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Il lago di Song Köl

Il Kirghizistan è un paese noto per gli spettacolari paesaggi di steppa, per i laghi alpini bluissimi, per i nomadi dagli occhi a mandorla. Una delle mete più gettonate è il lago di Song Köl, situato nella provincia di Naryn ad un’altitudine di 3016 metri. Esso è circondato da ampi pascoli estivi (o jailoo) e non ci sono strutture permanenti, ma da giugno a settembre i locali forniscono ospitalità nelle tipiche tende mobili chiamate yurte.
Il giovane e sorridente autista che mi conduce a Song Köl di norma fa l’apicoltore e non ha mai lavorato con i turisti prima d'ora; quando gli dico la cifra che è costato questo trasferimento in auto, sgrana gli occhi probabilmente accarezzando per la prima volta dentro di sé l'idea di cambiare settore lavorativo. Il giorno precedente l'affabile driver baffuto che mi aveva portato a Kazarman aveva avuto diversi problemi con il motore dell’auto, che si surriscaldava facilmente, mentre oggi il viaggio scorre via liscissimo tra paesaggi da cartolina.
Rozana, insieme alle due figlie adolescenti e al marito, mi accoglie nella yurta dove dormirò queste tre notti (in realtà il marito è quasi sempre assente e quelle che si fanno davvero il culo sono le tre donne). Nella struttura di lamiera dove si consumano i pasti, a disposizione degli ospiti c’è un tavolo sempre ben fornito di marmellate, frutta, frittelle e naturalmente tè, ettolitri di tè caldo a tutte le ore. La yurta è molto colorata e accogliente, mentre il bagno è un gabbiotto anch’esso di alluminio con un buco puzzolente nel terreno; per lavarsi i denti e il viso c’è un rudimentale rubinetto costituito da un contenitore capovolto e ci si può fare anche una specie di doccia in un altro box, con bacinelle di acqua calda e fredda.
Finalmente da ora in poi l’afa sarà solo un lontano ricordo, ma comunque fino alle 5 è ancora possibile esplorare i dintorni in maglietta: il lago è tanto grande e ondoso che sembra un mare, tutto intorno "buoni paschi per loro bestie" (che poi sarebbero i cavalli selvaggi, gli sparuti asinelli, le enormi mandrie di pecore, le mucche), prati sporadicamente punteggiati da chiazze di stelle alpine e diversi campi di case tonde di legname, coperte di feltro, quasi tutte atte ad ospitare turisti (che al momento, comunque, scarseggiano). Alcune vetuste Lada dai colori sgargianti hanno portato fin qui i gitanti kirghisi, che ora sono seduti a fare il picnic con i loro buffi cappelli di feltro e i denti di metallo che scintillano. Con la mano mi fanno segno di avvicinarmi e – una volta esaurito il modesto vocabolario a mia disposizione – è il momento di assaggiare il kumis, la schifida bevanda ottenuta dalla fermentazione del latte di giumenta; per fortuna qualcuno fa girare una più potabile bottiglia di vodka.
Quando faccio ritorno al mio accampamento, dei grigi nuvoloni hanno velocemente ingombrato il cielo. Mi rifugio nella tenda, un po’ spaventata dai tuoni fragorosi e dal vento formidabile che fa scricchiolare vigorosamente i pali di legno e oscillare tutta la struttura. Sbirciando dalla spessa stuoia che funge da porta, intravedo Rozana che mi fa segno di rientrare e sua figlia appesa ai cavi di due yurte, nello sforzo di non farle volare via: le guance sono due pomelli rossi e gli occhi mongoli due fessure contro la tempesta.
Alle sette è tutto finito, le tende sono ancora in piedi e la cena è puntualmente servita in tavola. Quando ormai è buio e mi appresto a ficcarmi sotto le coperte leopardate, una quindicina di coreani, profughi da un altro campo yurte collassato, chiede ospitalità da noi e la tenda tonda diventa un agglomerato di corpi europei e asiatici riscaldati dalla stufa che va a tutto vapore.

L’indomani sera le nostre yurte sono al completo: due polacche e un italiano sono arrivati a cavallo, una coppia di americani è giunta da Osh come me ma pagando una cifra ancor più spropositata al CBT, e poi molti norvegesi, americani, francesi, israeliani, neozelandesi eccetera provenienti da Kochkor. A parte passeggiare intorno al lago o andare a cavallo non c’è molto da fare, se non godersi l’aria di montagna, la luce epica e i movimenti del sole e della luna. A differenza di Leopardi non invidio la "greggia beata e libera d’affanno", che "gran parte dell'anno senza noia consuma in quello stato"; a me, "se seggo sovra l’erbe, all’ombra", magari a leggere, nessun "fastidio m'ingombra la mente" e non mi assale alcun tedio. D’altra parte Rozana e le figlie non fanno altro che lavorare duramente e in altri yurt camp stanno faticando parecchio a rimettere in piedi le tende collassate e insomma mi poteva andare peggio. La sera però, "quando miro in cielo arder le stelle", è inevitabile qualche elucubrazione filosofica: a che scopo così tante luci? qual è il senso dell’universo infinito? "che vuol dir questa solitudine immensa? ed io che sono?"
La domenica c’è grande folla convenuta per il National Horse Games Festival, uno show culturale organizzato dal famigerato CBT qui a Song Köl. Dopo una presentazione allietata da balli e canti tradizionali, gli artigiani illustrano agli occidentali come si realizza un tipico tappeto kirghiso di lana pressata, la nostra Rozana ci mostra come si preparano le frittelline tipiche (i boorsok), e finalmente il clou della giornata: gli horse games. Il gioco a cavallo più bizzarro è l'ulak tartysh, molto simile al buskashi afgano, in cui i partecipanti devono strapparsi di mano una carcassa di capra (che tra parentesi era stata ammazzata proprio dal marito di Rozana) e riuscire a infilarla dentro a una buca nel terreno. Quindi è il turno del romantico kyz kuumai, che ai più avveduti ricorderà l'antica pratica – ancora in vigore – del rapimento delle donne ai fini del matrimonio: un ragazzo e una ragazza, ognuno sul proprio cavallo, iniziano una specie di inseguimento; se l'uomo riesce a raggiungere la donna può scroccare un bacio mentre se non la raggiunge lei può inseguirlo e colpirlo con una frusta. A seguire il più banale wrestling a cavallo e infine un poco appassionante gioco in cui i cavalieri devono chinarsi verso il prato a raccogliere delle monetine.
Alla fine dei giochi torno a Kochkor con un Suv guidato dal marito di Rozana, il quale dunque era sempre via non per "ucellare" o per "fatti d'oste" (come avevo pensato prestando ascolto alle parole di Marco Polo), bensì per svolgere il servizio di navetta del CBT.

Racconto di viaggio "CANTO NOTTURNO DI UNA TURISTA ERRANTE"