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Carnevale a Barcellona

Dalle maschere alle mascherine

Quando sono stata a Barcellona a fine febbraio 2020 l’ultima cosa che avrei immaginato era che, pochi giorni dopo, prima agli italiani e poi agli spagnoli sarebbe stato praticamente impedito di uscire di casa per circa due mesi e che quella città così affollata e vivace sarebbe apparsa spettrale e deserta come la maggior parte delle altre città del mondo. 
Nel volo diretto partito da Bari una buona percentuale di viaggiatori indossava una mascherina ospedaliera e io dentro di me ero combattuta tra il terrore e l’ilarità. Essendo gli ultimi giorni di Carnevale, una maschera non era del tutto fuori luogo, ma proprio di quel tipo non me l’aspettavo.
In quei giorni di fine febbraio erano già arrivate le notizie relative a un certo virus che aveva fatto molte vittime in una tal città cinese e che a quanto pareva era appena arrivato anche in Italia, per la precisione in un paesino della Lombardia che poi sarebbe diventato tristemente noto. Tuttavia l’OMS aveva subito sconsigliato di indossare le mascherine e per lungo tempo le comunicazioni (ufficiali e non) aggiungevano che sarebbe stato meglio lasciarle a chi ne aveva davvero bisogno.
Nonostante ciò, ero felicissima di tornare nella grande città dove più di vent’anni prima avevo trascorso alcuni giorni torridi di agosto e dove avevo vissuto dei momenti mai più dimenticati. Ripensavo a tutte le esotiche architetture di Gaudì, ai quartieri storici e a quelli restaurati in occasione delle Olimpiadi del '92, al messicano Renato che avevo conosciuto in un hostal sulla Rambla, a tutti i nomi spagnoli dei bicchieri in cui avevo bevuto birra e al concetto filosofico di tapas, nate (presi appunti allora) come tappi per impedire alle mosche di tuffarsi nella birra.
Nel volo di andata sull’aereo della Vueling mi era venuto in mente quel tizio di origine andalusa che lavorava come guardia civil e che mi aveva cucinato la paella usando ingredienti surgelati, e anche l'eclissi di sole che avevo osservato vicino allo stadio olimpico.
Per raggiungere la mia meta, a Barcellona, a fine febbraio del 2020 ho preso la metropolitana e poi sono scesa a Passeig de Gràcia, sbucando proprio di fronte a Casa Batlló, illuminata sapientemente nella sera. Poi ho camminato a piedi osservando la gente per le strade (alcuni in maschera poiché era l’ultimo sabato di carnevale), i negozi nepalesi, le cervecerie e i fruttivendoli. Infine sono salita in un appartamento al cuarto piso che, come si sa, corrisponde al nostro quinto piano.
Ho cenato in un ristorante, mangiando squisiti piatti di pesce e perfino la coda di toro, bevendo birra e poi vino e brindando con persone sconosciute che potevo toccare tranquillamente; infine ho ballato in un locale affollato, anche se la musica non era un granché, e ho finanche questionato con un avventore poco sobrio in merito all’indipendentismo catalano.

L’indomani c’era un sacco di gente al Tibidabo, la giornata era tersa e assolata, mentre in lontananza si vedevano i Pirenei con alcune cime innevate. I tavolini di alluminio della Barceloneta erano presi d’assalto per consumare birre Estrela e patatas bravas; la spiaggia poi era un sogno: sdraiati sulla sabbia senza scarpe a fine febbraio, mentre i venditori ti si avvicinavano con vassoi pieni di mojito.
All’ora del tramonto sono andata al porto di Barcellona in un trionfo di gabbiani che schiamazzavano, mentre il sole sfumava il cielo di arancione e Cristoforo Colombo era solo una silhouette nera che indicava col dito l’occidente. Il mio ricordo del porto, da ventenne, era invece notturno di musica e discoteche.
In quanto alle opere di Gaudì, oggi - a differenza del 1999 - per visitarle bisogna sborsare alcune decine di euro e dunque ho solo girato intorno alla Sagrada familia e alla Pedrera, però in compenso ho visitato per la prima volta l’Hospital de Sant Pau, il complesso modernista più grande d’Europa. Il vecchio ospedale cittadino fu progettato a inizio Novecento da Lluís Domènech i Montaner, lo stesso architetto del Palau della Musica, e costruito in una zona all’epoca abbastanza lontana dalla città, in modo da evitare la diffusione delle epidemie. Ironia della sorte, nemmeno un mese dopo la mia visita, il giornale "La vanguardia" dava la notizia che qui erano stati allestiti dei letti d'emergenza per il Covid. Il complesso comunque contiene strade, padiglioni in mattoni, chiesa, convento e giardini, con gallerie sotterranee che collegavano le diverse strutture, ed è ricco di bellissimi ornamenti come maioliche, tegole smaltate, elementi gotici, vetrate e mosaici.
Sono tornata al Raval e al Barri Gotic, sulla Rambla e alla Boqueria e ho rivisto il pub dove vent'anni fa avevo bevuto molta birra dalla caraffa e giocato ai giochi da pub, mentre per la prima volta ho visitato la Fondazione Joan Mirò (affrontando a piedi la salita del Montjuic), ho attraversato l'elegante quartiere dell'Eixample e mi sono rifugiata in un tapas bar del Poble-sec per ripararmi da un acquazzone.
E insomma mentre in Italia le mascherine andavano a ruba, a Barcellona ce ne stavano quante ne volevi perché qui proprio a nessuno gliene fregava niente del virus e forse avrei dovuto farne scorta per rivenderle da noi. E per tutti i mesi di lockdown ho continuamente pensato agli assembramenti nella Rambla e nei ristoranti e al museo e in pratica in tutti i luoghi dove ero stata a Barcellona a fine febbraio 2020.

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