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Gli eroi di Cheren

Munito del permesso governativo, senza il quale è impossibile recarsi in qualunque luogo dell'Eritrea all'infuori della capitale, il nostro gruppetto parte per Cheren, percorrendo una delle strade costruite nel periodo coloniale, che ci farà scendere di alcune centinaia di metri fino a raggiungere la seconda città più grande del Paese. La deviazione per Filfil è impraticabile poiché la strada è crollata: "Non a caso l'avevamo costruita noi, mica gli italiani!" ironizza l'ingegnere che ci fa da guida. "Non abbiamo imparato da voi..." Il paesaggio naturale è avvincente non solo per la presenza di montagne, campi terrazzati, acacie nane, eucalipti, fichi d'India e gigantesche euforbie, ma anche per i cammelli e gli asini sempre stracarichi, nonché per gli occasionali, vivaci babbuini. Rare le auto (la benzina costa due euro al litro), sporadici i bus strapieni, un po' più frequenti i camion. Ogni tanto potrebbe capitare di avvistare dei ciclisti professionisti, impeccabili con i loro completini aderenti in lycra.
Fu a Cheren, nei primi mesi del 1941, che si decretò l'inizio della fine dell'Africa Orientale Italiana. In una delle battaglie più sanguinose della Seconda guerra mondiale, tra le file dei valorosi militari sconfitti dai britannici (alpini, bersaglieri, camicie nere, soldati dell'aviazione e della marina) si sono stimati oltre dodicimila morti, dei quali solo tremila "nazionali": la maggior parte dei caduti furono infatti i soldati indigeni. Nel cimitero di guerra italiano ed eritreo di Cheren, che ci accoglie con la scritta "eroi" sul cancello di ingresso, riposano attualmente i resti di 618 italiani e 622 ascari, "popolazioni italiane e native unite in un solo pensiero di fede". Passeggiando tra le lapidi bianchissime, accarezzate da splendide cascate di bouganville fucsia e rosse, troviamo nome e cognome soltanto degli italiani, mentre sulle tombe degli ascari c'è sempre scritto IGNOTO. In realtà anche metà dei nostri connazionali non poterono essere riconosciuti, visto che le autorità inglesi di occupazione per circa un anno non acconsentirono al recupero dei resti dei caduti. Dall'altra parte della città c'è anche il cimitero inglese, dove hanno avuto degna sepoltura sia i soldati britannici sia quelli del Commonwealth (indiani del Punjab, sikh, senegalesi, sudanesi ecc.)
Nella periferia settentrionale, un po’ in collina, sorge il Santuario della Madonna di Dearit, "un luogo sacro preghiera e di accoglimento e non di divertimento o scenario per fotografare", dove "bisogna comportarsi con descenza nel vestirsi e nell'agire". Una piccola statua della Madonna nera vestita di rosa è stata messa dentro al tronco di questo grande baobab in omaggio a dei soldati italiani che a quanto sembra si salvarono dai bombardamenti inglesi nascondendosi proprio qui dentro. Poi i monaci cistercensi hanno costruito questo compound dove coltivano tantissime cose e dove ogni domenica mattina c'è la messa. 
Nel centro di Cheren, proprio accanto a una grande rotonda, sorge la chiesa di Sant'Antonio. Un lungo dipinto murale nei toni del blu situato al bordo della strada racconta l'epopea della guerra di liberazione dall'Etiopia, la più lunga lotta d’indipendenza d’Africa, che tenne impegnati gli eritrei per circa trent'anni. Nel 1991 le ostilità finirono e due anni dopo il 98% della popolazione votò in un plebiscito popolare per la definitiva separazione. La celebrazione della vittoria contro l'Etiopia è al centro della narrazione nazionale eritrea: le immagini dei “tegadelti" (combattenti di entrambi i sessi) sono presenti letteralmente ovunque nel Paese, con indosso dei pantaloncini cortissimi diventati iconici, per far vedere che risparmiavano persino sul tessuto dei vestiti ("più succinti erano gli shorts, più coraggioso era il soldato", scrive Michela Wrong). In seguito c'è stato un lungo periodo di “guerra non guerra” fino alla pace firmata l’8 luglio 2018, ma in realtà ancora adesso la tensione tra i due Stati cova sotto la cenere, soprattutto a causa delle dispute di confine (che non è mai stato chiaramente demarcato). 
