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La verde Bursa

La scelta di andare a Bursa non è stata felicissima. Pamukkale o Efeso sarebbero valse decisamente più la pena, ma il fatto è che Pamukkale si trova a circa sei ore di autobus da Konya e da lì ce ne vogliono minimo nove per andare a Istanbul (Efeso peggio ancora, non ne parliamo proprio). Inoltre le vacanze turche non erano ancora finite e i voli erano tutti pieni o carissimi; e poi mi restavano solo tre giorni prima del rientro e, soprattutto, ero stanca morta. Insomma, Bursa mi era sembrata semplicemente la città più di strada di tutte, tra l’altro situata in una posizione invidiabile, tra il mar di Marmara e il monte Uludağ (l’Olimpo della Misia). Per arrivarci erano necessarie ben otto ore di autobus, ma ero contenta perché sarebbe stato l'ultimo sforzo.
Prima di tutto, ho cannato clamorosamente l’hotel, andando a finire in una zona collinare distantissima e mal collegata con il centro, forse allettata dalla parola “thermal” nel nome dell’hotel (le terme di Bursa sono famose sin dall'età romana), per cui al mio risveglio mi sono detta: Che ci faccio io qui? (In realtà me lo sono domandato pure dopo essermi trasferita in centro).
Anche a Bursa non sono riuscita ad acquistare il biglietto del traghetto online, né ho capito come raggiungere il molo dei ferry di Mudanya (che è comunque distante un’oretta), inoltre è impossibile prendere un mezzo pubblico perché serve una tessera che però non so come procurarmi visto che nessuno parla inglese, non ho trovato nemmeno un ufficio del turismo (le numerosissime travel agency pubblicizzate al primo piano dei palazzi sono tutte chiuse) e, dulcis in fundo, è la prima giornata afosa del viaggio. Insomma, provo un grande senso di frustrazione. In questi momenti comincio a mettere in discussione un po’ tutto, penso che forse avrei dovuto pianificare il viaggio prima di partire, invece di assecondare la mia mania per l’improvvisazione… ma poi mi dico: che ne sapevo io del Bajram? Come potevo prevedere di prendere l’influenza? Mi chiedo anche se non sarebbe stato meglio partire in gruppo, accettando anche i relativi compromessi, ma poi penso con orrore a tali relativi compromessi e mi dico che comunque è meglio stare da sola, pure se stanca e frustrata.
Nonostante il mio umore abbastanza sottotono, ho comunque visitato le principali attrazioni di Bursa: la grande moschea (Ulu Cami) costruita nel XIV secolo e l’attiguo gran bazar, la Yesil Cami, creata quando la città era già capitale ottomana, la Green tomb (il mausoleo del quinto sultano ottomano, Mehmed I, rivestito con le piastrelle verde-blu che gli danno il nome), il delizioso Museo di arte turca e islamica e il bazar coperto. Ho anche appreso che i locali vanno molto fieri del loro “İskender kebap” e anche delle castagne caramellate (kestane şekeri), che però non ho assaggiato.
A un certo punto ho avuto persino la malsana idea di prendere la teleferik che conduce al Monte Uludağ (la più importante stazione di sport invernali turca, a più di 1600 metri di altitudine), nell’ultimo tratto oscillando pericolosamente a causa del forte vento. Oltre al fatto che ero quasi certa di morire, non mi ero portata dietro nemmeno una maglia supplementare perché appunto in città si crepava di caldo e non avevo previsto di arrivare a quell’altitudine dove invece faceva decisamente freddo. Comunque una volta raggiunta la stazione della teleferik la gente va in bici o sui quad, passeggia, si dedica ai percorsi avventura e soprattutto arrostisce un sacco di carne.
Se a Konya avevo dato per scontato che sarebbe stato impossibile bere una birretta al bar, vista la sua reputazione di città tra le più religiose e conservatrici del Paese, a Bursa pensavo di trovare un contesto più aperto. La "Verde Bursa" è nota per i tanti parchi e giardini che ci sono in città, per le foreste e il clima fresco dell’area circostante e per le sue sorgenti di acqua potabile e termale: se tutto ciò (oltre alla vicinanza del mare) potrebbe apparentemente costituirne un valore aggiunto, in realtà – essendo questo un paese islamico – non è per niente una buona notizia, infatti tutto ciò attira molti arabi dei paesi del golfo, la cui sola presenza mi inquieta molto, oltre a rappresentare una delle cause del maggior rigore attuato qui.
Di posti dove vengono serviti alcolici due o tre ne ho visti, ma sono tutti di una tristezza incredibile, segnalati già da fuori come luoghi di peccato grazie a una speciale insegna con dei ghirigori (su fondo giallo o blu) e poi in qualche modo separati dall’esterno. Gli avventori sono quasi tutti maschi, la maggior parte soli, e il cibo è immangiabile; in quello dove sono entrata io c’erano due schermi che mostravano la stessa identica spiaggia tropicale con l’acqua del mare che scorreva per sempre sul bagnasciuga. Roba da farti passare la voglia di bere birra per sempre. Non che i normali ristoranti o cafè siano molto più allegri comunque: quello che più mi ha colpito a Konya e a Bursa è stata la penuria di sorrisi e di tentativi di socializzazione. Soprattutto, mi sono abbattuta nel vedere tutte queste donne vestite di nero, tristi e rassegnate, come d’altra parte gli uomini.

Galleria fotografica Ankara, Konya e Bursa

Racconto di viaggio "COSE TURCHE. Destinazione Cappadocia"

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