stanze più care erano quelle senza vista»). Ad Alipašino Polje siamo invitati ad osservare la sede dello storico giornale "Oslobođenje", e infine arriviamo a Butmir, il quartiere dell'aeroporto. Al tunnel di Sarajevo si accedeva da questa casa lasciata appositamente al suo posto con tutti suoi muri crivellati di squarci. A partire dal 1993 ogni giorno tre o quattromila persone attraversavano questo claustrofobico cunicolo di 800 metri per rifornire la città di viveri e medicinali, recapitati dai voli dell'ONU o dei soccorsi umanitari, oppure per scappare. Pare che nessuno degli assedianti, pur sapendo della sua esistenza, abbia mai scoperto esattamente dove si trovasse. Una piccola sezione del tunnel originale è percorribile da noi turisti di guerra, mentre il resto dell'area è stato trasformato in museo. «Ci sono passato circa due volte alla settimana per anni, da qua» ricorda l'ex poliziotto. «Hai una foto di te all'epoca?» «Unfortunately, non possedevo una macchina fotografica».
Per tornare in centro è inevitabile percorrere nuovamente la stessa arteria principale, ma l'ex poliziotto ci propone una piccola deviazione per addentrarci nel quartiere di Grbavica, il più martoriato di Sarajevo perché si trovava sotto il diretto controllo dei serbi. Se proseguissimo dritto, dopo circa un chilometro entreremmo nella Republika Srpska, ma non abbiamo alcun motivo per farlo. Torniamo indietro passando sul ponte Vrbanja, che oggi si chiama "Suada e Olga" in ricordo delle prime due vittime dell'assedio. «Il ponte è noto anche per la straziante storia del Romeo serbo e della Giulietta musulmana, i fidanzatini che furono uccisi mentre cercavano di attraversarlo per scappare» e per la morte dell'italiano Don Gabriele Moreno Locatelli, che pochi mesi dopo manifestava insieme ad altri quattro pacifisti. Segue il ponte "Festina lente" dal disegno postmoderno, creato da tre studenti dell'accademia delle belle arti, e poi il più famoso di tutti: il ponte latino, dove il 28 giugno del 1914 il celeberrimo Gavrilo Princip assassinò l'erede al trono dell'impero austro-ungarico, Franz Ferdinand, insieme a sua moglie Sofia.
Il tour termina davanti al monumento più simbolico della città, la Viječnica, la ex biblioteca di epoca asburgica oggi scintillante nei gialli e rossi moreschi restaurati. Una targa ricorda che la notte tra il 25 e il 26 agosto 1992 i criminali serbi hanno incendiato la biblioteca nazionale e universitaria della Bosnia-Erzegovina e che più di due milioni di libri, periodici e documenti sono svaniti nelle fiamme. "Do not forget, remember and warn!", è l'apostrofe finale. Qui non si fa riferimento al perdono ma in compenso si ordina di stare in guardia, che mi sembra un'attitudine molto più utile.

Racconto di viaggio "NEL CUORE DEI BALCANI. Esercizi di memoria tra Mostar e Sarajevo" 

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