Ogni lunedì a Cheren si tiene un pittoresco mercato del bestiame: l'Eritrea è ancora un Paese per lo più rurale e l'economia è basata principalmente sull'agricoltura di sussistenza e sull'allevamento di ovini e bovini. Il mercato è dedicato in primis ai dromedari, che qui sono molto chiari, quasi bianchi (quelli che cercano la fidanzata stanno schiumando letteralmente dalla bocca). Poi c'è l'area dei bovini, ancora molto usati come animali da traino, infatti alcuni venditori stanno mostrando l'efficienza di una coppia di buoi che trascina un aratro che credo di aver visto sul libro di storia del Medioevo. Man mano che raggiungiamo la zona più elevata della vasta area aumentano sempre di più le capre con il loro caratteristico odore: da quassù si può ammirare con un unico colpo d'occhio il grande numero di animali presenti, nonché l'eleganza dei compratori con i loro camicioni immacolati, zuccotti, turbanti e occasionali bastoni sulle spalle. Mi viene offerto un chai in una specie di bar ai margini del mercato, sotto una rudimentale tettoia: a caval donato non si guarda in bocca, ma avrei assaggiato anche il caffè scenograficamente versato dal bricco di terracotta in un bicchiere poggiato sul tavolino accanto a me. Mentre raggiungo l'uscita del mercato, noto due avventori che mi guardano di sottecchi mentre chiacchierano tra loro: stando alla traduzione della guida, uno dei due sta dicendo all'altro che sono la bianca più bella che abbia mai visto (forse non ne ha viste tantissime). 
Il lunedì c'è anche il coloratissimo mercato generale, ospitato nel letto del fiume, e in città c'è molta animazione: soprattutto le donne attirano la mia attenzione, sia le islamiche di cui si vedono soltanto gli occhi, sia le ortodosse con lo scialle bianco in garza di cotone. Una ragazza con il chador mi chiede un selfie.
A Cheren, come in tutto il Paese, sono molto diffusi i negozi di film e serie: visto che lo streaming non può prendere piede a causa della scarsa copertura di internet, i video – venduti a prezzi irrisori – vengono scaricati via bluetooth (e c'è già chi si lamenta dei "nostri giovani" sempre appiccicati al cellulare). In un ristorante mi mostrano i coupon che il governo socialista concede ogni mese ai privati cittadini e ai gestori di locali commerciali. Grazie alla consulenza di una guida al seguito di un influencersiberiano (uno dei pochissimi turisti stranieri incontrati durante il viaggio), apprendo che con questi buoni le famiglie eritree possono acquistare a prezzi scontati una serie di prodotti di base come carburante, olio da cucina, alimenti ecc. 
La vecchia stazione di Cheren cominciò ad operare nel 1923: oggi la linea ferroviaria Asmara-Biscia è stata smantellata, ma l'inconfondibile e famigliare edificio che ospitava la stazione, con la vecchia pensilina, è ancora presente, anche se necessiterebbe di un importante opera di restauro. Di fronte c'è un grande spiazzo che funge da stazione degli autobus, dove sono presenti alcuni venerandi mezzi non più in funzione. 
Torniamo ad Asmara percorrendo la stessa strada panoramica dell'andata. Ogni tanto nella boscaglia compare un autoblindo o un carro armato arrugginito, in genere di fabbricazione russa, risalente alla guerra di indipendenza, che non so per quale ragione attira moltissimo la componente maschile del gruppo. Inoltre andiamo a curiosare in un villaggio di tucul abitato dai Bilen, una delle nove etnie che vivono in Eritrea. Essi costituiscono circa il 2% della popolazione, a fronte di una maggioranza assoluta di tigrini e tigrè. All'interno dell'abitazione, divisa da una tenda in zona giorno e zona notte, al momento ci sono solo la mamma cinquantenne e la figlia diciottenne – bellissima – affaccendate in lavori donneschi, mentre i bambini sono a scuola. A giudicare dalla croce in cima alla capanna e dalle immagini religiose appese alla parete, si tratta di una famiglia cristiana, ma esistono anche i Bilen islamici. Le donne Bilen sposate si riconoscono da un gioiello posizionato al centro della fronte: si tratta di una specie di medaglia tenuta ferma da una serie di cordini.

Racconto di viaggio completo "DOLCE VITA ERITREA"

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